A distanza di più di sei lustri dal periodo in cui emerse e scomparve la figura dell'hippie,
oggi molti credono che su di lui sia stato detto tutto, ma così non è.
In realtà, a quanto mi consta, buona parte di ciò che si è scritto in
proposito non lo riguarda. L'hippie, nel suo significato più
nobile ed essenziale, non aveva infatti nulla a che vedere con il
contestatore di sinistra, studente od operaio, con il reazionario di
destra, con l'intellettuale impegnato, con il "drogato" o con il barbone
mendicante, e neppure con il presunto artista che, insieme all'acqua
sporca dell'ipocrisia culturale dominante, gettava via il bambino della
bellezza atemporale.
Dato che la moda dell'hippismo non lo riguardava
menomamente, è dunque improprio affermare che su di lui sia fiorito il
mercato della pseudo-spiritualità contemporanea o che per suo tramite
siano dilagate nella nostra putrescente civiltà occidentale idee
antitradizionali quali la negazione tout court dell'autorità, il
pacifismo incondizionato o un comunismo orizzontale all'interno del
quale si pratichi la promiscuità sessuale; e neppure è lecito affermare
che attraverso di lui siano penetrate idee politico-sociali innovative
nel senso progressista in auge.
L'hippie, essendo un uomo del Tao,
si muoveva (o, meglio, si muove) fuori dal tempo e da una visione
dell'uomo e della vita irriducibilmente fondata sull'ignoranza (avidya).
L'illusione della Storia, il moto ondoso dell'apparire e scomparire
delle civiltà, la teoria dell'evoluzione, con i suoi derivati, e le
varie dottrine evoluzionistiche non gli interessavano; i suoi punti di
riferimento fondamentali e fonti di ispirazione erano la Natura e il
sapere-saggezza - a tutt'oggi vivo presso alcune tradizioni orientali -
che risveglia alla Conoscenza silenziosa (una non-conoscenza, da un
punto di vista ottenebrato). Parafrasando i primi versi del Tao Te Ching, si potrebbe dire: "L'hippie di cui si può parlare non è l'eterno hippie".[1]
In questo scorcio di Kali-yuga, egli va pertanto considerato come una testimonianza dell'archetipo dell'uomo irrudicibilmente libero (l'Adam Kadmon, l'Uomo universale, il Purusha) o, quantomeno, dell'aspirante alla Liberazione.
A
conferma di quanto sopra, basti ricordare quali fossero gli Autori, i
testi o le Scuole sapienziali ai quali egli attingeva: Meister Eckhart,
Angelus Silesius, Kabir, le Upanishad, la Bhagavad-gita, il tantrismo shivaita, il già citato Tao Te Ching , l'I Ching, i Maestri Zen o Ch'an illuminati, i saggi e i poeti Sufi,
Don Juan, uomo di conoscenza Yaqui, per non citarne che alcuni tra i
più significativi.
Si noterà come il denominatore comune di tale breve
elenco sia la Non-dualità.
La via percorsa dall'hippie fu dunque quella dell'Ineffabile - ovvero, stando alla terminologia sanscrita, nirguna:
priva di qualificazioni - circa la quale si può dire ben poco, pena il
travisarla, riducendola all'ennesima corrente pseudospirituale
accampante pretese di monopolio della "verità".
Una volta precisato apofaticamente il suo status metafisico, credo tuttavia sia necessario dare dell'hippie
un'immagine più concreta. Egli, innanzitutto, rifuggiva le città,
considerandole un'espressione della grave malattia nella quale è andata
gradatamente cadendo l'umanità;[2]
le mura, i grandi agglomerati di case, le strade senza asperità, la
ricerca della comodità ad oltranza, un'organizzazione sociale negatrice
di ogni dignità e libertà da che cosa nascono, infatti, se non dalla
paura della Natura sia nel suo aspetto femminile, che in quello
maschile?
Per chi si sia liberato dal plagio della «grande ipocrisia», alla quale già accennava Lao Tse duemila e seicento anni fa,[3] è palese che la tanto decantata civis condanna l'uomo ad uno stile di vita artificioso ed astratto, contrario al vero benessere e alla realizzazione del suo dharma
(dovere-destino) essenziale: la Conoscenza di Sè in quanto Uno-Tutto.
Nelle città l'individuo, pur essendo circondato da migliaia o milioni di
altri suoi simili, vive in una condizione di profondo isolamento ed
alienazione che lo impossibilita a comunicare (da cum-munire: edificare insieme).
Ne deriva l'imperativo del regressus ad uterum: il ritorno all'Origine atemporale attraverso la Madre-Shakti;
e incidentalmente occorre notare come tale orientamento - in cui la
Natura vale quale stigma del Divino - sia del tutto diverso da quello
caratterizzante un certo ecologismo, oggi assai diffuso e propagandato,
la cui preoccupazione principale consiste nel preservare la durata e la
salute della terra-oggetto soltanto per poterla più a lungo e meglio
sfruttare.
Evadere
dalla prigione-città non è però facile: per abbattere il muro interno
ed esterno in cui il burattino-schiavo dell'Era Oscura si dibatte sono
necessarie una grande forza ed una precisa conoscenza sovrasensibile che
l'istruzione scolastica e quella religiosa, coadiuvate da un esercito
di psichiatri, secondini della mente, hanno viepiù tentato di negare e
cancellare, soprattutto in Occidente.
Ecco allora apparire
provvidenzialmente all'orizzonte, insieme ad altre forme di iniziazione
valide ma meno deflagranti e rapide, le medicine estreme delle sostanze
psicotrope o "acque corrosive". Il fatto che siano "estreme" sottolinea
subito la loro pericolosità, almeno dal punto di vista
dell'identificazione nella soggettività.
Esse, se utilizzate in senso
liberatorio e sacrale, valgono infatti quali scorciatoie, esplosivi o
veleni capaci di abbattere resistenze tenaci, corrodendo una coscienza
di sé costipata nello spazio ristrettissimo di una visione di vita,
quella moderna occidentale, secondo il cui falso sapere l'uomo si riduce
ad essere soltanto un corpo ed una mente dicotomica.
Tale
impervio sentiero non è però spurio o riprovevole, come gli ignoranti
paludati da sapienti vogliono farci credere; esso infatti è stato
riconosciuto e pregiato presso molti popoli sin dalla notte dei tempi.
