Introduzione
La
parola "Advaita" si riferisce ad un sistema di pensiero Vedantico
che concepisce una Realtà Ultima non-duale. Sebbene Shankaracarya, vissuto
alla fine del 7° secolo, sia il principale esponente di questo sistema, non
è stato il primo a proporre questo pensiero.
Il
Vedanta rappresenta una parte fondamentale dei Veda e come indica il nome,
significa l’ultima parte dei Veda. I Veda sono divisi in quattro parti:
Samhita, Brahmana, Aranyaka, e Upanisad. L’ultima parte chiamata Upanisad è
conosciuta anche come Vedanta. Comunque non tutte le Upanisad sono state
scritte nello stesso periodo dal momento che alcune di esse riguardano la
parte Aranyaka come la Taittiriya, mentre altre la parte dei Brahmana come la
Brhadaranyaka.
I
Veda consistono di due parti; la prima è conosciuta come Karmakanda e la
seconda come Jnanakanda.
Il
Jnanakanda è chiamato tradizionalmente Vedanta, ed è considerato la sorgente
del pensiero Vedanta. Esistono diverse scuole di Vedanta. Perché sono così
numerose? La risposta a questa domanda è che, attraverso esegesi
testuali, la realtà è concepita in modi
molteplici da i vari eminenti maestri (acaryas). Tutte
le scuole Vedantiche concordano sul fatto che Brahman è la realtà suprema.
Esse accettano anche i Veda come la sorgente della conoscenza del Brahman ma
sono discordi nella loro concezione della natura dell’ultima realtà
delineata nei Veda. Se i Veda contengono un gran numero di asserzioni sulla
non-dualità o non-differenza, essi contengono anche un considerevole numero
di affermazioni che sembrano asserire l’esistenza della dualità. Il primo
tipo di asserzioni è conosciuto come abheda-sruti e il secondo come
bheda-sruti.
Tra i Vedantini, quelli che danno maggior importanza all’abheda-sruti
sono gli Advaitin, e Shankara appartiene a questo gruppo. Gli Advaitin
interpretano i passaggi della bheda-sruti in modo da soddisfare il loro
concetto di realtà. Per gli Advaitin, il significato principale dei Veda
risiede solo nei passaggi dell’abheda-sruti. Per la scuola dualistica di
Madhva, avviene il contrario. Quest’ultima afferma che il significato più
importante dei Veda risiede nella descrizione della diversità, (bheda).
Nella
sua visione i passaggi abheda sono secondari
(gauna) e servono a mostrare la suprema qualità e la natura
indipendente di Dio, Vishnu. Solo Dio è indipendente (svatantra) e tutto
il resto, rappresentato da mondo e anime, è dipendente (paratantra) ed è
solo così che assume significato.
Un
altro influente interprete dei testi del Vedanta è Ramanuja. Egli si
distingue sia da Shankara che da Madhva sostenendo che entrambi le scritture
bheda e abheda sono ugualmente significative. La sua interpretazione è
conosciuta come bheda-abheda perché tenta di conciliare tutti i passaggi
della Sruti. Per Ramanuja il Karmakanda è altrettanto importante che il
Jnanakanda poiché formano un
solo testo, (aikyashastra), quindi il Jnanakanda non ha alcuna
superiorità sul Karmakanda come asseriscono Shankara ed altri Advaitin.
Storicamente l’avvento di Ramanuja precede quello di Madhva. Le posizioni
esegetiche del primo, che conferiscono un ugual peso ad entrambi le visioni,
divennero comprensibilmente inaccettabili per Madhva, teista
radicale.
Ramanuja
sostiene che Dio è differente dalle anime e dal mondo, anche se essi
rappresentano il suo corpo (sarirasariribhava). Madhva apprezza il concetto di
differenza proposta da Ramanuja ma lo ritiene un compromesso con la scuola
Advaitia. Per Madhva la differenza deve essere totale, ed è su questo piano
che egli presenta l’idea di una differenza su cinque livelli (pancabheda).
Mentre la tradizione di Madhva non ebbe mai un gran seguito, in quanto seguiva
la tradizione di Nathamuni e Yamuna, gli scritti di Ramanuja divennero il
solido fondamento per tutte le scuole teistiche della tradizione Vaishnava,
che si moltiplicarono successivamente.
