"Questo libro è costituito da una raccolta di interventi tratti dalla
rivista "High Times" diffusa in tutti gli Stati Uniti dai primi anni
settanta e specializzata nella controinformazione su ogni tipo di droga.
( ... )
Secondo gli autori di questo libro i problemi relativi alle sostanze alteranti, legali o illegali che siano, non derivano tanto dai loro principi attivi quanto dalle modalità con cui vengono impiegate, Cioè dalla consapevolezza e del senso di responsabilità dei singoli consumatori ... "
Dagli anni settanta ad oggi ci siamo accorti che sperare in un livello di consapevolezza da parte dei "consumatori" di droghe era (diventata?) un'utopia. Ciononostante, per quanto riguarda le notizie sulla presenza e l'uso di droghe nella storia umana e nel regno animale, ritengo interessante lo spezzone che segue.
Catherine
"È strano, ma l’alba delle droghe coincide con quella della vita su questo Pianeta.
Si pensa che la coltivazione intenzionale dei vegetali psicoattivi sia iniziata nel periodo neolitico poco dopo il 7000 a.C., praticamente in tutto il mondo, ma la raccolta delle piante che fanno strani effetti sulla mente era iniziata già da millenni.
Un’ipotesi fantasiosa sulla scoperta della marijuana, una delle più antiche specie a essere coltivata, può essere metaforicamente considerata valida per tutte le altre. Un abitante delle caverne, particolarmente curioso, nella sua incessante ricerca di cibo, raccoglie un po’ di fiori aromatici, li mette in bocca, ne mastica i semi con i suoi possenti molari e… un’ora dopo lo ritroviamo che vaga inebetito nella foresta, mentre cerca di ricordare cosa è successo. Oppure: un fulmine colpisce un albero e la fiamma si propaga a un gruppo di arbusti di canapa che si trova nel prato; un uomo di Neanderthal fiuta l’aria, impaurito dal fumo e pronto a scappare… finisce invece col rotolarsi nel fango, muggendo il primo suono umano: wow! Si potrebbe ripetere lo stesso episodio per altre parti del mondo… per la corroborante coca, per l’ipomea lisergica, per l’oppio profumato, per i funghi sacri, per lo spinoso stramonio.
Forse gli esseri umani hanno imparato l’uso delle droghe dagli animali.
La tradizione popolare australiana vuole che i koala abbiano sviluppato
una dipendenza per le foglie dell’eucaliptus, che è il loro unico cibo,
perché queste foglie avrebbero un effetto drogante. In Africa, dove gli
antenati dell’Homo sapiens si sono evoluti tre milioni di anni or sono,
gli effetti esilaranti del caffè, secondo la leggenda, furono scoperti
da un pastore abissino, che aveva notato che il suo gregge si era messo a
saltare sul pascolo, dopo aver mangiato il frutto di quell’albero verde
e lucente; una storia simile viene raccontata nello Yemen a proposito
del qat. La mangusta indiana, dopo essere stata morsicata da un cobra si
trascina nella giungla per rosicchiare la radice del mungo, come
antidoto.
In America le mucche vanno matte per la locoweed, una specie
di datura; i gatti divorano l’erba gatta; le renne ruminano funghi. I
conigli preferiscono la belladonna o la lattuga selvatica; gli uccelli
canori e i topi crescono vigorosi con i semi di canapa; i pesci
«sballano» grazie all’azione delle piante tossiche che cadono
nell’acqua. Persino gli elefanti adorano certi frutti di palma che
producono un liquore fortemente inebriante e, secondo le parole di un
esploratore del secolo XIX, «dopo averli mangiati, diventano
completamente brilli, barcollano, si esibiscono in grandi buffonate,
barriscono talmente forte che li si sente per miglia e non è raro che si
impegnino in tremende lotte».
Comunque sia, l’uomo imparò presto ad apprezzare le droghe.
Comunque sia, l’uomo imparò presto ad apprezzare le droghe.
Dopo secoli di esperimenti, si venne a creare una stirpe speciale, gli stregoni,
uomini e donne che sapevano quale droga mangiare e quale no, quando
mangiarla e quando no, quali dèi ringraziare e quali maledire. I segreti
di questi esperti di sostanze psicoattive sono sempre stati, almeno in
parte, segreti di selezione e tecnologia. Non si trovavano
nell’armadietto delle medicine, si andava a cercarli sul terreno, e guai
a chi sceglieva la pianta sbagliata. Diecimila anni fa, sapere come
ricavare la birra dall’orzo era altrettanto sensazionale quanto sapere
oggi come si fa l’Lsd.
Alcuni segreti erano custoditi così gelosamente
che rimangono tuttora dei veri e propri misteri. Cos’era l’albero della
vita? Cos’era l’albero della conoscenza? Che cosa era il nepenthes di
Omero, che annegava tutti i dispiaceri? Che sostanze usavano i Sumeri
per drogare i cortigiani destinati a essere seppelliti vivi con il re o
con la regina: oppio, hashish o semplicemente vino? Che cosa erano soma e
haoma, adorati dagli Arii in India e in Persia? Che cosa cuocevano i
maghi taoisti cinesi in pentole alchemiche per produrre la divina
euforia del non far niente? In America, di gran lunga più ricca di
allucinogeni dell’Europa, che cosa fumavano esattamente nelle pipe della
pace o nel guscio del mais e che cosa inalavano con cannule nasali?
Perché i sacerdoti Inca chiamavano la lucente stella Spica nella
costellazione della Vergine «Mamma Coca»: credevano forse che venisse da
lì? In quale età primordiale si imparò a mangiare il nauseante cactus
con la tenera pelle di dinosauro o a impastare le cortecciose piante
rampicanti e la vite ricca di viticci? Chi fu il primo a immaginare che
un fungo strano potesse offrire visioni più imperiose delle sacre
montagne degli dèi?
I mezzi più sofisticati della scienza moderna hanno
lasciato insoluti questi problemi; forse devono rimanere per sempre
delle ombre nel mitico passato.
Scavare nella storia della droga significa penetrare nel più profondo dei sensi umani: déja-vu, è tutto già successo, tutto succederà di nuovo. Le distorsioni dello scorrere del tempo, introdotte dalla droga, portano il partecipante a scivolare senza sforzo, di eternità in eternità, da uno scenario cosmico all’altro.
Scavare nella storia della droga significa penetrare nel più profondo dei sensi umani: déja-vu, è tutto già successo, tutto succederà di nuovo. Le distorsioni dello scorrere del tempo, introdotte dalla droga, portano il partecipante a scivolare senza sforzo, di eternità in eternità, da uno scenario cosmico all’altro.