In proposito, va ricordato ante omnia l'avvaloramento autorevole di Patañjali, il codificatore dello Yoga, il quale scrive nei suoi Yoga Sutra, introducendo il quarto capitolo (Kaivalya Pada): «I poteri (siddhi) compaiono sia in virtù della nascita, che per mezzo di elisir, mantra, pratiche ascetiche, e per mezzo del samadhi».[4]
Malgrado alcuni commentatori occidentali neghino ogni relazione tra gli «elisir» citati da Patanjali e le "droghe" che gli hippies utilizzarono,[5] è evidente che con tale termine – che in una diversa versione, non ricordo più quale, suona assai più efficacemente: «piante che danno luce»[6] – si intendono proprio simili sostanze. Lo dimostra il fatto che a tutt'oggi in India i sadhu, soprattutto quelli shivaiti, assumono bhang e datura e fumano ganja, charas e hashish
a fini illuminativi o realizzativi.
È importante sottolineare che,
essendo tali sostanze considerate come ipostasi degli aspetti femminili o
maschili di Shiva, la loro assunzione equivale ad una sorta di
comunione col dio, l'unico che, nel vastissimo corpus mitologico di quella terra, fu in grado di assumere il veleno derivato dalla produzione dell'amrita, la bevanda dell'immortalità. Shiva è altresì il patrono per eccellenza o l'archetipo dei sadhu, degli yogin, dei sannyasin, degli aghorin, degli asceti-tapasvin, dei tantrika, ovvero dei mahavira, i grandi eroi dello Spirito che percorrono la via del ritorno (nivritti marga) alla Realtà ultima.[7]
Quanto
sopra non dev'essere interpretato, si badi bene, come un
incoraggiamento ad usare in modo superficiale le piante di potere, bensì
quale argomentazione a sostegno dell'uso spiritualmente valido che ne
fecero gli hippies. Le stesse, infatti, se usate soltanto a fini
ludici, vanno né più né meno equiparate alle sigarette, all'alcool, alla
televisione, agli psicofarmaci e alle numerose altre "droghe", più o
meno nefaste, spacciate come lecite o illecite, a seconda del
tornaconto, nella nostra società.
Gli hippies
comunque non consideravano tutte le sostanze psicotrope valide ai fini
della liberazione dall'ignoranza, ma tendevano a prediligere quelle
naturali, le stesse usate dai sadhu indiani, con l'esclusione
degli oppiacei (in particolare, morfina ed eroina) - che ottundono la
coscienza invece di espanderla ed acutizzarla - e in genere di quelle
che danno gravi effetti di dipendenza. Tra gli allucinogeni (naturali o
sintetici) ebbero grande importanza l'LSD – sostanza semisintetica
poiché per produrla è necessario partire sempre dall'alcaloide della
segale cornuta –, la datura stramonium o, meglio, inoxia (la varietà più potente che cresce ai tropici) e il fungo psilocybe.
La morfina e l'eroina vennero introdotte negli ambienti dei giovani non omologati dall'establishment con il preciso intento di distruggere e vanificare dall'interno le loro istanze di liberazione. «We can change the world»
faceva paura: non si poteva accettare che dal recinto degli schiavi
produttori di energia qualcuno fuggisse. Molti caddero nella trappola,
ma non tutti. Quei pochi che in India vennero iniziati da autentici Baba
all'uso sacrale del chilum si sottrassero all'eccidio.
La consapevolezza che il chilum di ganja
o l'LSD sono soltanto strumenti, il dito che indica e non la luna
indicata, permise a costoro di non affondare nei pantani della
dipendenza e di volare leggeri verso il Sole ineffabile.
Sull'LSD,
comunemente detto "acido", sono state dette e scritte molte cose:
secondo taluni ditruggerebbe le cellule cerebrali, secondo altri
provocherebbe «danni e aberrazioni cromosomiche, specie rottura e diploidismo» o indurrebbe al suicidio,[8] ecc. Ecco che cosa ne pensa lo scopritore Albert Hofmann:
«Era cattiva informazione. Con assoluta certezza l'acido non produce dipendenza, non distrugge cellule, non ha controindicazioni mediche. L'unico problema è essere pronti a superare la prima volta. Lo shock della rivelazione. Ci sono stati casi di ragazzi che non sono più riusciti a tornare indietro con la testa».[9]
Personalmente, avendolo sperimentato ad abundantiam, soprattutto a Goa, nelle vicinanze dell'allora minuscolo villaggio di Anjuna, durante le grandi feste psichedelico-tantriche (full moon parties)
del '71, posso dire in tutta sincerità che la sua assunzione esponeva
ed espone a seri pericoli: la maggior parte degli individui non riesce a
reggere la rivelazione abbagliante sulla divinità della propria natura
intrinseca e al minimo accenno di dissolvenza della «descrizione del
mondo» – per usare una locuzione cara a Don Juan - va "fuori di testa".
Se prima della rimozione più o meno violenta del velo misteriosamente
steso sulla Realtà non ci si è meritata l'iniziazione di un autentico Guru,
è assai improbabile che di punto in bianco si riesca a conciliare
l'evidenza di essere nel contempo un dio ed un microscopico frammento di
vita condizionato da mille necessità. E neppure si riesce a comprendere
come la nozione ordinaria di realtà possa convivere con l'indefinita
molteplicità delle dimensioni coesistenti qui ed ora; l'onda deve morire
all'illusione della propria separatezza se vuole risvegliarsi oceano.
In questa difficoltà va ravvisata una tra le principali ragioni per le
quali nel Mondo Antico le iniziazioni ai Piccoli o Grandi Misteri
venivano rese accessibili soltanto ad aspiranti dotati di precise
qualificazioni, in primis la disponibilità a confrontarsi con la
morte iniziatica: la rinuncia all'identificazione in quel che non si è.
Occorre precisare, però, che per un numero esiguo di giovani quelle
esperienze valsero quali chiavi capaci di schiudere porte sull'Infinito.
Durante i cinque o sei full moon ai quali partecipai non si usavano soltanto LSD, ganja o hashish, ma anche molte altre droghe, alcune delle quali ancor più pericolose, per esempio la datura inoxia.
Quest'ultima, infatti, oltre a produrre effetti immediati assai
sgradevoli (nausea, abbassamento della vista, atrofia della gola con
conseguenti inibizioni della parola e del gusto) immerge tanto
subitaneamente negli imi della multidimensionalità dell'universo da
indurre lo sperimentatore non qualificato alla follia, relegandone la
coscienza nelle tenebre dell'inconscio.
Essa, divorando in un sol
boccone ogni possibilità di riconoscersi nella percezione ordinaria,
toglie all'istante qualsiasi sostegno. Se ne possono masticare i semi,
bere decotti di ogni sua parte, fumare i fiori o le foglie. Ho visto
giovani morirne, cadendo da rocce o alberi, altri tornare allo stato
ordinario dopo alcune settimane senza ricordare nulla, e altri ancora
non riuscire più a recuperare il proprio equilibrio psichico. È una tra
le piante di potere preferite dagli Stregoni-Sciamani, giacché,
attingendo all'akasha, l'etere onnipervadente, rivela la rete
impalpabile secondo cui ogni cosa è unita al tutto e mette in contatto
con la memoria della Terra e del Cielo.