Dottrina
di base dell’Advaita Vedanta
Il
principio basilare dell’Advaita Vedanta è che non esiste altro che la
suprema realtà non duale che è senza qualità o caratteristiche. Questa
concezione di base della realtà causò la resistenza di Ramanuja: egli non
accettava il concetto che si possa contemplare una realtà libera da
distinzioni. Secondo lui non ci può essere alcun interesse nei confronti di
qualcosa che è privo di caratteristiche. Così, affermare la realtà di
qualcosa privo di attributi o qualità, è una contraddizione in termini.
Un
altro importante concetto dell’ Advaita Vedanta è quello di maya, che è
identica all’ avidya.
Maya
è responsabile dell’apparenza di Brahman come Dio, come anima individuale e
come mondo.
I
seguaci di Ramanuja non ammettono l’esistenza di maya. Per essi il concetto
di maya è uno pseudo concetto del tutto privo di concretezza. Nel suo
Mahapurvapaksha, Ramanuja elenca sei obiezioni al concetto Advaita di maya, e
nel periodo Visishtadvaita post-Ramanuja, queste obiezioni aumentarono. Un
terzo punto importante dell’Advaita è che lo stato di Dio e dell’anima
sono illusori, mentre l’essenziale natura di entrambi è reale.
Ramanuja
e i Vaishnava non accettano che essi possano essere illusori.
Un
quarto concetto di base è quello che il mondo è sovrapposto a Brahman
attraverso maya e che esso è né reale né non-reale ma indeterminabile (anirvacaniya).
Per i pensatori Vaishnava il mondo è reale. Un quinto aspetto distintivo
dell’Advaita Vedanta è che la diretta conoscenza della vera natura
dell’anima individuale in quanto Brahman, è il solo mezzo per ottenere la
liberazione.
Al contrario i pensatori Vaishnava sostengono che con la sola
conoscenza non si può ottenere la liberazione; se la conoscenza è
necessaria, non è però sufficiente. La Conoscenza rimane incompleta in
assenza di azione e devozione (karma e bhakti). Shankara afferma che il karma
e la bhakti sono mezzi inferiori per quanto riguarda la liberazione e che
soltanto la Conoscenza è il diretto canale per la liberazione.
Il
sesto principio dell’Advaita Vedanta è che la liberazione può essere
ottenuta proprio adesso, proprio qui. Gli Advaitin credono in due forme di
liberazione, in questa vita (Jivanmukti) e dopo la morte (Videhamukti). Al
contrario le scuole Vaishnava accettano soltanto la
Videhamukti.
Lo
studio di Dio (Isvara), dell’anima (jivas) e del mondo (jagat), è comune a
tutte le scuole vedantiche. Le scuole teistiche considerano queste tre
categorie come realtà separate.
L’Advaita
postula che esse sono la manifestazione di Brahman, che è pura coscienza
non-duale. La Maya, sostengono gli Advaitin, nasconde la vera natura di
Brahman e proietta il mondo, l’anima e Dio. Dio e le anime sono entità
complesse costituite da un elemento senziente chiamato consapevolezza e di un
elemento non senziente chiamato maya-avidya. L’essenziale natura di Dio è
l’elemento senziente, coscienza, che è conosciuto come Brahman; quello del
jiva è conosciuto come Atman.
Il punto importante è che, sebbene lo stato di
essere Dio o anima sia illusorio, la loro essenziale natura è reale. Al
contrario il mondo non ha realtà indipendente ed è una semplice apparenza di
Brahman attraverso maya come una corda che sembra un serpente a causa
dell’ignoranza. Nell’Advaita, Dio è sempre consapevole della essenziale
qualità come Brahman ed è pertanto sempre libero. Il jiva, che erroneamente
identifica sé stesso con la mente, il corpo e gli organi di senso, ignora la
sua natura essenziale e pertanto va incontro a trasmigrazione. Gli Advaitin
affermano che il jiva è una identificazione errata, un prodotto
dell’ignoranza, che può essere rimosso dall’esatta conoscenza che la sua
reale natura è solo il Brahman.