E forse è proprio questo
intensificarsi di memoria ancestrale, questo senso di mitologia senza
tempo, prodotto dalle stesse droghe, che meglio illumina la loro storia
attraverso i tempi. Abbiamo imparato molto su come ottenere l’ebbrezza
da quando per la prima volta l’umanità si è svegliata sulla Terra, e
stiamo ancora imparando. Il primo precetto della stregoneria – la scelta
basata sul danno o sul vantaggio che effettivamente si prova –
rappresenta precisamente la tecnica impiegata dagli scienziati moderni
per esaminare il grado di sicurezza di un nuovo medicinale. Alcuni dei
più antichi esempi conosciuti riguardanti l’uso della droga ce lo
dimostrano. Il carbonio radioattivo ci conferma che i semi rossi di
mescal, allucinogeni, trovati in rifugi di roccia situati in Texas e in
Messico, erano usati più di diecimila anni fa dai cacciatori preistorici
di bufali. Questi semi scarlatti sono altamente tossici e possono
risultare letali.
Quando si scoprì che il peyotl offriva visioni più
spettacolari con minore pericolo, venne usato il cactus al posto del
fagiolo. Però i fagioli di mescal adornano ancora le vesti dei sacerdoti
della Native American Church, in ricordo di quella antica esperienza.
La scienza della droga progredì ulteriormente quando si cominciò a non
mangiare più qualsiasi pianta fosse a portata di mano, ma a sperimentare
la lavorazione di speciali preparati. Un po’ di cocci rotti sono tutto
quello che rimane del preparato forse più vecchio della Terra: la
semplice, familiare birra. Un alambicco con un setaccio in fondo e
cannucce sul bordo esterno è venuto alla luce da strati che risalgono al
6400 a.C. circa in Catal Hüyük, Turchia. Alcuni studiosi credono che
questa pentolasetaccio e arnesi simili nell’Egitto predinastico, fossero
frutto della scoperta di qualche mago del periodo Neolitico che imparò a
frantumare l’orzo che aveva raccolto, a passarlo attraverso il colino,
lasciarlo fermentare un po’ e bere la poltiglia ottenuta, ricca di
proteine e di fermenti, che lo avrebbe trasportato in uno stato mentale
insolito.
Già dal 4500 a.C., secondo il dott. Richard H. Blum, gli Egiziani «avevano imparato a elevare al massimo grado la fermentazione e il contenuto alcolico, facendo germogliare il grano in determinate condizioni di umidità e temperatura… E tutte le culture asiatiche Sud-occidentali avevano come bevanda domestica la birra». L’atteggiamento sospettoso della civiltà occidentale nei confronti delle droghe è iniziato in un fosco bagno di mistura di orzo. Le paghe giornaliere in Babilonia e in Egitto erano costituite da birra e pane. «Non bere troppa birra», venivano ammoniti gli operai che costruivano le piramidi. «Parli stupidamente e non ti ricordi le parole che ti sono uscite di bocca. Se poi cadi e ti rompi qualcosa nessuno ti darà una mano. I tuoi compagni di bevuta rimangono dove sono e ti dicono: “Lasciamo perdere questo ubriaco”, e se qualcuno ti viene a cercare, ti trova disteso per terra come un bambino».
Già dal 4500 a.C., secondo il dott. Richard H. Blum, gli Egiziani «avevano imparato a elevare al massimo grado la fermentazione e il contenuto alcolico, facendo germogliare il grano in determinate condizioni di umidità e temperatura… E tutte le culture asiatiche Sud-occidentali avevano come bevanda domestica la birra». L’atteggiamento sospettoso della civiltà occidentale nei confronti delle droghe è iniziato in un fosco bagno di mistura di orzo. Le paghe giornaliere in Babilonia e in Egitto erano costituite da birra e pane. «Non bere troppa birra», venivano ammoniti gli operai che costruivano le piramidi. «Parli stupidamente e non ti ricordi le parole che ti sono uscite di bocca. Se poi cadi e ti rompi qualcosa nessuno ti darà una mano. I tuoi compagni di bevuta rimangono dove sono e ti dicono: “Lasciamo perdere questo ubriaco”, e se qualcuno ti viene a cercare, ti trova disteso per terra come un bambino».
Così la birra era la bevanda
delle masse lavoratrici e il vino l’elisir dell’aristocrazia. Le feste
egiziane a base di vino erano leggendarie come risulta dai dipinti del
Nuovo Regno (1580 a.C. circa). Donne splendidamente vestite e uomini con
gioielli costosi siedono comodamente odorando fiori di loto, mentre
alcuni servi offrono loro profumi, unguenti, coppe di vino e frutta. In
un angolo si vede un tino di vino inghirlandato con piume, più in alto
delle danzatrici nude che volteggiano battendo le mani al suono della
musica di un’orchestra di donne esotiche. Era facile eccedere, come
mostra un altro dipinto descritto da Adolf Erman: «Una signora è
accovacciata miseramente a terra, l’abito le scivola dalla spalla, la
vecchia serva viene chiamata precipitosamente ma, ahimè, arriva troppo
tardi».
Era necessaria una cura per i postumi della sbornia. La prima di
cui si abbia conoscenza è riportata su una stele mesopotamica e
incidentalmente indica un altro progresso scientifico: un miscuglio di
parecchie sostanze in un’unica magica medicina. «Se un uomo beve del
vino forte, la sua testa ne rimane colpita e dimentica quello che dice,
il suo discorso diventa confuso, la sua mente comincia a vagare e i suoi
occhi assumono un’espressione vitrea. Per curarlo, prendi liquirizia,
fagioli, oleandro (e altre otto sostanze non identificate), mischiate
con olio e vino, prima dell’arrivo della dea Gula (il tramonto). Al
mattino, prima dell’alba e prima che qualcuno lo baci faglielo bere e si
riprenderà». Alcune tavolette di Ninive risalenti a circa il 2300 a.C.
alludono a delle taverne popolari, chiamate Bit Sakari, e il codice di
Hammurabi (quello dell’occhio per occhio, dente per dente) qualche
secolo dopo prescrive dure pene per chi si comporta male in questi bar.
Birra e vino scorrevano liberamente in tutto il mondo.
La Genesi
asserisce che Noè, il primo a possedere un vigneto, fosse uno spudorato
ubriacone. Gli africani ricavano un ponce da un succo estratto da alcune
palme, dal miglio e dal sorgo; gli abitanti del Tibet ricavano il chang
dall’orzo; i Peruviani la chica dal granturco; i Messicani il pulque
dall’agave. Secondo una leggenda della Cina preistorica, due astronomi
reali furono giustiziati per esser stati tanto ubriachi da non aver
visto un’eclissi; un’altra racconta che l’inventore del vino di riso
venne esiliato. I Norvegesi adoravano l’idromele, il dolce nettare di
miele che era la forza motrice degli exploit di Odino, Freya e Thor. Fra
tutti i popoli antichi, i Greci erano i più cauti per quanto riguarda
il vino, lo mescolavano sempre con l’acqua e deploravano la pratica
barbara di berlo puro.