I popoli arcaici la utilizzavano
con estrema cautela e riverenza per comunicare con gli antenati e i
mani e ricordare il Tempo delle Origini. Un suo aspetto esaltante e
temibile insieme è che può modificare in modo indelebile la struttura
sottile della percezione.
Chissà per quale ragione, tra i pochi che
conservano frammenrti di ricordi, quasi tutti affermano di aver visto
giganti. Superfluo dire che la si sconsiglia vivamente, a meno che a
proporcela sia un autentico Maestro in grado di assisterci.
Il filo conduttore dell'esperienza psicotropa era il motto all right now,
"tutto è bene ora"; secondo la prospettiva di quelli che aspiravano
alla visione illuminativa irreversibile, trattavasi pertanto non di una
semplice evasione, contestazione, protesta o "sballo", bensì di una
sorta di "suicidio" dell'ego o della mente dicotomica fondato sulla
consapevolezza innata (ma comunque accuratamente coltivata per tutta la
vita), o ricevuta tramite iniziazione, di essere uno con Shiva, il Bene
supremo trascendente ed immanente ad un tempo ed anteriore ad ogni
pensiero.
Per fortuna, durante tali feste, arrivarono, atratti dalle potenti emanazioni psichiche e spirituali degli hippies, alcuni sadhu shivaiti la cui preziosa presenza aiutò i "predestinati" ad incanalare l'energia cosmica ascendente – nella terminologia yoga detta kundalini: sintesi dei princìpi maschile e femminile - nel sottilissimo canale mediano (susumna) sfrecciante oltre i due estremi dell' autogratificazione e dell'autodistruzione egoica, dell'attacamento e della rinuncia, del bene e del male, del paradiso e dell'inferno.
In
sintesi, usare le piante di potere è un po' come interrogare un oracolo
al quale si chieda chi si è realmente: una risposta chiara si otterrà
soltanto se la domanda sarà ben posta. E, una volta ottenuto quello che
si desiderava sapere, sarebbe assurdo tornare reiteratamente a chiedere.
Insospettiscono perciò quei sedicenti hippies che a distanza di trent'anni continuano ad usare quotidianamente il joint o il chilum,
magari mescolando le piante sacre con il tabacco di sigaretta. A me
pare che costoro non si rendano conto che, unendo l'erba o l'hashish
alle sigarette, si precludono la possibilità di ricevere influssi
illuminativi e, invece di accedere a spazi di più ampia gioia e libertà,
si confinano in gravi forme di schiavitù e dipendenza.
Il tabacco di
sigaretta è infatti un veleno mortale sia per il corpo che per l'anima;
esso uccide forse più lentamente dell'eroina, ma il suo scopo è lo
stesso: indirizzare le aspirazioni al sacro e all'estasi verso le paludi
del nichilismo. La faccenda sarebbe del tutto diversa se si usasse
tabacco naturale, come del resto facevano i sadhu di quell'India
non ancora del tutto occidentalizzata (e dunque non inquinata
chimicamente) di trenta o trentacinque anni fa e della quale ora non
rimangono che minuscoli frammenti.
In ogni caso, anche l'uso prolungato dell'erba e dell'hashish
puri o mescolati con tabacco naturale non è esente da effetti
collaterali negativi: spossatezza, problemi di digestione, una certa
assuefazione psichica, ecc.; la cosa migliore sarebbe assumerli
saltuariamente, in un contesto ritualizzato o sotto la guida di un
maestro.
Insieme
alle sostanze psicotrope, altro ingrediente fondamentale di quelle
feste e, più in generale, dell'esperienza psichedelica fu la musica rock. Tra gli hippies
che stazionavano ad Anjuna nel '71 correva voce che alcuni esponenti
degli Who, passati di lì poco tempo prima, avessero loro donato un
sofisticato impianto hi-fi con due enormi casse nere per la
diffusione del suono. Qualunque fosse la sua provenienza, l'impianto
c'era, custodito all'interno di un tee-pee in un valloncello che
si affacciava sul mare, e posso garantire che la sua potentissima
presenza si faceva sentire.
Negli stati di coscienza intensificati ed
espansi nei quali ci trovavamo ascoltare a tutto volume Who's Next, con l'indimenticabile Won't Get Fooled Again, Sticky Fingers, degli Stones, In Search of the Lost Chord dei Moody Blues, Eric Burdon and the Animals, i Jethro Tull e molti altri dischi e band fu davvero un'esperienza che aprì in modo irreversibile alcune porte (cakra)
dentro di noi. Immagino che altri, come me, si saranno chiesti: «È
musica oggettiva quella che si espande nell'aria, intrecciandosi con il
pacato sciabordio delle onde sotto la luna, oppure si tratta di
vibrazioni della mia anima assumenti forma intelligibile?».
Avevo
rincontrato pochi giorni prima una ragazza italo-francese di nome Elian e
una voce, in non so quale canzone, mi ripeteva insistentemente: «The secret is Elian, the secret is Elian...», mentre il ritmo mi sospingeva verso il maithuna, le nozze alchemiche, quasi fossi stato un'epifania dello stesso Shiva vagante stoned (ubriaco) di bang e datura nella foresta in cerca della Shakti. Incontrai la tigre, «divampante folgore / Nelle foreste della notte»;[10] vidi sulla fronte di Elian uno svastika
azzurro ruotare lentamente; in quel segno senza tempo precipitai,
anch'io ruotando, stella a cinque punte, con le braccia spalancate; vidi
la Terra volare nello spazio; udii il Pranava, il suono cosmico Om,
la Voce di Dio.
Sulla riva del mare inargentato dai raggi di Chandra,
con i piedi lambiti da piccole onde, mi abbandonai all'estasi di Shiva
Nataraja, il dio della danza, travolto dalle note rapinose di Bitch.[11] Ad un tratto mi ritrovai con un libro aperto tra le mani e lessi:
«Abbiamo bevuto il Soma, abbiamo visto gli Dei, siamo diventati immortali».[12]
Verso
l'alba, l'accampamento si era stranamente diviso in due metà: da un
lato si agitavano i "cattivi" che emanavano taglienti pentacoli
capovolti, camminavano sul fuoco, celebravano sacrifici di sangue,
mangiavano carne cruda, evocavano animali feroci e demoni, gridavano mantra terribili laceranti le orecchie; e dall'altro ondeggiavano i "buoni" con sitar,
bellissime ragazze, cibo squisito, canti angelici, ghirlande e fiori
tra i capelli.
