Poiché la differenza tra i favorevoli ed i contrari
alla separazione è ancora molto piccola, ogni risultato resta
imprevedibile. Qualora però l’elettorato scozzese dovesse veramente
optare per l’indipendenza uno scenario particolarmente preoccupante si
aprirebbe per l’Europa e per il mondo intero.
Innanzitutto
si dovrà verificare cosa intenderanno fare al proposito gli altri Paesi
europei. Dovrà, la nuova Scozia rinegoziare l’adesione all’Unione
Europea? E, sempre che volesse farlo, gli altri Stati saranno
disponibili, e a quali condizioni, ad accettare il proprio ventinovesimo
membro? E cosa succederà con la Nato? La Scozia sarà automaticamente
accolta nell’ONU?
Queste sono domande importanti e le
relative risposte lo sono ancora di più. Tuttavia, il nocciolo della
questione sta soprattutto nel precedente che questo referendum
rappresenterà per l’intero scenario mondiale.
Dopo la
seconda guerra mondiale, per lunghi anni, una specie di tacito accordo
tra le due superpotenze aveva impedito, di fatto, la ridiscussione delle
frontiere e delle identità statuali uscite dal conflitto. Non solo,
l’intero dibattito filosofico - politico si era oramai orientato verso
un’idea contraria al concetto in voga nell’800 secondo cui lo Stato
dovesse coincidere con la nazione. Sempre di più ci si era convinti che
fosse addirittura virtuoso che uno stesso Stato fosse composto da
diverse nazioni conviventi. Addirittura più numerosi erano diventati
quegli Stati che riconoscevano più di una sola lingua ufficiale, e
questo proprio per favorire la coesistenza di più nazioni che si
riferivano allo stesso Governo.
Con la caduta
dell’Unione Sovietica questo orientamento cominciò, lentamente, a
cambiare. All’interno dell’Unione Europea si continuò a seguire, almeno
formalmente la precedente impostazione e i movimenti separatisti
nazionali continuarono ad essere visti come una nota di colore negativa.
Al di fuori dei propri confini, però, la stessa Unione cominciò poco a
poco a tollerare, se non proprio favorire, la nascita di nuovi
Stati-nazione sulle basi di comunità linguistica o etnica. La pacifica
divisione della Repubblica Cecoslovacca e la dissoluzione della ex
Yugoslavia furono i primi importanti esempi vicino ai nostri confini.
Seguirono poi Timor Est e il sud Sudan, favoriti dalla stessa Onu. A cui
andrebbero aggiunti i casi del tutto atipici, e non da tutti
ufficialmente riconosciuti, del Kossovo, della Abkazia e dell’Ossetia.
Nel
caso della Scozia ed in quello del possibile referendum della
Catalogna, anche qualora le urne dovessero confermare la volontà
secessionista, siamo di fronte a situazioni che dovrebbero svilupparsi
in modo pacifico pur se si apriranno una quantità enorme di problemi
tecnici ed economici tra il nuovo e il vecchio Stato. Per queste due
regioni, la domanda di indipendenza si basa sulla sensazione di riuscire
ad essere del tutto autosufficienti e di venire attualmente sfruttati
da altri, ma e’ ovvio che le “sensibilità” nazionali sono in genere
alimentate o da motivazioni geopolitiche (spesso originate da interessi
di potenze straniere) o da ragioni più semplicemente economiche, interne
o internazionali che siano. In alcuni casi, vedi il Kossovo, il
Montenegro, l’Ossetia e altri, le ragioni economiche immediate sono
state insignificanti. In altre, vedi il Sud Sudan, la presenza di
ricchezza petrolifera fu il motivo principale della rottura con Khartum.
Ma
quale sarà la logica a cui il mondo dovrà adattarsi? Quale il criterio
per stabilire la legittimità delle richieste di altri referendum? Per
esempio, basterà la semplice maggioranza di una nazionalità su altre
conviventi nella stessa aerea? E chi appartiene alle locali minoranze
dovrà emigrare, diventerà un cittadino di serie B o manterrà realmente
uguali diritti? Si giustificherà in qualche modo una “pulizia etnica”?
Un altro esempio: se, come proposto dal Governo Netanyahu, Israele
dovesse definirsi formalmente solo uno “Stato Ebraico”, i Palestinesi
che vivono entro il confine e non fossero convertiti saranno considerati
semplici ospiti?
Ma soprattutto: cosa diremo ai corsi,
ai fiamminghi, ai baschi? E cosa faremo con la sedicente Padania, con la
Transilvania a maggioranza ungherese, con l’est dell’’Ucraina e tante
altre “nazioni” che potrebbero rivendicare la propria identità? E, fuori
dall’Europa, per quale motivo etico potremmo continuare a dire di no al
secolare desiderio dei Curdi a diventare Stato indipendente? Cosa dirà
la Cina agli Uiguri ed ai Tibetani? Senza voler parlare dell’Africa ove
gli storici confini coloniali racchiudono un coacervo di etnie, lingue e
culture così poco corrispondenti tra loro da creare stupore se tutto
dovesse restare come e’ ora.
Per tutti questi motivi il
giorno 18 settembre non sarà un giorno senza conseguenze. Qualunque sia
il risultato, il fatto che si tenga questo referendum incoraggerà altri
domande similari ma, soprattutto se l’esito sarà favorevole
all’indipendenza, dovremo prepararci ad anni in cui ci sarà molto nuovo
lavoro per i cartografi ma, speriamolo, non anche per i trafficanti
d’armi.
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