Erodoto dice che gli Sciti usavano vino caldo
(mescolato a sangue umano) e canape selvatiche e racconta che gli odiati
Persiani prendevano tutte le decisioni importanti quando erano
completamente ubriachi e riconsideravano le decisioni prese da sobri,
quando erano di nuovo ubriachi. Come scrive Plutarco, il vino era
considerato una medicina. Era anche il liquido con cui venivano
somministrati la maggior parte dei rimedi a base di erbe.
Sopra. l’idolo di Gazi (Creta), statuetta di terracotta alta 77,5 cm., assegnata al tardo periodo minoico (circa 1350 – 1250 a.C.); a dx sigillo rinvenuto nell’Acropoli di Micene, attribuibile circa allo stesso periodo
Sopra. l’idolo di Gazi (Creta), statuetta di terracotta alta 77,5 cm., assegnata al tardo periodo minoico (circa 1350 – 1250 a.C.); a dx sigillo rinvenuto nell’Acropoli di Micene, attribuibile circa allo stesso periodo
I papiri medici egiziani elencano circa 200 farmaci, comprese cipolle,
fichi, aglio, anice, ginepro, papavero e semi di sesamo, trangugiati con
vino, birra, olio o miele. Il commercio di spezie e droghe cominciò
incredibilmente presto. La cassia e la cannella usate per imbalsamare
venivano dalla Cina e dall’Asia Sud-orientale, gli aromi di mirra,
balsamo e incenso dall’Arabia e dall’India. Il silphium, la famosa
pianta panacea della Grecia, cresceva in Libia e le esportazioni erano
così intense che si estinse nel primo secolo d.C..
La più famosa ricetta
dell’Egitto era un rimedio per il pianto dei bambini: «Shepen, le
granaglie di una pianta di shepen, mescolate con gli escrementi delle
mosche appiccicati sul muro, ridotte in poltiglia, passate attraverso un
setaccio e somministrate per 4 giorni consecutivi, fermerà il loro
pianto immediatamente». Se lo shepen era oppio, come molti studiosi
pensano, la cura avrebbe dovuto essere veramente efficace, con o senza
le cacche delle mosche. Il misterioso nepenthes dell’Odissea potrebbe
essere parente di questo.
Quando Telemaco visitò Sparta, la bellissima
«Elena, figlia di Zeus, versò nel vino che stavano bevendo una droga, il
nepenthes, che calmava tutti i dolori e dava l’oblio. Chi beveva questa
mistura non avrebbe versato una lacrima per tutto il giorno, neanche se
morivano suo padre o sua madre o se un fratello o l’amato figlio
venivano fatti a pezzi da un nemico davanti ai suoi occhi». Elena aveva
ottenuto la droga da Polidamia, moglie di Tono, in Egitto, «quella terra
ricca di molti farmaci, alcuni benefici, altri mortali, e dove tutti
conoscono la medicina». L’identità del nephentis ci ha resi perplessi
fin da allora. Teofrasto disse che probabilmente si trattava del frutto
dell’immaginazione di un poeta; Dioscoride sospettava che fosse una
mistura di giusquiamo e oppio; molti hanno pensato si trattasse di
hashish; Louis Lewin ha dato brevemente la versione moderna: «Esiste
solo una sostanza al mondo capace di agire in questo modo, ed è
l’oppio».
Quanto sapevano gli antichi sull’oppio ci dà un rapido
panorama dello sviluppo di due scienze gemelle: farmacologia e
tossicologia. Capsule e semi del Papaver sonniferum sono stati portati
alla luce in zone neolitiche in tutta Europa. In Egitto, in Grecia e a
Cipro sono stati rinvenuti dei vasi a forma di capsula, spilli e
amuleti, mentre a Creta è venuta alla luce la statua di una dea Minoica
del papavero, incoronata da un diadema di capsule di papavero incise
(1300 a.C. circa). Tavolette mediche assire recano le parole Hul Gil che
sono state tradotte «pianta che dà gioia» oppure «cetriolo
maleodorante». Alcuni pensano che si tratti di oppio. Infine nel secolo V
a.C., Ippocrate, il padre della medicina greca, afferma
inequivocabilmente che il succo del papavero è usato in medicina come
antidolorifico. Aristotele, che con le sue speculazioni filosofiche su
animali e piante è considerato il padre della biologia, nomina il
papavero, definendolo «ipnotico» (da Hypnos, dio del sonno). Teofrasto,
suo allievo ed erede degli scritti del Maestro, diede il suo contributo,
sulla scia della tradizione del Maestro, con una massiccia Ricerca
sulle Piante, in cui si parla, forse per la prima volta, di incidere il
papavero per ottenere l’oppio.
Un altro allievo famoso di Aristotele, Alessandro Magno, portò con sé, in Persia e in India, degli esperti erboristi; questi ritornarono in Patria con un notevole patrimonio di informazioni relative alle piante medicinali asiatiche, informazioni che tuttavia non impedirono allo stesso Alessandro di morire di febbre a Babilonia dopo una solenne sbornia. In seguito vennero fondate delle scuole greche in Sira e ad Alessandria; esse promossero la diffusione della farmacologia e tramandarono gli insegnamenti aristotelici in arabo. Si venne così a formare un bagaglio di informazioni disponibili, da aggiungere e quelle fornite dal folclore dei raccoglitori di erbe (rhizotomoi) e dai venditori di medicinali (pharmakopolai). Inoltre, le ricerche botaniche avevano anche l’appoggio dello Stato, specialmente dei governanti che avevano paura di venire avvelenati.
Un altro allievo famoso di Aristotele, Alessandro Magno, portò con sé, in Persia e in India, degli esperti erboristi; questi ritornarono in Patria con un notevole patrimonio di informazioni relative alle piante medicinali asiatiche, informazioni che tuttavia non impedirono allo stesso Alessandro di morire di febbre a Babilonia dopo una solenne sbornia. In seguito vennero fondate delle scuole greche in Sira e ad Alessandria; esse promossero la diffusione della farmacologia e tramandarono gli insegnamenti aristotelici in arabo. Si venne così a formare un bagaglio di informazioni disponibili, da aggiungere e quelle fornite dal folclore dei raccoglitori di erbe (rhizotomoi) e dai venditori di medicinali (pharmakopolai). Inoltre, le ricerche botaniche avevano anche l’appoggio dello Stato, specialmente dei governanti che avevano paura di venire avvelenati.
Mitridate VI, re del Ponto in Asia
Minore (120 – 63 a.C.), descrisse tutte le piante medicinali conosciute
nel suo regno e assunse un rizotomo di nome Crateua in qualità di medico
personale. Insieme si guadagnarono la fama di saperne più di ogni altro
al mondo sui veleni. Il re diede il suo nome al più rinomato sistema
per prevenire gli avvelenamenti, che da allora si chiamò cura
mitridatica (somministrazione di sostanze tossiche in dosi
progressivamente crescenti allo scopo di ottenere l’assuefazione
dell’organismo ai veleni e la conseguente immunità), e il suo erborista
fornì i disegni più verosimili di piante che siano mai stati fatti a
quell’epoca. Tra queste piante c’era un papavero ora battezzato Papaver
dubium, da cui si ricava l’oppio. L’arte dell’avvelenamento era talmente
sviluppata che talvolta si rivelava vana persino la precauzione di
assumere schiavi in qualità di assaggiatori.
