Quando
un vecchio amico e collega ambasciatore in Myanmar m’inviò a novembre
l’intervista di Aung San Suu Kyi al Washington Post, ne fui sbalordito.
Il colloquio smentiva la valutazione comune di Suu Kyi nel nostro Paese
come creazione dell’occidente contro il ventre molle della Cina.
Nell’intervista, Suu Kyi di punto in bianco si rifiutava di accreditare
agli Stati Uniti i successi nella promuovere la democrazia. Ha
sottolineato che l’interesse del Myanmar sarà perseguito con politiche
non allineate, differenziando inoltre la posizione del Myanmar sul
problema del Mar Cinese Meridionale, sottolineando l’importanza delle
relazioni con la Cina. (Washington Post)
Nella visione strategica indiana, un pio desiderio spesso si tramuta in
ipotesi. Il punto è la rivalità intensa con la Cina, prisma dei pandit
indiani, che porta ad avere idee sbagliate su Suu Kyi dipendente dal
sostegno degli Stati Uniti per la propria sopravvivenza politica. (Times of India)
Finiamo dritto nel complotto? Data la “situazione unipolare” degli esperti indiani, spesso attribuiscono un’influenza agli Stati Uniti più grande che negli altri Paesi. Anche le lezioni dell’Afghanistan non sono state apprese correttamente, cioè, non ci sono limiti al potere degli Stati Uniti. In realtà, vi sono sempre più indicazioni sull’emerge di un attrito latente tra Washington e Suu Kyi, dove gli Stati Uniti cercano d’imporsi su di lei. Il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti in Myanmar ha sfidato apertamente il consiglio dal Ministero degli Esteri (guidata da Suu Kyi) a non riferirsi al problema dei rohingya. (Guardian)
In effetti, il problema dei rohingya è estremamente consequenziale per
l’India, perché nella stragrande maggioranza dell’opinione in Myanmar il
problema è legato alla grande migrazione illegale di musulmani dal
Bangladesh e non riguarda una questione etnica o una minoranza
perseguitata. Ora, con il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti che
solleva un polverone sul problema rohingya sul piano diplomatico, il New York Times ha scritto un editoriale rabbioso contro l'”atteggiamento vile” di Suu Kyi. The Times è sempre stato indicativo, facendo capire che il vero problema qui è Suu Kyi:
“Alla fine, la ragione per cui Aung San Suu Kyi non vuole che gli statunitensi dicano “rohingya” non ha molta importanza. Ciò che conta è che una donna il cui nome è stato sinonimo di diritti umani per una generazione, una donna che ha mostrato coraggio inflessibile di fronte al dispotismo, ha continuato la politica del tutto inaccettabile dei governanti militari che ha sostituito… La sua aura era un fattore centrale nel reinserimento del Myanmar nella comunità mondiale… ma già vi sono appelli dai gruppi per i diritti umani negli Stati Uniti al presidente Obama per rinnovare le sanzioni contro il Paese entro il 20 maggio“. (New York Times) Il Los Angeles Times è stato più esplicito nel raccomandare che “il governo degli Stati Uniti mantenga almeno alcune regole per gli investitori e le sanzioni contro il Myanmar che dovrebbero scadere a fine mese, in particolare quelle che richiedono alle aziende statunitensi attive in Myanmar di riferire sugli sforzi per garantire che i diritti umani e del lavoro siano mantenuti, e di non fare accordi con i cittadini denunciati per violazioni dei diritti umani“. (LA Times)
Gli Stati Uniti puntano a modificare l’obiettivo delle sanzioni. Nel
frattempo, Wall Street Journal citava il nuovo ambasciatore degli Stati
Uniti in Myanmar dire che
“Washington non è pronta a togliere tutte le sanzioni contro il Myanmar, in attesa di progressi su questioni come i diritti umani“. (WSJ)
Evidentemente, la questione centrale qui è la politica di Suu Kyi verso
la Cina. La pressione degli Stati Uniti avviene proprio quando Suu Kyi è
chiamata a decidere sui programmi cinesi in stallo nel Myanmar. (Si
trova di fronte alla stessa situazione che nello Sri Lanka Ranil
Wickremesinghe ha affrontato). Suu Kyi si piegherà alla pressione
statunitense? Pechino sembra ragionevolmente fiduciosa a che Suu Kyi in
ultima analisi, decida per il meglio nell’interesse del suo Paese, come
nello Sri Lanka fece infine il Primo ministro Ranil Wickremesinghe. (Global Times)
Tutto questo è importante in un momento in cui Nuova Delhi deve capire
il proprio approccio verso il governo di Suu Kyi. Il ministro degli
Esteri Sushma Swaraj doveva visitare il Myanmar la scorsa settimana, ma
ha avanzato cause di salute. L’India ha interessi vitali in gioco, che
rende imperativo essere alleata amichevole, cooperativa e reattiva con
Suu Kyi, non importa la disillusione dello Zio Sam su di lei. La linea
di fondo è che l’India dovrebbe avere una politica estera indipendente
verso il Myanmar.
MK Bhadrakumar Indian Punchline 11 maggio 2016
Myint Swe
Il Parlamento del Myanmar approva l’accordo di cooperazione militare con la Russia
Secondo i media, la camera bassa del parlamento del Myanmar ha approvato un accordo sulla cooperazione militare con la Russia, su richiesta delle Forze Armate.
La camera bassa del parlamento del
Myanmar, Pyidaungsu Hluttaw, ha approvato un nuovo accordo sulla
cooperazione militare con la Russia su richiesta delle Forze Armate,
secondo i media locali. La proposta del Ministero della Difesa è stata
adottata dal Parlamento senza obiezioni, secondo il Myanmar Times. Il
Viceministro della Difesa del Myanmar Maggior-Generale Myint Nwe ha
detto che i due Paesi hanno una lunga cooperazione militare ed altri
accordi probabilmente seguiranno.
A fine aprile, il Ministro della
Difesa russo Sergej Shojgu aveva detto che la Russia prevede di
rafforzare la cooperazione bilaterale con l’Associazione delle Nazioni
del Sudest Asiatico (ASEAN) i cui Paesi membri sono Indonesia, Malaysia,
Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Cambogia, Laos, Myanmar e
Vietnam.
Sputnik, 11/05/2016
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
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