Da
questa discussione si può vedere che il termine "Advaita" indica
il Brahman che è privo di dualità e si riferisce anche alla scuola
Vedantica che sostiene la non-dualità della realtà. Vorrei ora parlare di
una tradizione Advaita o Advaya che era presente nel subcontinente Indiano
molto prima dell’avvento dell’Acarya Shankara. L’autore dell’Amarakosa
si riferisce al Buddha come Advayavadin, ed uno studio approfondito delle
Mandukyakarika rivela una notevole influenza Buddista nella formulazione da
parte di Gaudapada del Vedanta non duale.
Nel suo commentario della
Mandukyakarika, Shankara stesso non è molto critico nei confronti degli
insegnamenti del Buddha. Comunque le sue critiche sono più pungenti nel suo
commentario del Tarkapada in cui afferma che il Buddha portava avanti una tesi
con vedute contraddittorie. Sebbene Shankara non sembri concordare con
l’insegnamento del Buddha, questi deve aver avuto una qualche influenza sul
suo pensiero.
D’altra parte, analizzando il pensiero del Buddha, troviamo
che anche lui è stato molto influenzato dalle Upanisad, anche se critica
fortemente l’autorità dei Veda. Secondo la mia opinione, il desiderio del
Buddha era quello di eliminare la parte dei Veda riferita al karmakanda e con
esso i privilegi della casta dei
Brahmini, dominante durante quel periodo. A parte questo, il suo
insegnamento può facilmente essere riportato alle Upanisad. Infatti Gaudapada
ipotizzò l’esistenza di una distinta ideologia Buddhista esistente
all’interno delle Upanisad, e cercò una riconciliazione tra le Upanisad ed
il Buddhismo.
Dopo
Gaudapada fu l’Acarya Shankara che tentò di ricodificare l’Advaita con
l’aiuto della logica e delle scritture. Egli affermò che il Buddhismo si
oppone sia alle scritture che alla ragione ed è pertanto inattendibile come
schema soteriologico. Nel suo commentario del primo verso del quarto capitolo
della Mandukyakarika, Shankara interpreta il termine dvipadam varam come
Vishnu sebbene, osservando il contesto, sarebbe stato più appropriato
definirlo come Buddha.
Vale la pena di ricordare che la dottrina di maya era
prevalente nel periodo pre-Gaudapada. Sadyojyotis, uno studioso dello
shivaismo del Kashmir, critica questa dottrina senza menzionare una sola volta
Gaudapada o Shankara.
Forse questa dottrina è evidente nelle stesse Upanisad.
Questo è sicuramente il punto di vista di Shankara riguardo a tutti i
dogmi menzionati sopra. La tradizione di Shankara è Upanisadica come
egli ci ricorda molte volte nel suo Bhasya: "Asmakam tu aupanisadam
darsanam."
Nel
suo Mandukyakarika Bhasya, Shankara descrive il termine Advaita come "advaitam
caturtham manyante sa atma sa vijneyah." Nel suo Siddhantabindu,
Madhusudana Sarasvati definisce l’Advaita come "nasti dvaitam yatra."
Egli ritiene che per controbattere i Madhyamika che parlano di una entità
non-dualistica chiamata "shunya," [vuoto] è necessario usare "yatra"
per chiarire che il Brahman è libero da dualità. Come già detto, Madhyamika
parla di shunya come
realtà non duale poiché in tale sistema non c’è necessità di
alcun substrato.
Nell’Advaita Vedanta, la definizione di non-dualità è
sensibilmente diverso giacchè la parola "yatra" indica il concetto
di Brahman. Il semplice uso di parole come "eka" o "aikya"
non bastano ad indicare il non-dualismo Vedantico dal momento che un numero di
scuole Vaishnavava parla della suprema realtà come eka, essendo Vishnu la
sola realtà. Pertanto la parola Advaita sembra essere più appropriata per un
puro sistema non-duale che non accetta alcuna dualità nella sua comprensione
dell’Ultima Realtà.
Infatti,
entrambe le tradizioni Advaita e Visishtadvaita operano nella dualità e nella
non dualità.