Tacito racconta che quando
Nerone salì sul trono romano nel 54 d.C. aveva incaricato una donna,
precedentemente processata per avvelenamento, di preparare un veleno a
effetto rapido da mettere nel vino di suo fratello Britannico. La
difficoltà consisteva nell’escogitare un modo per ingannare
l’assaggiatore. Ricordando che Britannico preferiva il vino riscaldato
Nerone gli portò una coppa di vino che, secondo lo schiavo, era troppo
caldo per essere bevuto. Il veleno venne quindi versato nella coppa
insieme all’acqua fredda e l’ignaro Britannico bevve il vino in un
sorso. Pochi secondi dopo la pretesa al trono di Nerone era
incontrastata, tranne che da sua madre, anche lei avvelenatrice famosa.
Anticamente la più grande autorità di tutto il Mediterraneo in fatto di
medicinali era Dioscoride, un medico nato in Asia Minore che aveva
viaggiato in lungo e in largo con l’esercito di Nerone e aveva raccolto
una vasta mole di informazioni. Dioscoride compilò un’opera
fondamentale, De Materia Medica, che comprende un migliaio circa di
medicine di origine animale, vegetale e minerale. Di queste, circa 600
erano piante (circa 100 in più di quelle conosciute da Teofrasto e 450
più di Ippocrate).
Disegni di molte di queste specie, di cui alcuni si
rifacevano a quelli di Crateua, furono conservati in un codice bizantino
del 512 d.C. e divennero la base delle illustrazioni botaniche per i
successivi mille anni. Le descrizioni di Dioscoride sui farmaci e i loro
effetti, sebbene sommarie, erano di gran lunga superiori alle
precedenti. Tra le piante esaltate da Dioscoride si annoverano: la
canapa, l’oppio, l’elleboro bianco e nero, il giusquiamo, l’aloe, la
cicuta, l’aconito, la ruta siriana, il calamo, le cipolle, il ginepro e
una grande quantità di fiori e spezie. Il suo compendio ebbe una grande
influenza su Galeno e Plinio il Vecchio e sui grandi erboristi che
seguirono.
Fino al culmine del Rinascimento il De Materia Medica fu
considerato un’autorità quasi infallibile. Incidentalmente, Dioscoride
fu il primo a usare la parola anestesia nella sua accezione moderna.
L’influsso di Dioscoride sulla farmacologia permane ancora nei testi
moderni come il Merck Index, che attualmente comprende 42.000 prodotti
chimici e farmaci, facilmente consultabile grazie all’ordine alfabetico
introdotto per la prima volta da questo sapiente medico militare quasi
20 secoli fa. D’altra parte il Merck Index segue anche un modello già
usato nei papiri egiziani, che elencavano le varie malattie, con le
rispettive prescrizioni. Questo è anche l’ordine che si trova negli
insegnamenti medici ayurvedici dell’India, di portata molto più vasta.
Le prime tracce scritte della medicina indiana si trovano nei testi
religiosi e magici dei Veda del secondo millennio a.C. e successivamente
la medicina progredisce e si concretizza in enciclopedie attribuite ai
dottori Charaka e Susruta.
«Non esiste sostanza al mondo che non sia medicina» proclamava Charaka, e dimostrava la sua asserzione prescrivendo migliaia di farmaci per ogni malattia possibile o immaginabile. Charaka riporta la prima conferenza del mondo sui farmaci tenutasi nel VII secolo a.C., e sembra probabile che il suo lavoro sia una compilazione di tutto lo scibile indiano dell’epoca, relativo alle piante dell’India. Tra le innovazioni di Charaka si annoverano l’identificazione di circa 80 varietà di vino, il trattamento dei malati mentali in celle imbottite, canti e danze rituali (mantra) per rendere i farmaci più efficaci, addestramento intensivo di danzatrici come avvelenatrici, note minuziose su come conservare i farmaci e fumare erbe aromatiche con pipe di canna o in sigari intrecciati. In casi di tosse tubercolare per esempio, Charaka raccomanda che il «paziente fumi un sigaro arrotolato con tela di lino impregnata di arsenico rosso, palas, carote selvatiche, manna di bambù e zenzero secco. Dopo aver fumato, il paziente può bere il succo della canna da zucchero o acqua gur».
«Non esiste sostanza al mondo che non sia medicina» proclamava Charaka, e dimostrava la sua asserzione prescrivendo migliaia di farmaci per ogni malattia possibile o immaginabile. Charaka riporta la prima conferenza del mondo sui farmaci tenutasi nel VII secolo a.C., e sembra probabile che il suo lavoro sia una compilazione di tutto lo scibile indiano dell’epoca, relativo alle piante dell’India. Tra le innovazioni di Charaka si annoverano l’identificazione di circa 80 varietà di vino, il trattamento dei malati mentali in celle imbottite, canti e danze rituali (mantra) per rendere i farmaci più efficaci, addestramento intensivo di danzatrici come avvelenatrici, note minuziose su come conservare i farmaci e fumare erbe aromatiche con pipe di canna o in sigari intrecciati. In casi di tosse tubercolare per esempio, Charaka raccomanda che il «paziente fumi un sigaro arrotolato con tela di lino impregnata di arsenico rosso, palas, carote selvatiche, manna di bambù e zenzero secco. Dopo aver fumato, il paziente può bere il succo della canna da zucchero o acqua gur».
Il medico Susruta elencò più di 760
piante medicinali, compresi anestetici, veleni, narcotici e spezie. La
liquerizia e il pepe erano le sue medicine preferite; mango,
microbolani, peperoni e datura i suoi afrodisiaci. Fu il primo chirurgo
plastico del mondo; rifaceva i nasi che erano stati tagliati come
punizione per l’adulterio. Susruta affumicava le sale operatorie con
erbe aromatiche e usava la belladonna, la canapa e la datura per
provocare uno stato di torpore. La serpentaria (Rauwolfia serpentina),
da cui i chimici moderni estraggono un tranquillante, la reserpina, era
prescritta per la febbre, il morso del serpente, il colera, in caso di
parto difficile e per la «follia» o demenza.
L’origine della farmacologia cinese è attribuita al mitico imperatore
Shen Nung. Secondo la tradizione egli provò un centinaio di droghe su se
stesso e, dato che poteva rendere il suo corpo trasparente quando
voleva (una bella metafora per l’introspezione causata dalle droghe!),
era in grado di osservare gli effetti di queste droghe e prendere, se
necessario, un antidoto. Era quindi in grado di classificarle: le droghe
«superiori» non erano velenose, ma ringiovanivano; quelle «medie» erano
in un certo grado tossiche, a seconda della dose; quelle «inferiori»
erano velenose, ma utili per alcune malattie.