Al centro correva una sottilissima linea invisibile,
sulla quale, forse in virtù del fatto che avevo già incontrato a Kashi
il mio Baba iniziatore, mi "svegliai" consapevole di non essere soltanto
un piccolo "io" con nome e cognome, data di nascita e di morte, bensì
l'Io Sono Vita. La dualità esterno-interno, bene e male, nascere e
morire era sparita, dissolta dal tocco risolutore dell'Ineffabile.
Dai fool moon
di Goa i giovani (ma vi erano anche individui di quaranta o più anni)
colà convenuti da ogni parte del mondo prendevano diverse strade:
alcuni, costeggiando il mare per una decina di chilometri, si dirigevano
verso Arrambol, "Il lago della tigre", un luogo affatto selvatico con
un grande banyan, un meraviglioso laghetto a pochi passi dal
mare, diversi felini, scimmie, serpenti e tartarughe, dove ci si poteva
dedicare allo yoga o alla sperimentazione della datura che lì cresceva abbondante; altri si immergevano nell'India profonda ed incontaminata per partecipare allo Shivaratri
di Hampi, o per rendere omaggio ai più disparati luoghi sacri,
soprattutto al Nord, dato che coll'avvicinarsi della primavera nel
Centro-Sud cominciava a fare piuttosto caldo; e altri ancora, i più, si
sottomettevano ai numerosi "guru" ad hoc che «l'India borghesuccia»[13] sfornava per gli occidentali.
Personalmente,
giacché visitai Goa in tempi diversi, ebbi modo di andare ad Arrambol,
ad Hampi e, dal '73 al '75, di assistere al vero e proprio esodo verso
Rajneesh. Anche a me fu chiesto di conoscere "Bhagwan", a Poona,
ma, sebbene spesso l'invito provenisse da splendide ragazze, ogni volta
rifiutai poiché avevo già incontrato il mio Maestro - un sadhu
senza nome che mi tenne con sé a Kashi per tre mesi e poi mi condusse
oltre Rishikesh, alle sorgenti di Madre Ganga, dove scomparve -, e
inoltre mi urtava il fatto che tutto si dovesse pagare: ingresso nell'ashram, mala (collana di grani di legno con appesa l'immagine del maestro), iniziazione, meditazioni varie, ecc.
Gli hippies
furuno gli ultimi occidentali a poter calcare la via dell'Oriente in
piena libertà. Essi amavano sia il viaggio interiore che quello fisico,
considerandoli un tutt'uno. Percorsero il lungo tragitto dall'Europa
all'India e al Nepal con treni, autobus, automobili o pulmini preparati
in modo speciale, o altri mezzi di fortuna, spesso senza denaro e
passaporto. I popoli islamici li guardarono con simpatia, intravvedendo
in essi consonanze con la follia sufica.
L'India del Sanatana-dharma li accettò e Shiva li prese sotto la sua protezione.
Per
quanto mi riguarda, cominciai a "viaggiare" a diciott'anni, nel '65,
allorché, dopo essermi fortunosamente diplomato, me ne andai a Roma in
Piazza di Spagna, prima con una vespetta cinquanta e poi in autostop.
Colà, i primi "capelloni" italiani cantavano le canzoni dei Rokes,
solidarizzavano tra loro, bevevano vino e andavano a dormire a Villa
Borghese, senza che Carabinieri o Polizia li disturbassero troppo.
Ma il
mio vero viaggio iniziò a ventun'anni, nel '67, allorché, finito il
militare, abbandonai i miei genitori, l'università e il lavoro per
andarmene a Genova con la fanciullesca idea (avevo letto molti libri di
avventure) di imbarcarmi come mozzo per l'Oriente.
A Genova, in Piazza
de Ferrari e nel dedalo di carruggi della città vecchia, conobbi molti
altri giovani nelle mie stesse condizioni, mi innamorai, sperimentai per
la prima volta l'erba, l'hashish e l'acido e scopersi finalmente il grande rock (erroneamente definito "musica leggera") e la musica indiana.
Mi trovavo in una soffitta di una vecchia casa in Piazzetta San Bartolomeo dell'Olivella quando feci il mio primo tiro da un joint
d'erba; sul piatto del giradischi stavano sospesi su una lunga asta
otto LP: il doppio bianco dei Beatles, i Vanilla Fudge - con la loro
lunga e magica versione di Season of the Wicth di Donovan -, i Moody Blues, Wanderwall di George Harrison, The Pretty Things, Ravi Shankar ed altri.
La scoperta della musica rock
mi colpì come una sorta di eucatastrofe: i suoni, i colori e le forme
vibravano all'unisono davanti al mio occhio interiore, dando vita a
strutture mandaliche innumerevoli e portando in superficie il magma
dell'inconscio; per la prima volta la serpe annodata della Kundalini si sciolse nel plesso solare e dal muladhara cakra
iniziò la sua ascesa verso l'alto.
La paranoia della polizia che
serpeggiava tra i presenti mi apparve come una parata di denti-soldatini
sorridenti nella bocca di un drago e ciò mi permise di comprendere che
si è e si vive quello che si pensa: la monolitica realtà oggettiva,
circa la cui unicità ci avevano persuaso sin dalla nascita, finalmente
crollava al soffio soave e potente della Signora in Verde, l'Erba; oltre
le sbarre divelte si intravvedevano vasti orizzonti, mentre qualcuno
cantava «la realtà non esiste».[14]
Poco dopo sperimentai l'LSD e scoprii la musica di Claudio Rocchi: l'unico tra gli italiani che, avendo colto lo spirito hippie, era in grado di reggere il confronto con i musicisti anglo-americani; i suoi "voli magici" sapevano davvero far viaggiare.[15]
A Genova, ispirato prima dalle letture di William Blake, di Baudelaire e dei poètes maudits, poi da Ginsberg, Kerouac e Burroughs scrissi in una prosa veloce e poetica un libretto, Anatema, che si rivelò profetico per me e forse anche in parte per la mia generazione. Esso si conclude con le seguenti parole:
«Rinnego totalmente l'occidente, questa parte del mondo in cui regna la fretta e dove gli uomini vivono le proprie vite come carni da macero e dove capelloni, vecchi, studenti, impiegati, ladri, poeti, prostitute e signore, tutti quanti insieme, non sanno far altro che esultare e abbracciarsi perché due stronzi camminano sulla luna.