Esse
sono duali e non-duali allo stesso tempo, con differenze che sorgono
dall’enfasi posta da parte degli acaryas. Anche Shankara deve combattere col
mondo della dualità almeno per evidenziare l’importanza dell’insegnamento
Vedantico. Non è certo per i jivanmukta che Shankara scrisse i suoi
commentari, ma per il bene delle persone che sono ancora nel mondo della
dualità e cercano ancora la liberazione. E’ solo per loro che l’intera
tradizione assume significato.
Per certi aspetti anche la tradizione
Visishtadvaita è non dualistica dal momento che
accetta Vishnu come realtà suprema. Il punto cruciale tra la
tradizione Advaita e Visishtadvaita è quello dell’accettazione o meno della
dottrina di maya. Il famoso maestro Vaishnava Caitanya, non vuole entrare
nella questione e rifiuta del tutto di stigmatizzare la Realtà.
Per lui la
suprema realtà è oltre il pensiero (acintya). Così osserviamo che queste
due scuole del Vedanta includono entrambe dimensioni duali e non-duali nel
loro sistema filosofico. Naturalmente sarebbe ingenuo pensare che entrambi
insegnino la stessa cosa, giacché le loro posizioni filosofiche finali non
possono facilmente coesistere.
Darshana
Advaita
‘Drs,’
la radice della parola darshana, significa “vedere”. Nella tradizione
Advaita, implica la diretta realizzazione della realtà o Brahman (prameya),
libero da ogni ostacolo (Darshanam nama pratibandharahitam pratyaksajnanam).
Il Darshana è senza dubbio libero da errore e indipendente da ogni
interferenza (samsaya rahitam, viparyayarahitam anumanaanapeksam jnanam). Il
Darshana inoltre che riguarda la diretta conoscenza del proprio sè è il
Brahman.
Il concetto di darshana include il sistema filosofico attraverso il
quale tale conoscenza viene trasmessa per es. metodi pedagogici,
interpretazioni, ragionamenti, etc. A causa della sua enfasi sulla Conoscenza,
l’epistemologia è particolarmente importante nella filosofia dell’Advaita
Vedanta. Veramente gli Advaitin, sebbene ciò possa essere detto per la
maggior parte dei pensatori indiani, ritengono che l’accertamento di un
prameya, un oggetto di conoscenza, dipende totalmente dallo strumento di
conoscenza utilizzato.
Secondo
l’Advaita Vedanta, il più importante prameya da conoscere corrisponde al più
alto oggetto desiderabile dall’uomo (purushartha), che è Brahman. Secondo
il pensiero Indiano la vita, considerata in tutti i suoi aspetti, dovrebbe
tendere verso il raggiungimento del più alto scopo dell’uomo, che è la
liberazione. Così il darshana Advaita è orientato ai valori più alti e fin
dai suoi inizi ha stabilito con successo una relazione tra valori ed azioni.
Tra i valori che esso riconosce, come dharma, artha, kama and moksha, i primi
tre hanno un valore estrinseco, essendo strumentali alla moksha, che è il
solo valore intrinseco. Moksha o liberazione ha un valore assoluto perché si
identifica con la pura esistenza (sat), coscienza (cit), e beatitudine (ananda).
Gli
Advaitin sono inflessibili sul fatto che
questa è la rivelazione Upanisadica (Sruti) che ha come solo scopo la
conoscenza di Brahman, che culmina nella liberazione. Se la Sruti è sacra in
quanto conduce alla liberazione, la sua autorità non è inflessibile nel
senso che non vincola perennemente gli uomini.
Certamente la Sruti cessa di vincolare colui che ha raggiunto lo stato di
Brahman. Una volta che la verità è svelata, dice l’Upanisad, i Veda
divengono non-Veda (Manadhina meyasiddhih yatra vedah avedah bhavanti). Una
volta che si è ottenuta la consapevolezza, non esiste religione al mondo la
cui rivelazione cancelli tale autorità.