La prima farmacopea cinese
(Pen T’sao) adottò questo schema e venne attribuita a Schen Nung,
sebbene in realtà fosse stata redatta da studiosi della dinastia Han
(206 a.C. - 220 d.C.). Vi sono elencate 365 erbe terapeutiche – una per
ogni giorno dell’anno – comprese: canapa, efedra, rabarbaro, liquerizia,
sesamo, zenzero, cassia, cannella e il meraviglioso afrodisiaco e
toccasana ginseng. Come la mandragora nell’Occidente, più la radice di
ginseng assomigliava al corpo umano, più era ritenuta efficace. Alcune
polveri effervescenti venivano somministrate nel vino e una di queste,
il ma-fei-san, probabilmente un preparato di canapa, fu uno dei primi
anestetici usati in Cina. Venne introdotto per la prima volta dal famoso
chirurgo Huat’o alla fine della dinastia Han per i casi in cui
l’agopuntura, le misture o i balsami si rivelavano inefficaci e si
doveva ricorrere alla chirurgia.
Hua usava pochi farmaci, ma era
talmente esperto in questo campo che un uomo politico del tempo, avendo
paura di essere avvelenato, lo fece condannare a morte – arrestando così
il progresso della chirurgia cinese per centinaia d’anni. Comunque,
prima di morire, Hua aveva addestrato i suoi allievi in esercizi
fisico-ginnici (le posizioni dei 5 animali) che vengono considerati i
precursori del T’ai chi ch’uan e di tutte le altre arti marziali. I
maghi taoisti incominciarono presto a cercare l’immortalità praticando
il kung-fu, nutrendosi di cibi genuini e usando moltissimi farmaci.
Indubbiamente molti erano solo ciarlatani, ma questo non si può dire del
grande alchimista Ko Hung (300 d.C. circa). Ko, secondo una leggenda,
era riuscito a trasformare delle erbe e dei metalli preziosi in un
elisir dell’immortalità usando il cinabro, e si narra che alla sua morte
la sua salma fosse diventata incredibilmente leggera, come se fosse
rimasto solo il sudario, svuotato del corpo.
Ko stabilì delle regole per
migliorare il processo respiratorio e la circolazione sanguigna con
l’aiuto di tonici e diete speciali. Per i disturbi comuni sottolineò la
necessità di cure semplici e poco costose, come la sua prescrizione per
l’asma: un composto di efedra, liquerizia, cannella e semi polverizzati
di albicocche. Rimedi simili furono diffusi in lungo e in largo dai
monaci buddisti che, spostandosi lentamente dall’India alla Cina, dal
Giappone all’Asia Sud-orientale, raccoglievano le varie erbe. Secondo
una leggenda, il tè venne scoperto da Bodhidharma, il fondatore del
buddismo Ch’an (lo zen), che, essendosi addormentato durante una
meditazione, per punizione si tagliò le palpebre; nel punto in cui
caddero le palpebre insanguinate crebbe la pianta del tè, dalla quale
ricavò una bevanda che in seguito lo avrebbe tenuto sveglio (storie
simili abbondano in Arabia a proposito dei monaci Sufi e della scoperta
del caffè). Questi infusi presero presto posto nella farmacologia cinese
accanto al ginseng e ai vini e costituiscono tuttora una parte
importante della medicina, dato che vengono ancora usati dai «dottori
scalzi» della Cina.
Durante il Medio Evo, mentre la scienza europea sonnecchiava, le farmacologie cinese e araba erano nel loro fulgore e quando queste due tradizioni si incontrarono con la medicina indù sulla via della seta, ogni dottore o «drogato» fu notevolmente interessato. L’Europa medievale divenne un Continente di storie favolose, un calderone ribollente di segreti magici e di racconti provenienti dall’Arabia, dall’India e dal Catai. La medicina ufficiale si distingueva a malapena dalla stregoneria; le streghe probabilmente avevano una conoscenza più profonda sui farmaci di quella dei dottori. Il più importante anestetico, oltre all’alcol, era la spongia sonnifera, un insieme di oppio, mandragora, gelso, cicuta, edera legnosa, romile e succo di lattuga, con cui si imbeveva la spugna. Gli intrugli delle streghe avevano più o meno gli stessi ingredienti, con un’aggiunta di allucinogeni solanacei.
Carestie, vaiolo, peste, dilagavano nelle città
infestate dai topi. I cittadini affamati mangiavano con riluttanza
segale di frumento che li avvelenava di ergotismo (il fuoco di
Sant’Antonio), una specie di pazzia accompagnata da piaghe aperte e
cancrena. I deboli e i moribondi cercavano rifugio nella Chiesa, dove
farmacia significava raccogliere erbe nei campi e la medicina
significava sperare in Dio. Un rimedio abbastanza comune per la cecità
consisteva nell’ingoiare un verme vivo tutto intero recitando il Padre
Nostro; il salasso praticato con sanguisughe e l’applicazione di ventose
era la cura indicata per la peste bubbonica. Le droghe ricreative
preferite (tranne che dalle streghe) per l’estasi momentanea che
procuravano erano ancora l’idromele, la birra e il vino. I centri della
cultura ufficiale erano i monasteri dove gli amanuensi trascrivevano a
mano, laboriosamente, vecchie pergamene in rovina. Alla fine, proprio
per questo coscienzioso lavoro di copiatura, la scienza araba, tradotta
in latino, filtrò lentamente in Europa facendola uscire dal buio
dell’ignoranza.
E che splendori offrì al mondo il genio della farmacologia musulmana! I filosofi-scienziati orientali conservarono la tradizione greca e romana e la arricchirono con gli splendori della conoscenza asiatica delle droghe. Dal profondo dell’Africa e, attraverso la Persia, dall’India e dalla Cina della dinastia T’ang arrivarono le novità fino a Salerno e Cordova tanto velocemente quanto potevano portarle gli stalloni arabi. Quello che era cominciato come misticismo divenne una vera e propria scienza. L’alchimista Geber (760 d.C.) sviluppò l’erbario di Dioscoride fino a farlo diventare una rispettata dissertazione sui veleni, aggiungendo elettuari di bhang (canapa), segale cornuta, noce vomica, mercurio, arsenico e cinabro.
E che splendori offrì al mondo il genio della farmacologia musulmana! I filosofi-scienziati orientali conservarono la tradizione greca e romana e la arricchirono con gli splendori della conoscenza asiatica delle droghe. Dal profondo dell’Africa e, attraverso la Persia, dall’India e dalla Cina della dinastia T’ang arrivarono le novità fino a Salerno e Cordova tanto velocemente quanto potevano portarle gli stalloni arabi. Quello che era cominciato come misticismo divenne una vera e propria scienza. L’alchimista Geber (760 d.C.) sviluppò l’erbario di Dioscoride fino a farlo diventare una rispettata dissertazione sui veleni, aggiungendo elettuari di bhang (canapa), segale cornuta, noce vomica, mercurio, arsenico e cinabro.