Rinnego senza esitare l'Europe aux anciens parapets, quest'insondabile e vecchio animale dove solo con estrema fatica possono, di tanto in tanto, crescere vagabondi straccioni illuminati; patria di centenarie generazioni d'ombra, su di essa io sputo e sopra la sua carcassa di vecchie e ridicole glorie, in attesa di andarmene lontano».[16]
Immediatamente
dopo, insieme a Marina e alla sua bambina di tre anni, partii via terra
per l'India. Giunti in Afghanistan, dovemmo però fermarci poiché
imperversava l'ennesima guerra fratricida – lascito dei civilissimi
inglesi - tra l'India e il Pakistan. L'incontro col mondo islamico fu
davvero magico e sorprendente: rendersi conto che esistevano tradizioni e
modi di vivere del tutto diversi da quelli occidentali valse quale
ulteriore e potente rivelazione. Gli afghani guardavano gli hippies
con divertita curiosità e rispetto, ma in loro non albergava alcun
senso di inferiorità; quegli uomini e quelle donne (queste ultime ebbi
modo di vederle a viso nudo all'interno di alcune case in cui venimmo
ospitati) erano manifestatamente contenti e fieri della propria
Tradizione e del proprio stile di vita fermo nel tempo.
Agli
ottenebrati che credono nella supremazia assoluta dell'Occidente -
prima cristiano e adesso tecnologico e scientista - sembrerà una cosa
assurda, ma per gli hippies era assai più gratificante vivere in
mezzo a quella gente semplice e fiera piuttosto che nelle inquinate
città dalle quali provenivano. In Afghanistan ci si poteva sedere per
terra; si poteva fumare hashish puro in meravigliose pipe ad
acqua quanto e dove si voleva, sorseggiando tè verde; quotidianamente si
ascoltava e suonava musica per le strade; nel raggio di centinaia di
chilometri non si intravedeva la benché minima ombra di
fabbriche-prigioni sputaveleni e i mezzi di locomozione continuavano ad
essere soprattutto cavalli e cammelli; i cibi erano squisiti ed
assolutamente naturali; la vita costava pochissimo; il senso del sacro
era vivo e palpabile e non di rado capitava di incontrare occhi accesi
da una luce particolare. In sostanza, in quel Paese, che la propaganda
anglo-americana ci ha di recente dipinto quale emblema delle peggiori
barbarie, noi ci sentivamo liberi.[17]
Il
rigetto della tecnologia e del becero tradizionalismo imperante non era
comunque espressione di una moda o di un atteggiamento esterofilo,
esotico o superficiale, bensì derivava dalla comprensione – suffragata
da una Tradizione sapienziale pressoché universale definita da A. K.
Coomaraswamy Philosophia Perennis - dell'inutilità di perseguire
mete effimere, assumendo abiti mentali menzogneri e violenti. Il
distacco era volto sia all'esterno che all'interno: l'hippie,
ispirato dalla grazia del Mistero, sapeva che soltanto la soluzione
dell'ignoranza al fondo di sé può favorire la nascita di un mondo
armonico e bello, affrettando l'arrivo del Kalkin Avatar.
Fu
quindi nell'ottica di un superamento della dicotomia esterno-interno
che il passaporto e il denaro - i quali, pur essendo in sé e per sé solo
carta straccia o semplici strumenti per nutrirsi e viaggiare,
simboleggiavano l'attaccamento ad una identità artificiosa - vennero
rifiutati. Basta un attimo di riflessione impersonale per realizzare,
almeno intellettualmente, che, prima di essere un nome e cognome
(l'onda), siamo l'Io Sono Vita onnipervadente (l'oceano), in sanscrito
l'Atman.
Non si semina denaro per produrre grano, riso o frutta, e
non abbiamo chiesto noi di vivere e di essere quello che siamo; perciò,
se esiste uno stomaco preposto a precise funzioni, esisterà
necessariamente un cibo adatto a lui. In una conversazione con Shri
Pillai, Shri Ramana Maharshi, il saggio di Arunachala, affermava
eloquentemente:
«Qualsiasi fardello venga posto sulle spalle di Dio, Egli lo porta. [...] Sappiamo che il treno porta tutti i carichi, e quindi, dopo esservi saliti, a che serve portare il nostro piccolo bagaglio sulla testa e stare scomodi, invece di deporlo sul pavimento e metterci a nostro agio?».[18]
Prima di cacciare o di faticare, coltivando la terra, l'uomo si sostentava raccogliendo quello che la Natura gli offriva.[19]
Il concetto di lavorare per vivere è dunque assurdo e sbagliato e
contrassegna l'Era Oscura nella quale stiamo annaspando. Ne consegue che
l'hippie, rigettando passaporto, denaro e lavoro, aspirava, in pieno Kali-yuga, a vivere nel Satya-yuga,
l'Era della Verità e della spontaneità.
Parrà strano e persino crudele,
ma il mio Maestro mi insegnò che l'attuale genere umano si divide
sinteticamente in due categorie: quelli che, essendo soggetti
all'ignoranza principiale (avidya), pagano la vita, e quelli che,
essendosene liberati coll'abbandonarsi a Shiva - la Realtà indescrivile
e intelligente che si prende cura di se stessa -, ottengono ricchezza e
beatitudine senza compiere il minimo sforzo. I sadhu vanno però
distinti dai mendicanti e infatti, nell'India tradizionale, offrire loro
cibo costituisce un privilegio e fonte di meriti spirituali, non
un'elemosina.
La
Verità è semplice ed accessibile a chiunque voglia fermarsi un attimo a
considerare la realtà con la mente sgombra da pregiudizi ereditati per karma o assorbiti dall'ambiente. Ed essa è stata custodita sino a non molto tempo fa in India, senza veli. Ecco perché l'hippie
riteneva che la mèta per eccellenza del suo peregrinare fosse quella
terra.
Nel mondo islamico o cristiano la Conoscenza non-duale si è
sempre dovuta nascondere, pena la morte o l'anatema, ma nell'India
eterna circola libera per le strade. Purtroppo non si può dire
altrettanto dell'India occidentalizzata, dove l'ipocrisia religiosa,
l'immedesimazione nell'apparenza, il miraggio del benessere tecnologico e
la parodia della democrazia sono in fortissimo aumento.
Già agli inizi degli anni Settanta, durante il governo di Indira Gandhi, i sadhu,
soprattutto quelli tamilici del Sud, le cui figure selvagge sembravano
emergere intatte dalla notte dei tempi, venivano visti di cattivo occhio
e perseguitati. Da fonti popolari, e quindi presumo attendibili,
appresi inorridito che la polizia di New Delhi e di altre importanti
città del Nord aveva ricevuto l'ordine di catturarli e castrarli.
Parallelamente, le droghe da essi usate, in particolare l'hashish e la ganja,
che sino a poco prima non erano soggette a restrizioni, tanto da poter
essere acquistate in negozietti governativi insieme a piccoli chilum
d'argilla, venivano viepiù proscritte e chi le possedeva andava
incontro a seri guai. Del resto è evidente che la semplice esistenza dei
sadhu, il culto delle vacche, degli alberi, dei fiumi, delle
montagne o di divinità tero-antropomorfe e l'uso delle piante di potere
sono espressioni di una vita primordiale e atemporale antitetica alla
civilizzazione.
