Ancora
oggi le grammatiche insistono, allorquando è illustrato il sostantivo,
sulla distinzione tra concreto ed astratto. E’ in primo luogo una
dicotomia e, come tutte le dicotomie, presuppone una concezione
dualistica. Non solo, tale divisione è di natura ontologica e non
linguistica. Vero è che la lingua è lo strumento in cui la realtà è
interpretata e persino “creata”, poiché un fenomeno si sporge
nell’esistenza, nel momento in cui è denotato.
Tuttavia l’antitesi astratto – concreto, inserita ex abrupto in
un discorso morfologico, è forviante. Ad essa soggiace una complessa
valenza filosofica e non può essere proposta come un’ovvietà. Che cosa
significa “concreto”? La materia è “concreta”? Ne siamo certi? Il nome
“Dio” è collegato ad un referente concreto o astratto? “Amore” è un
sostantivo astratto, poiché il denotatum non è tangibile? E’
evidente che questa opposizione, più di molte altre, è non solo di
sconvolgente superficialità, ma pure propaga la faciloneria fra gli
studenti già vittime di plagi quotidiani.
Semmai bisogna indugiare sulle ragioni per cui i sistemi linguistici
tendono a costruire delle coppie: attivo – passivo; singolare – plurale;
maschile – femminile; transitivo – intransitivo etc. Quest’impianto
dicotomico probabilmente rispecchia l’attuale funzionamento della mente
umana, la contrapposizione tra emisfero destro e sinistro. [1]
L’architettura dualista dei codici, lungi dall’essere connaturata
all’uomo, è il risultato di un processo con cui si è persa una duttilità
linguistico-cognitiva nonché la ricchezza dell’espressione poetica.
Molti idiomi antichi (si pensi, ad esempio, al greco ed al sassone)
erano triadici. Tra singolare e plurale esisteva il trait d’union del
duale; fra attivo e passivo si poneva il congiungimento del medio.
Tracce di un’ossatura tripartita oggi sono disseminate nelle lingue
contemporanee, come fossili, come relitti morfologici. Tra gli idiomi
indoeuropei solo lo sloveno ha conservato il duale.
Il movimento involutivo che ha condotto all’estinzione del tertium datur
pare, allo stesso tempo, “causa” e “conseguenza” di una regressione
concettuale. Tale declino spinge gli uomini di oggi a “pensare” in modo
manicheo, ad escludere dal ragionamento l’eventualità di una terza via,
le sfumature, le gradazioni… [2]
Il “pensiero” si è divaricato in una “logica” che non coincide con una forma mentis aristotelica, piuttosto con un infantile e del tutto emotivo “mi piace vs. non mi piace” (Facebook docet) o anche “ci credo vs. non ci credo”. Ecco che ci schiera con una parte o con un’altra, in un aut aut
che ricorda le veementi ed irrazionali partigianerie “sportive”. Dalla
glottologia alle reazioni pavloviane in àmbito “politico” il passo è
breve.
Tanti secoli di filosofia si sono inceneriti in bambinesche
attrazioni-repulsioni. Come si può ritenere che si generino forme di
consapevolezza e brilli qualche intuizione, se la ri-flessione si è
tanto appannata? L’intelletto tende a distanziare, a separare, smarrendo
l’unità. L’emisfero destro ed il sinistro non comunicano, non
interagiscono: si rimane scissi, la concettualizzazione diventa
schizofrenica. Il linguaggio dia-bolico si è incantato con il suo “nel
senso che”.
Il lògos si è plastificato nell’incastro dei mattoncini Lego.
[1] La dualità in oggetto ri-specchia e pro-duce una dualità che
inerisce a molti aspetti del mondo fenomenico, mentre l’anello di
congiunzione è un ri-flesso dell’essenza.
[2] L’altra faccia di questo non-pensiero è l’assenza totale di
discernimento per cui vero e falso sono intercambiabili, anzi confusi
nella stessa grisaille.
link: http://zret.blogspot.it/2013/08/concreto-astratto.html
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