Cercò di penetrare il mistero della
«pietra filosofale» con cui si potevano tramutare i metalli vili in oro,
e durante tali studi scoprì l’acido nitrico, l’acido solforico e la
distillzione dell’alcol. Rhazes di Bagdad (900 d.C.) comprese la
patologia del vaiolo e di altre pestilenze terrificanti, tuttavia, 7
secoli dopo i dottori europei indossavano ancora maschere a forma di
uccello per difendersi dalla peste. Il visionario persiano Avicenna (980
– 1037) trasformò l’antichissima mitologia in ricerca clinica,
provocando gli anestetici su se stesso e registrando i suoi esperimenti
in un grosso trattato sui farmaci: si dice che, come risultato, morì di
una dose eccessiva di oppio. Nel secolo XIII Ibn Beitar ampliò l’opera
di Avicenna e redasse il più completo trattato musulmano in fatto di
materia medica, in cui erano contenute le applicazioni terapeutiche di
circa 1400 farmaci.
Lentamente anche l’Europa venne a conoscenza di questi progressi. Lo scrittore Chaucer, per esempio, conosceva bene «la lunga relazione di Avicenna sul veleno e il suo modus operandi» e le opere di altri farmacologi arabi sono nominate nei suoi Racconti di Canterbury. La ricca tradizione musulmana assorbì la cola e la kanna dall’Africa, il qat dallo Yemen, la datura e il betel dall’India, la noce moscata e i chiodi di garofano dalle Isole delle Spezie, e in cambio diede al mondo l’oppio, l’hashish, il caffè e l’alcol. La mandragora, la mirra, la teriaca, la trigonella, l’aconito, il cardamomo e molte altre droghe esotiche ben conosciute in Arabia arricchirono la medicina cinese nel secolo XIII. I capi mongoli come Kublai Khan, che governava la Cina quando Marco Polo la visitò nel secolo XIII, erano degli instancabili bevitori, e i loro eredi, gli imperatori Moghul dell’India, coltivavano l’oppio e la canapa e fecero diventare l’uso di questa droga una pratica comune a corte. Gli esperti tantrici usavano vino, carne con spezie e frullati di marijuana durane complicate cerimonie erotico-religiose.
Lentamente anche l’Europa venne a conoscenza di questi progressi. Lo scrittore Chaucer, per esempio, conosceva bene «la lunga relazione di Avicenna sul veleno e il suo modus operandi» e le opere di altri farmacologi arabi sono nominate nei suoi Racconti di Canterbury. La ricca tradizione musulmana assorbì la cola e la kanna dall’Africa, il qat dallo Yemen, la datura e il betel dall’India, la noce moscata e i chiodi di garofano dalle Isole delle Spezie, e in cambio diede al mondo l’oppio, l’hashish, il caffè e l’alcol. La mandragora, la mirra, la teriaca, la trigonella, l’aconito, il cardamomo e molte altre droghe esotiche ben conosciute in Arabia arricchirono la medicina cinese nel secolo XIII. I capi mongoli come Kublai Khan, che governava la Cina quando Marco Polo la visitò nel secolo XIII, erano degli instancabili bevitori, e i loro eredi, gli imperatori Moghul dell’India, coltivavano l’oppio e la canapa e fecero diventare l’uso di questa droga una pratica comune a corte. Gli esperti tantrici usavano vino, carne con spezie e frullati di marijuana durane complicate cerimonie erotico-religiose.
Le
dinastie T’an, Sung, Yuan (mongola) e quella Ming (cinese) raccolsero
tutte le informazioni che l’Asia poteva fornire sui farmaci in
magnifiche farmacopee, la più importante e famosa delle quali è
considerata il Pen Ts’ao Kang Mu di Li Shishchen, del secolo XVI. Per
completarla ci vollero ben 27 anni; forniva 8160 ricette per 1871
sostanze differenti. L’Europa nel frattempo stava cominciando a scoprire
il caffè e cercava di bandirlo tacciandolo di essere un intruglio
satanico degli infedeli. Quando Marco Polo tornò a Venezia per parlare
ai suoi concittadidell’ambra grigia, del muschio, del vino di spezie,
della canfora, del salnitro, dei chiodi di garofano, del pepe, delle
noci di cocco, dello zenzero, del latte condensato, del fiele di
coccodrillo, dello spiganardo, della noce moscata e di altre medicine
preziose di cui aveva fatto tesoro – per non parlare degli spaghetti,
della polvere da sparo, dell’amianto, della carta moneta e della setta
degli Assassini – venne considerato un pazzo visionario e bugiardo.
Comunque, l’influenza illuminatrice del grande flusso del sapere
musulmano fu senza dubbio importante. Valerio Cordus (1514-44) diede
all’Europa la sua prima vera farmacopea, versione riveduta e corretta di
quella di Dioscoride. Egli trasformò l’acido solforico di Geber nel
soave olio di vetriolo, più tardi denominato etere. Un suo
contemporaneo, lo stravagante medico svizzero Paracelso, bruciò i libri
di Avicenna per protesta contro la creduloneria tipica e piena di
pregiudizi del passato, ma astutamente conservò le ricette dell’etere e
della tintura d’oppio (il laudano) per uso personale. Gli Arabi
impararono a fare la carta dai Cinesi ed esportarono questa carta di
cotone in tutto il Mediterraneo. In Spagna crescevano rigogliosi i prati
di canapa e lino, e dal secolo XIII la carta che se ne ricavava fu
largamente usata in Castiglia. Da lì fu introdotta, attraverso i
Pirenei, in Francia, poi in Germania, dove nel 1454 J. Gutemberg stampò
la Bibbia con caratteri tipografici mobili. La nuova tecnologia permise
subito di stampare erbari che resero possibile una più ampia diffusione
dell’informazione sui farmaci, invece di affidarsi a dicerie e a vecchi
manoscritti ammuffiti.
Incominciò così il Rinascimento, la rinascita del sapere in un’Europa stanca di epidemie letali e di crociate inutili. L’esperienza si sostituì alle dicerie con la conoscenza di centinaia di piante farmacologiche. Nel 1542 apparve l’Historia Stirpium, che rimproverava gli studiosi per la loro ignoranza, riassumendo migliaia di anni di notizie sulle piante locali e straniere e fornendo nuove e sbalorditive illustrazioni xilografiche di numerose piante. Fuchs vi incluse anche alcune piante americane come il mais indiano. L’età delle scoperte era in piena fioritura. Al posto dell’oro e delle spezie, Colombo era tornato dall’America con scoperte come il tabacco, il granturco e gli allucinogeni da fiuto (la cohoba delle Antille, che contiene il Dmt).