In
proposito, ricordo bene come la sera di Natale del '72, a New Delhi, un
folto gruppo di indostani idolatri del mito occidentale, in blue jeans e magliette, irruppe ad Hannuman Park, dove stazionava una colonia di hippies insieme a qualche sadhu,
per bastonare, distruggere e incendiare. Io stesso, avendo tentato di
recuperare il sacco a pelo che, dopo otto mesi trascorsi senza neppure
una coperta, un amico mi aveva regalato il giorno prima, ricevetti
tre colpi violentissimi.
Agli occhi di quei fanatici noi
rappresentavamo la mano che strappava il velo delle loro illusioni; la
nostra sola presenza diceva loro: «Vedete, pur provenendo da quel ricco e
progredito occidente al cui stile di vita agognate, noi siamo tornati
nella vostra terra a piedi nudi, a torso nudo, senza denaro, per
attingere alla sapienza dei sadhu e delle selve che voi
stolidamente rifiutate; sappiatelo: la civiltà occidentale moderna non è
in grado di offrire né conoscenza, né felicità».
Nella loro intensa aspirazione ad evadere dagli schemi ipocriti che la nostra società pretende di imporre urbi et orbi, gli hippies
intuirono l'importanza di rimparare a vivere insieme secondo norme
adatte a favorire la realizzazione dell'uomo, sia nel suo aspetto
universale, dharma, che individuale, svadharma, e non di inibirla, producendo schiavi ed eunuchi dello Spirito.[20]
Fu così che sorsero le prime comunità. I problemi da superare erano invero enormi ed essendo noi cresciuti «in quella prigione dove ti hanno insegnato ad amare poche persone alla volta», come canta Donatella Bardi ne La tua prima luna
di Claudio Rocchi, le difficoltà maggiori riguardavano l'amore, i
rapporti interpersonali, l'autorità, la proprietà, la mancanza di
magnanimità, ecc. A posteriori, si può ben dire che, dopo alcuni
anni di intense sperimentazioni, gli ostacoli non vennero superati,
almeno all'apparenza, e che il fenomeno delle comunità si esaurì.
C'è
però una prospettiva più profonda, secondo la quale tali avventure
prepararono la nascita, agli inizi degli anni Ottanta, di comunità
magari piccolissime e invisibili, ma capaci di reggere alla prova del
tempo e delle difficoltà sopra accennate. Dai tentativi comunitari degli
anni Settanta, germinarono pure i Rainbow Gathering e l'idea degli ecovillaggi che oggi affascina tanti "alternativi", pur stentando a decollare.[21]
Per
vivere in una comunità non omologata agli schemi ideologici correnti,
occorre essere pervenuti ad un certo grado di maturazione coscienziale e
di generosità: se non ci si auspica che anche gli altri beneficino del
nostro stesso piacere e della nostra abbondanza, nessun cenobio o
convivenza armonica sarà mai possibile. Il cammino che conduce a tale
mèta principia col rendersi conto di essere stati plagiati, ovvero di
giacere gravemente malati. Indi ci si dovrà decondizionare, rimettendo
in discussione il coacervo di abitudini acquisite e rimuovendo le cause
dell'obnubilamento.
Ciò richiederà un'intensa attenzione; ogni volta che
si "sente", "vuole" o "desidera" sarà opportuno domandarsi: «Chi sente,
vuole, desidera? L'io reale o quello illusorio?». In tal modo si
comincerà a scendere attraverso le sedimentazioni artificiose
accumulatesi in noi, strato dopo strato, sino ad oscurare la nostra
identità originaria.
Se si insisterà in questo spietato lavoro di
disidentificazione e di smascheramento, inevitabilmente si perverrà al
fondo di sé ove pulsa l'Io-Vita che in realtà siamo, esente dal bisogno
di essere affermato o negato, aumentato o diminuito.
Una
volta pervenuti all'intima verità di noi stessi potremo vivere in modo
armonico e saggio con gli "altri"; non prima. Soltanto quando avremo
compreso che l'Io Sono che ci sostanzia è lo stesso che anima la nuvola,
la formica, l'ago di pino, il nostro miglior amico e parimenti il
nostro peggior nemico ci sarà possibile dire: «Io sono, sento, voglio e
desidero» e nessuno nell'intero trimundio potrà contestarcelo.
Per
contro, gli stolti e i pavidi, sottomessi a «quelli che volano»,[22]
non avranno altra scelta che proiettare all'esterno le proprie
limitazioni e miserie, credendole verità autonome, e in tal modo
verranno travolti dalle acque rapinose della dualità irrisolvibile (samsara).
Nella
prima metà degli anni Settanta ebbi modo di vivere per periodi più o
meno lunghi nella comunità di Terrasini, fondata da Carlo Silvestro,
nella Free Land di Piero Naselli a Piazza Armerina, entrambe in Sicilia, e nella comunità del gruppo etno-rock-folk (non
saprei esattamente come definire la loro musica, tutt'ora
godibilissima) degli Aktuala, situata in un vecchio mulino in provincia
di Siena, il cui personaggio focale fu Walter Maioli.
Inoltre, mi trovai
a vivere spesso in dimensioni comunitarie durante i festival
psichedelici che allora spuntavano come funghi qua e là in Italia.
Ricordo in particolare alcune Feste della Luna sui colli prospicienti
Brescia, il raduno di Cuggiono, sulla riva di un fiume, organizzato da
Stampa Alternativa, e una vivace festa nelle vicinanze di Catania,
durante la quale, essendomi spogliato nudo su una spiaggia riservata
alla polizia, venni catturato – e al contempo salvato dall'ira di
numerosi bagnanti-poliziotti – e, dopo una paterna ramanzina, rilasciato
dai Carabinieri.
Nel corso di quest'ultima, mi rimase tra l'altro
impressa l'immagine di un giovane in acido che usciva nudo dalla pineta
in cui stazionavamo per incamminarsi lungo una strada asfaltata, tra le
automobili; non seppi mai che fine avesse fatto.
Tali
esperienze mi insegnarono molto sia in senso positivo che negativo. Le
idee e le aspirazioni che circolavano tra i giovani che vi partecipavano
erano spesso buone, sebbene mescolate con molta ideologia di sinistra
o, inconsciamente, di destra, ma scarseggiavano gli strumenti per
attuarle. Si pretendeva di essere diversi e liberi pur senza alimentare,
con una severa introspezione, l'energia e l'intelligenza necessarie a
portare il cambiamento in profondità.
L'abito che si indossava era sì
diverso, ma quel che si celava all'interno di esso restava troppo spesso
ricettacolo di schemi appropriativi, egoistici ed ipocriti, magari
frammisti ad alcune perle preziose. E anche se il corpo veniva
volentieri messo a nudo, il Cuore, sede dell'Intelligenza noumenica,
giaceva dimenticato al buio.
