E’ ovvio che Obama attacca Putin perché teme che la Russia – immenso serbatoio energetico – faccia da ponte tra l’Europa
e la superpotenza cinese. Ma sarebbe pazzesco pensare, solo per questo,
che Putin sia “qualcosa di sinistra”, e così il regime di Pechino. Lo
sostiene l’economista Joseph Halevi, riflettendo sui retroscena della crisi
mondiale, che lo scontro sull’Ucraina ha reso evidente. Trattare Putin
«come una specie di surrogato progressista»? Errore: «E’ questo che
rende la sinistra ovunque totalmente imbecille – dice Halevi – e
comincio a credere che lo sia sempre stata». L’attuale capo del
Cremlino, infatti, venne scelto dalla vecchia nomenklatura del Kgb,
l’unica che riuscì a tenere insieme la Russia che Eltsin stava mandando
in pezzi. Ma l’obiettivo era uno solo: «Bloccare la sicura vittoria dei
neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin». Tutto questo «venne
fatto dagli Usa, direttamente e soprattutto “via Europa”, per sostenere e rafforzare il potere di Putin, prima come premier e poi come presidente succeduto a Eltsin».
L’elemento saliente di quel periodo, ricorda Helevi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è la seconda guerrra cecena, combattuta tra il 1999 e il
2001. «La strategia militare elaborata da Putin implicò delle perdite
fortissime tra i civili residenti in Cecenia (sia ceceni che russi) e
questa violazione dei diritti umani non venne mai denunciata
politicamente e formalmente dagli “occidentali” perchè troppo importante
era Putin in relazione ad un possibilissimo ritorno al potere dei neo-comunisti». Altro errore, analogo: «Trattare la Cina come “qualcosa di rosso” perché c’è il Pcc al potere».
Altro caso di miopia che, sempre secondo Halevi, «rende una grossa
parte della sinistra completamente scema senza possibilità d’appello».
Il modo migliore di intepretare la nuova Cina? «E’ vederla come un
fenomeno ultra-bismarckiano», pur tenendo conto del fatto che «la
formazione di una potenza bismarckiana delle dimensioni della Cina pone
dei problemi per l’altra potenza», quella americana.
Una visione, questa, elaborata già nel 1999 dalla Rand Corporation.
Cina ultra-bismarckiana? A coniare la formula fu Zalmay Khalilzad,
afghano emigrato negli Usa diventato sotto Bush figlio e ambasciatore Usa
a Kabul dopo il 2001, poi ambasciatore in Iraq dopo il 2003 ed infine
ambasciatore statunitense all’Onu. Sul versante geopolitico, Khalilzad
spiega perchè – con la Cina di oggi – gli Usa
non possono avere rapporti di sola cooperazione amichevole o di solo
conflitto. «Pochi hanno colto la dimensione duale e contraddittoria
degli interessi Usa
in Cina, ma per coglierli basta studiare – leggendo il “Wall Street
Journal” e l’“International New York Times” – Walmart, Apple e la
General Electric». Quei colossi «sono in Cina per rifornire in primo
luogo il mercato Usa, in secondo luogo il resto del mondo, in terzo luogo per vendere sul mercato cinese in crescita asfissiante (letteralmente)».
Il successo della loro presenza in Cina «dipende dalla crescita cinese,
che è organizzata dallo Stato bismarckianamente».
Questa crescita, continua Halevi, significa «capacità di mettere in
piedi in breve tempo grosse strutture industriali con ampie economie di
scala e con ritmi di lavoro
parossistici». Tutto ciò «conferisce una dimensione concreta alla
globalizzazione». Esempio, il caso Apple, con iPad e iPhone «progettati
negli Usa, prodotti da una società di Taiwan ma localizzata in Cina», perchè «a Taiwan e nemmeno negli Usa
avrebbero potuto costruire, in poco tempo e con tutte le infrastrutture
di collegamento, un insieme di impianti che occupano oltre 700 mila
persone». Così, si è generato «uno iato crescente tra gli interessi
economici del capitale Usa e la capacità dello Stato Usa di garantirne gli interessi in maniera coerente». Per esempio, negli Usa si discute la necessità di far rivalutare la moneta cinese, lo yuan: «A non volerlo sono proprio le società Usa che operano dalla Cina».
Fino alla fine degli anni ‘90, prosegue Halevi, il mantenimento
dell’egemonia statunitense si fondava sul ruolo della spesa pubblica
federale (senza la quale il sistema militare, politico e finanziario non
funzionerebbe) e sul ruolo del dollaro. Due elementi che permettevano e
permettono il controllo delle cruciali zone energetiche del Medio
Oriente. Un analista come Zbigniew Brzezinski sostenne che il controllo
dell’arco energetico che va dall’Arabia Saudita all’insieme del Medio
Oriente pemette di “tenere al guinzaglio” simultaneamente sia il
Giappone che l’Unione Europea. «Giustissimo, per quel periodo», dice
Halevi. «Da allora, la Russia è emersa come superpotenza energetica e la
Cina come fulcro della produzione industriale mondiale, nonchè come asse dei meccanismi finanziari sui mercati delle materie prime, come il carbone».
«Insieme alla finanziarizzazione degli Oceani e soprattutto
dell’Artico – conclude Halevi – la dinamica dei prodotti finanziari
globali non è certo determinata dal debito pubblico italiano e dallo spread, bensì dalla Cina». Sicché, la formazione di un “continuum” economico tra Cina, Russia ed Europa,
Germania in primis, «è nei piani sia cinesi che tedeschi e russi». La
parte più debole meno coordinata è quella russa, «perchè il processo di
disgregazione dell’Urss apertosi nel 1991 è lungi dall’essersi concluso:
la Russia è una superpotenza energetica, ma come forza statuale è
ancora nel day-after del 26 dicembre del 1991». Per gli Stati Uniti,
dunque, «è essenziale che non si formi alcun “continuum” euroasiatico,
altrimenti entrerebbe seriamente in crisi la capacità dello Stato americano di proteggere coerentemente gli interessi del capitale Usa».
fonte: http://www.libreidee.org/2014/05/ue-mosca-e-pechino-soci-perfetti-e-lincubo-degli-usa/
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