Incominciò così il Rinascimento, la rinascita del sapere in un’Europa stanca di epidemie letali e di crociate inutili. L’esperienza si sostituì alle dicerie con la conoscenza di centinaia di piante farmacologiche. Nel 1542 apparve l’Historia Stirpium, che rimproverava gli studiosi per la loro ignoranza, riassumendo migliaia di anni di notizie sulle piante locali e straniere e fornendo nuove e sbalorditive illustrazioni xilografiche di numerose piante. Fuchs vi incluse anche alcune piante americane come il mais indiano. L’età delle scoperte era in piena fioritura. Al posto dell’oro e delle spezie, Colombo era tornato dall’America con scoperte come il tabacco, il granturco e gli allucinogeni da fiuto (la cohoba delle Antille, che contiene il Dmt).
Improvvisamente si aprì un nuovo Continente, ricco di piante di droga da
esplorare e da sfruttare. Grande fu lo stupore degli esploratori quando
scoprirono che questo Continente non era certo le Indie dei loro sogni,
ma una nuova e strana terra. Quando, nel 1499, Amerigo Vespucci arrivò
nell’Isola di Margarita, al largo del Venezuela, invece di Mandarini
vestiti di seta che bevevano tè trovò degli indigeni seminudi che
masticavano foglie di coca: «Avevano l’apparenza e il comportamento di
bruti e masticavano come dei ruminanti le foglie di una certa erba
verde, tanto che potevano parlare a malapena… Lo facevano frequentemente
e masticavano poche foglie alla volta. La cosa ci sembrava
meravigliosa, perché non capivamo il segreto né il perché». Vespucci non
sapeva certo di essersi imbattuto in una tradizione sacra, che risaliva
a 4000 anni addietro, ma capì che non era arrivato nel Catai.
Quando,
nel 1532, Pizzarro arrivò in Perù, gli fu offerta la spumeggiante chicha
(birra di mais) in calici d’oro. In risposta fece arrestare il re degli
Incas, si fece pagare il riscatto, costituito da una stanza piena
d’oro, poi lo uccise e fece fondere lo scintillante Tempio del Sole, che
era adorno di fregi d’oro che riproducevano ramoscelli di coca. I preti
dell’Inquisizione sdegnarono la pianta divina degli Incas come se fosse
erba del diavolo, ma con essa nutrirono le tribù conquistate per
incrementare il lavoro forzato delle miniere. Benché Monardes di
Siviglia e altri avessero già notato gli stupefacenti poteri stimolanti
della coca, gli europei incominciarono a interessarsi a questa droga
solo nel secolo XIX. Quando Cortes conquistò il vecchio Messico,
percorrendo a cavallo il più grande impero psichedelico che il mondo
abbia mai conosciuto, domandò dell’oro come rimedio specifico contro
«una malattia del cuore» di cui soffrivano gli europei.
Montezuma lo
coprì d’oro e gli mostrò con orgoglio i vasti giardini di piante
medicinali. Offrì ai conquistatori «il cibo degli dèi»: cioccolato
schiumoso, sigarette fatte con foglie di tabacco, e pulque. L’ospitale
imperatore comandò ai suoi stregoni di preparare pozioni sacre che
comprendevano senza dubbio funghi magici, peyotl, semi di ipomea e il
sinicuihi, un allucinogeno che agiva sul senso uditivo. Cortes rifiutò
tutto definendolo «cibo stregato» e continuò imperterrito a massacrare
60.000 e più Aztechi. Poco dopo, Coronado capeggiò una spedizione verso
il Nord alla ricerca delle Sette città d’oro.
Tutto quello che scoprì fu
il bacino di Los Angeles dove notò che il fumo degli accampamenti
sembrava non salire mai e che gli indigeni bevevano la datura per
diventare chiaroveggenti. Gli psichedelici sacri del Messico e del
Sud-Ovest furono tenuti nascosti, pena la morte. Tutti, eccetto due.
Infatti Cortes spedì dei semi di cacao all’Infanta di Spagna e ben
presto le nobildonne spagnole iniziarono a bere la cioccolata calda
anche in chiesa. E il tabacco… faceva parte degli psichedelici? Era la
droga miracolo dell’America, veniva usata molto di più delle altre, ed
era spesso mischiata con altre piante. La piacevole Nicotiana tabacum
veniva fiutata e bevuta come succo dal Messico al Cile. Ma in Nord
America alcune specie più aspre (la Nicotiana rustia, l’attenuata e la
bigelovii) venivano usate nelle cerimonie e i primi racconti lasciano
pensare che fossero allucinogene: sciamani che cadevano in trance,
guerrieri pellirossa che ridacchiavano davanti a cilindri d’erba alti 60
centimetri, intere tribù che aspiravano una pipa dopo l’altra e
danzavano in un delirio magico, molto probabilmente dovuto alle altre
droghe fumate insieme al tabacco.
Comunque, persino nei tabacchi
commerciali lavorati, i chimici hanno scoperto degli alcaloidi di
armala, che sono strettamente connessi agli alcaloidi dello yagè, il
rampicante dell’Amazzonia che provoca le visioni. C’è ancora molto da
imparare su queste piante sacre. William Embodem fa notare che «in pochi
decenni ci furono più spagnoli convertiti al fumo che Indiani
convertiti al Cristianesimo», e lo stesso vale per gli Inglesi, i
Francesi e gli Olandesi. Poco dopo l’arrivo a Londra di alcune pipe, del
tabacco e di un indiano, a opera di sir W. Raleigh, il re Giacomo I
indisse una fiera «campagna contro il tabacco» (1604), che non trattenne
affatto i suoi leali sudditi dal fumarlo! Il tabacco divenne un
importante commercio in Virginia e i colonizzatori continuarono a
cercare altre sostanze vegetali.
Nel 1676, in America, uno squadrone di soldati, stazionato a Jamestown mangiò della datura e fu talmente scosso dai suoi effetti bizzarri che da quel momento la datura venne popolarmente conosciuta come «erbaccia di Jimson» (da Jamestown). La ricerca di sostanze vegetali nuove fu la base delle spedizioni commerciali. Il tabacco proveniente dall’Occidente e il caffè dall’Oriente conquistarono l’Europa del secolo XVII. Fumose caffetterie servivano da centri di smistamento e di commercio ed erano centri di raccolta di tutte le ciacchiere su ciò che accadeva nel mondo. Qui nacquero l’assicurazione moderna, la novella come forma letteraria e maestose istituzioni scientifiche (come la Reale Accademia Britannica). Audaci trame di intrighi internazionali diffusero il caffè, il tè e il tabacco in tutto il mondo e queste droghe divennero simboli e forze politiche.