A gran voce si proclamava l'amore
universale, la comunione dei beni, l'equanimità, ma bastava una minima
difficoltà relazionale a far crollare il paradiso. E alla fin fine
l'anelito a superare in modo non antagonistico l'interpretazione
corrente dell'autorità, della proprietà e della gerarchia permaneva
insoddisfatto, o addirittura svaniva come se non fosse mai esistito.
Dietro la bautta dell'uguaglianza, nei momenti decisivi, appariva
sovente il volto del "padrone"; persino il chilum – e ciò mi
faceva particolarmente arrabbiare, visti i miei trascorsi indiani -,
invece di essere usato come strumento di concordia, serviva a sancire
privilegi o alleanze tra i più abbienti. Ne derivava che, non di rado, i
portatori delle idee più lungimiranti e risolutive venivano sottilmente
emarginati o apertamente osteggiati.
Sul fronte positivo, rammento invece incontri con persone meravigliose; condivisioni di flash di improvvisa comprensione dell'all right now
sfolgorante nell'eterno qui ed ora, oltre l'agitarsi del mentale;
l'immersione amorevole nella natura, accendendo fuochi, cucinando chapati
o altri cibi semplici e buonissimi che davano la sensazione di essere
ritornati all'alba dei tempi; la musica che, sgorgando improvvisa da
chitarre, flauti e tamburi, raggiungeva di frequente apici di grande
armonia e univa gli animi più di tante parole; lo sporadico emergere di
una sessualità liberata dalla paura, ma non per questo volgare; lo
scambio di esperienze interiori, di sogni e di riflessioni utili alla
conoscenza di sé; l'emergere di una sintonia immediata con persone mai
icontrate prima, quasi si appartenesse ad una medesima corrente
sgorgante da una Fonte invisibile.
L'aspirazione
ad una sessualità affrancata dagli schemi in cui l'Occidente cristiano
l'aveva impastoiata fu un'ulteriore elemento caratterizzante gli hippies.
Alcuni giovani intuivano che l'energia sessuale non poteva essere
relegata negli ambiti angusti della sola riproduzione o dello sfogo
istintuale. E fu così che essi incontrarono le dottrine taoiste sulla
sessualità, ma soprattutto il tantrismo indiano, vertiginosamente ricco
di sfumature e possibilità. Lo spirito tantrico ci affascinava poiché
scalza alla radice il pregiudizio secondo cui la rinuncia all'ignoranza
debba di necessità votare il sadhaka al dolore, alla tristezza e
alla povertà, vietandogli ogni piacere. Esso insegna che in realtà non
v'è gioia più grande del rigettare il perseguimento di inutili miraggi
per immergersi nella pienezza del Sé-Atman, oltre la polarità. Il che equivale ad essere stoned, ovvero pietrificato, morto all'apparenza e vivo nell'Essere.
Nel
'76/'77 l'energia che aveva alimentato l'insorgere della
sperimentazione comunitaria andava però spegnendosi, soffocata dai venti
contrari di una società sempre più alienata e dallo psichismo negativo
irrisolto di quelli che avevano tentato il cambiamento. Fu in quegli
anni che tanti ritornarono tra i ranghi dell'establishment; altri
decisero, pur non avendo realizzato alcuna autentica conoscenza, di
improvvisarsi "maestri", insegnando nuove mirabolanti tecniche per
viaggiare in astrale, far l'amore per sette ore, nutrirsi di luce ed
ascendere, ricordare le vite passate, scoprire il bambino interiore,
illuminarsi in tre giorni, et similia, aprendo così la strada a quello che di lì a poco sarebbe diventato il fiorente mercato new age; non pochi, purtroppo, finirono nelle mani degli psichiatri, subendo terapie a base di electroshok,
serenase e altre schifezze chimiche, dalle quali è quasi impossibile
ritornare alla salute; una buona parte morì di eroina o cominciò il
calvario tra il buco e la comunità di recupero (recupero, ovviamente, al
carcere dal quale aveva tentato di evadere per una via sbagliata);
molti presero le strade dei diversi maestri, sette, scuole, religioni o
congregazioni allora disponibili: Ananda Marga, Hare Krishna, le varie branche del buddhismo, Osho-Rajneesh, i Bambini di Dio, ecc.; altri ancora si diedero alla politica, magari abbracciando fucili e pistole e ammazzando spietatamente.
Verso
la fine degli anni Settanta sembrava che nessuno credesse più in nulla e
così ripresero il sopravvento quelli che parlavano di marijuana e fucile, di rivoluzione fatta sulla pelle degli altri, di matrimoni tra omosessuali o lesbiche, e altre stupidaggini simili.
Per
quanto mi riguarda, decisi di ritornare dai miei genitori, non per
arrendermi all'imbecillità elevata a dogma, ma per verificare in modo
decisivo se l'insegnamento ricevuto in India tra i sadhu e nel
tempio della natura selvaggia potesse davvero essere realizzato
dappertutto, senza l'aiuto di nessuna sostanza psicotropa e senza che
fosse necessario identificarsi in questa o quella etichetta spirituale o
religiosa e politica: destra, sinistra, estreme destra e sinistra,
centro, trasversale, ecc.
Quando
avevo tentato lo stesso esperimento, un triennio prima, a ventisette
anni, tra un viaggio in India e l'altro, ero stato ricoverato in modo
coatto all'ospedale psichiatrico di Brescia. Mi si imputava di essere
uno squilibrato perché meditavo, non volevo lavorare, leggevo e
disegnavo, mi prendevo cura dell'orto, cucinavo pane, riso ed erbe
selvatiche, amavo la solitudine, aborrivo televisione e giornali e osavo
tacciare i miei parenti cattolici di crassa ipocrisia: «somiglio un incapace / per i veri incapaci».[23]
Inoltre, al centro delle sopracciglia, mi ero fatto tatuare, ad Hampi, durante un viaggio con la datura,
un piccolo terzo occhio azzurro non proprio ben riuscito.
Un luminare
della psichiatria sentenziò, dopo avermi osservato dal buco della
serratura, mentre, seduto in padmasana, assaporavo l'eterno Sivo'ham ("Sono Shiva") del respiro: «sta diventando catatonico», e tutti gli credettero.