Dal
momento che nell’Advaita Vedanta l’intero mondo è sostanzialmente falso (jagatmithya),
la Sruti come insegnamento è a sua volta falso. Ma la Sruti mantiene comunque
la capacità di definire ciò che è falso. Nessuno sostiene che la parola
“acqua” non possa infatti
indicare la sostanza “acqua”. La Sruti può svolgere un compito simile, con l’evidente differenza che l’oggetto cui si riferisce
non è esperibile dai sensi. Quando un oggetto giace all’interno della sfera
dei sensi, una volta che è stato conosciuto, le parole che hanno condotto
alla sua conoscenza hanno perduto la loro utilità. E’ in tal senso che la
Sruti dichiara che, con la comparsa della Conoscenza, i Veda divengono Aveda.
Si
ritiene comunemente che Shankara sia il primo esponente dell’Advaita. Ciò
è assolutamente falso dal momento che, come già detto, Gaudapada era stato
un autorevole esponente della tradizione Advaita. Inoltre
anche alcune delle Upanisad più antiche elencano i nomi degli
esponenti tradizionali del Vedanta.
Si dice che il signore Narayana sia stato
il primo istruttore di Brahma-vidya. Brahma era suo discepolo. A sua volta
Brahma insegnò questa sapienza a suo figlio Vasistha. Successivamente
questa conoscenza fu trasmessa a Sakti, Parasara, Vyasa, e Suka, in un
passaggio di padre in figlio. Non essendo sposato, Suka trasmise la
Brahma-vidya al suo discepolo Gaudapada. Shankara ricevette questa conoscenza
tradizionale di Brahman da Gaudapada.
I principali contributi letterali di
Shankara sono stati i suoi commentari delle principali Upanisad, del
Brahmasutra, e della Bhagavadgita. E’ difficile conoscere con certezza tutto
quel che riguarda la vita ed il lavoro di Shankara in quanto non esistono
fonti biografiche attendibili su di lui. Le varie biografie disponibili sono
in massima parte poco più che racconti leggendari. E neanche è possibile
accertare le date sulla vita di Shankara dalla letteratura disponibile presso
i suoi mathas.
Eppure,
cercando di comprendere la vita di Shankara e il suo pensiero, non dobbiamo
isolarlo dalla sua epoca. La figura storica di Shankara non è separabile
dalla società nella quale visse ed i suoi lavori possono essere compresi
soltanto in riferimento ai movimenti religiosi e culturali dell’India del 7°,
8° secolo. E’ in tale periodo che il Buddhismo iniziò rapidamente il suo
declino ed iniziò ad affermarsi la religione Smarta-pauranika.
Bhakti
e Tantra, logica astratta e polemiche metafisiche, nuove vie di devozione e
codici sociali si svilupparono poco a poco. Ed è contro tale ambiente che
Shankara presentò, in maniera inimitabile, la perenne filosofia Advaita di
cui egli era il massimo esponente. I suoi scritti divennero l’autorevole
interpretazione non-duale del Vedanta. Shankara non ha mai sostenuto che l’
Advaita Vedanta fosse adatto ad un insegnamento diffuso.
Cercò di chiarire
gli insegnamenti del Vedanta attraverso speculazioni sui concetti cruciali
quali pravrtti dharma e nivrtti dharma, Nirguna Brahman e Saguna Brahman,
vyavahara and paramartha, etc. Ebbe anche il merito, secondo la mia opinione,
di armonizzare jnana, karma, e bhakti, temi scottanti in quel tempo. I suoi
scritti permettono la coesistenza della fede con la ragione e con
l’esperienza spirituale. Infatti la dottrina dell’identità tra il sè ed
il Brahman necessita di fede nella Sruti, di opere in accordo con la Sruti, e
di esperienza personale.
Shankara utilizza una varietà di processi
ermeneutici per interpretare la Sruti e per spazzare via i pregiudizi
filosofici dell’aspirante in maniera da rendere possibile l’esperienza di
Brahman. L’analisi del fenomeno di autoconoscenza è forse il più
importante di tutti i processi utilizzati nei suoi scritti. A tale riguardo
egli utilizza due principi di base:
a) che il soggetto non può mai diventare oggetto e
b) che il Reale non può mai essere negato.
E’
su tali principi assiomatici che egli parla della coscienza empirica e
dell’esistenza come falsa o illusoria, essendo la Pura Coscienza presente in
tutti gli esseri, la sola realtà che è stata, è e sarà.
fonte: http://www.ocvhs.com/
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