Anche
quella fu una lezione assai istruttiva circa il volto nascosto della
nostra società, e mi diede l'opportunità di verificare quanto salda
fosse la mia convinzione di essere sano; se avessi nutrito il più
piccolo dubbio su me stesso, non sarei qui a scrivere. In un tale
inferno, qualsiasi cosa si dicesse, anche la più scontata e normale,
diventava prova di squilibrio mentale; ed era atroce vedere le facce
deformate dall'ira o dall'odio di medici, infermieri, parenti e
pseudoamici dichiarare a gran voce di volere il mio bene mentre mi
torturavano e mi privavano delle più elementari libertà e dignità.[24]
Per "fortuna", tuttavia, dopo un mese venni "cacciato" dall'ospedale
perché mi si attribuiva la colpa di esercitare un pessimo influsso sugli
altri malati: alcuni intorno a me iniziavano a rendersi conto che le
paranoie mentali sono solo illusioni e che in noi c'è una
presenza-testimone capace di osservarle, trasformando l'inferno in
paradiso.
Tornare
a casa a trent'anni fu dunque una prova durissima e indispensabile.
Perdonare i miei genitori mi aiutò a purificare la coscienza dal rancore
che avevo maturato nei loro confronti. Per alcuni mesi mi parve di
vivere immerso nella vacuità e nel grigiore più estremi, ma, a poco a
poco, le cose migliorarono, sino a che imparai a sentirmi libero,
realizzando almeno in nuce la saggezza che invita ad «essere nel
mondo ma non del mondo». Per verificare la mia libertà scelsi persino di
lavorare (preferibilmente a mezza giornata o per quattro giorni alla
settimana): feci l'impiegato, il professore, l'antennista, il
vendemmiatore, il venditore di libri e il bidello.
I lavori manuali
all'aperto, soprattutto se in nero, erano naturalmente i miei preferiti,
poiché mi lasciavano mentalmente libero con il cielo sopra il capo e
non mi incatenavano alla macchina stritacarne della burocrazia
previdenziale. Tra i miei amici ero diventato "famoso" perché riuscivo a
vivere con diecimila lire al mese; il resto dei miei magri guadagni li
spendevo in libri, dischi ed incenso.
Molti mi domandavano se non avessi
paura della malattia, della vecchiaia o della solitudine. Ad alcuni
rispondevo in modo blando e vago per distrarli, ma a quelli che mi
davano l'impressione di capire qualcosa dicevo apertis verbis:
«No, non ho paura».
In realtà mi era ormai chiaro che la salute è in
buona parte nelle nostre mani e che diventiamo quello che pensiamo e
vogliamo. In quanto al morire, lo avevo già sperimentato ad abundantiam
perdendomi in India o in Nepal, solo tra le alte montagne, o tra le
folle di senza tetto alla perferia di qualche formicolante città, o
nell'ospedale-prigione di Bombay, dove vissi un paio di settimane nella
convinzione che mi dovessero amputare entrambe le gambe, per via di due
infezioni alle anche che, curate con gli antibiotici (da anti-bíosis, contro la vita), mi avevano gonfiato gli arti inferiori a dismisura. E poi, come dice un testo dedicato all'Agni Yoga di Nikolaj Rerich, morire non è più che strapparsi un capello.[25]
A ben riflettere, proprio come lo yin e lo yang
sono inseparabilmente commisti, la morte non può essere distinta con
nettezza dalla vita; perciò, che lo si voglia o meno, anche in questo
momento stiamo morendo: vivi e morti ad un tempo.
Nei
lunghi periodi trascorsi nelle comunità sopra accennate e sulla strada
avevo conosciuto, dentro e fuori di me, le molte miserie che impediscono
agli uomini di vivere insieme in modo amorevole, gioioso e creativo. Ma
non avevo perso la speranza che una comunità libera da immedesimazioni
ideologiche, religiose o neospiritualiste fosse possibile. E così, a 34
anni, dopo aver raggiunto un discreto grado di autocontrollo e serenità,
indipendenti dall'ambiente in cui mi trovavo, incontrai per puro "caso"
alcuni ragazzi e ragazze, mediamente più giovani di me di
tredici-quindici anni, insieme ai quali diedi vita alla comunità dei
Cavalieri del Sole.
A proposito di essa, in un'intervista rilasciata di recente all'amica Sara Compagnone, dico:
«Nella nostra Visione il Sole simboleggia il Logos-Shiva che eternamente irradia, permea e riassorbe le “diecimila cose”, e cioè l’Universo manifestato. Esso vale quale punto di congiunzione tra l’Immanifesto e il Manifesto o anche quale porta d’accesso al Brahman nirguna, senza attributi. Rispetto al Sole, gli individui sono scintille di Luce-Fuoco;[...] I raggi sono le infinite strade d’andata e ritorno delle anime. Surya o Helios è dunque il nostro Adi-Guru e a Lui ci rivolgiamo per attingere illuminazione riguardo ai temi filosofico-esistenziali fondamentali. [...] Quando dobbiamo affrontare qualche importante questione, o semplicemente rinnovare la nostra unione, ci sediamo in cerchio ed immaginiamo di attingere al Sole nel Centro: risalendo il proprio raggio, ciascuno si risveglia unito al Sole, l’Io Sono Tutto, l’ En to Pan degli antichi epopti; se poi dal Sole si discende lungo il raggio di chi ci sta accanto possiamo comprendere quel che è altro da noi come se fosse nostro».
Anche
questa piccola realtà comunitaria è ovviamente piena di difetti e le
difficoltà che abbiamo incontrato, sia all'interno che all'esterno, sono
state e sono numerose, e talvolta di difficile soluzione; cionondimeno,
esse non sono riuscite a distruggerci, dato che viviamo insieme ormai
da ventisette anni senza aver perso la gioia e la voglia di creare.
La Via-Tao prosegue senza fine, avvolgendosi su se stessa. "Hippie", "Sadhu"
sono soltanto parole, suoni, dita puntate sull'Ineffabile, e pertanto
non è auspicabile mitizzarli o limitarsi a pregiarne la scorza esterna.
Poiché le forme attraverso le quali la Natura essenziale dell'Essere si
manifesta mutano infinitamente, è vano tentare di fissarle oltre misura.
Diversamente da quanto ci hanno insegnato ex cathedra i saccenti
che stanno guidando l'Occidente verso la catastrofe, la prima
Conoscenza da perseguire è quella in cui svanisce la dicotomia
soggetto-oggetto. E sarebbe un grave errore confonderla con uno sterile
accumulo di nozioni: essa sola sa trascendere l'attività mentale,
immergere nel Silenzio, portare pace e soddisfare il Cuore.
In
un mondo dedito a perseguire l'apparenza, rivestendola di parole
altisonanti quali "sviluppo" e "progresso", desidero concludere queste
modeste riflessioni con alcuni versi tratti dal Tao Te Ching, nei quali, in modo succinto, viene riassunto un immenso sapere:
«Colui che si applica allo studio aumenta ogni giorno.Colui che pratica la Via diminuisce ogni giorno.Diminuendo sempre di più si arriva al Non-agire.Non agendo, non esiste niente che non si faccia».[26]
Giuseppe Gorlani - 29/08/2008
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