Nel 1676, in America, uno squadrone di soldati, stazionato a Jamestown mangiò della datura e fu talmente scosso dai suoi effetti bizzarri che da quel momento la datura venne popolarmente conosciuta come «erbaccia di Jimson» (da Jamestown). La ricerca di sostanze vegetali nuove fu la base delle spedizioni commerciali. Il tabacco proveniente dall’Occidente e il caffè dall’Oriente conquistarono l’Europa del secolo XVII. Fumose caffetterie servivano da centri di smistamento e di commercio ed erano centri di raccolta di tutte le ciacchiere su ciò che accadeva nel mondo. Qui nacquero l’assicurazione moderna, la novella come forma letteraria e maestose istituzioni scientifiche (come la Reale Accademia Britannica). Audaci trame di intrighi internazionali diffusero il caffè, il tè e il tabacco in tutto il mondo e queste droghe divennero simboli e forze politiche.
I coloni americani manifestarono la loro ribellione buttando
in mare casse di tè inglese nel porto di Boston (1773). Ben presto si
potè facilmente individuare da quale parte della rivoluzione si trovasse
una persona da ciò che beveva per colazione. Le droghe erano gli
ingredienti chiave nel «commercio triangolare»: rum, schiavi e melassa
nelle Indie occidentali: oppio, tè e seta in Asia. Il laudano, un
soluzione alcolica d’oppio, era particolarmente apprezzato come
medicinale. Nel secolo XVII il medico Thomas Sydenham lo prescriveva
talmente spesso che venne soprannominato dr. Opiatus. La canapa fu
piantata in tutto il mondo a causa della fibra che se ne ricavava, ma
gli schiavi africani (e più tardi i servitori indiani) ne fecero
conoscere all’America un uso diverso. La British East India Company
inviò migliaia di avventurieri all’estero. L’uso di fumare tabacco e
oppio vennero introdotti a forza in Cina e ciò portò nel secolo XIX alle
guerre dell’oppio.
Gli asiatici persero e questa sconfitta fu
ipocritamente descritta dagli Inglesi come «l’apertura della via della
Cina». In Europa giunsero così tante piante medicinali che la scienza e
la tecnologia progredirono a un ritmo vertiginoso. Il botanico reale
svedese Carlo Linneo inventò la classificazione secondo varietà e specie
per portare ordine in questo caos. Coltivò, inoltre, piante di canapa
sul suo balcone, per confermare la sessualità delle piante, innalzata in
seguito a scienza della genetica dal naturalista agostiniano Gregorio
Mendel. I protochimici, come il «marchese de Outrage», nel secolo XVII,
fecero esperimenti secondo regole dettate da Cordus e Paracelso:
l’estrazione di sostanze mediante soluzioni alcoliche. Nel 1798,
cercando di trovare una base per strappare l’India agli Inglesi,
Napoleone condusse le sue truppe e un contingente di osservatori
scientifici in Egitto. Qui, un intero esercito di francesi fece la
conoscenza dell’hashish.
Nel Nord Africa alcuni dottori francesi
impararono a conoscere il valore medico della canapa e J.J. Moreau de
Tours creò la moderna psicofarmacologia e una cura a base di droghe
psicotomimetiche grazie ai suoi studi sulla datura e sull’hashish
(1845). L’India era la destinazione più ambita dai giovani ufficiali
britannici e molti, come Robert Clive, primo governatore del Bengala,
diventarono degli oppiomani. Un giovane e brillante chirurgo, William B.
O’Shaughnessy, introdusse la canapa nella medicina occidentale (1839) e
il telegrafo in India. Ci furono nel parlamento inglese molti dibattiti
sull’oppio e sulla canapa che culminarono nelle prime massicce ricerche
governative moderne sui medicinali (per esempio The Indian Hemp Drugs
Commission Report, del 1894). Nel frattempo gli esperti impegnati a
studiare i Veda scoprirono che in età remote i loro avi erano legati
alla grande famiglia della lingua Indo-Europea.
La preparazione di
medicinali grezzi fece sviluppare a tal punto le tecniche di analisi
chimica che nel 1806 un chimico tedesco, F.W.A. Sertürner, riuscì a
estrarre un alcaloide dall’oppio e lo chiamò morfina, in onore di
Morfeo, il dio del sonno. Ciò diede inizio, nel secolo XIX alla grande
era della tossicologia alcaloidea. Caventou e Pelletier a Parigi
isolarono la stricnina dalla noce vomica, il chinino dalla china, la
caffeina dal caffè; altri seguirono con l’atropina dalla belladonna, la
conina dalla cicuta e la josciamina dal giusquiamo. La disponibilità di
alcaloidi puri pose la farmacologia in una posizione solida e permise un
esame minuzioso del rapporto dose-effetto, esposto nel formulaire di
François Magendie del 1821, il precursore delle moderne farmacopee.
Ben presto alcuni giovani esploratori perlustrarono il Pianeta alla ricerca di altre medicine. Richard Spruce si inoltrò lungo il Rio delle Amazzoni e, in un fantastico squarcio di preveggenza, raccolse dei ramidi yagè (ayahuasca caapi) per analisi chimiche. Se qualcuno si fosse preso il compito di analizzarle si sarebbe reso conto che alcune specie dell’America e dell’Europa, completamente diverse tra loro, possono contenere le stesse sostanze chimiche, e di conseguenza sarebbe nata la scienza della chemiotassonomia che Spruce aveva previsto. Solo 70 anni dopo i chimici riconobbero che la «telepatina» ottenuta nel rampicante amazzonico era uguale all’arina contenuta nella vecchia e familiare ruta siriana di Dioscoride.
Ben presto alcuni giovani esploratori perlustrarono il Pianeta alla ricerca di altre medicine. Richard Spruce si inoltrò lungo il Rio delle Amazzoni e, in un fantastico squarcio di preveggenza, raccolse dei ramidi yagè (ayahuasca caapi) per analisi chimiche. Se qualcuno si fosse preso il compito di analizzarle si sarebbe reso conto che alcune specie dell’America e dell’Europa, completamente diverse tra loro, possono contenere le stesse sostanze chimiche, e di conseguenza sarebbe nata la scienza della chemiotassonomia che Spruce aveva previsto. Solo 70 anni dopo i chimici riconobbero che la «telepatina» ottenuta nel rampicante amazzonico era uguale all’arina contenuta nella vecchia e familiare ruta siriana di Dioscoride.
Ma le cose andarono diversamente e gli esemplari
raccolti da Spruce vennero usati per altri scopi. Richard Evans Shultes
di Harward li fece analizzare nel 1969 e scoprì la straordinaria
longevità di questi allucinogeni: erano attivi esattamente come se
fossero stati raccolti il giorno prima. Nel frattempo il Rio delle
Amazzoni aveva prodotto un’altra rivelazione scientifica. Il naturalista
Alfred R. Wallace raccolse piante, farfalle e bestie nelle stesse
fertili giungle e Charles Darwin fece altrettanto durante il viaggio del
Beagle. Entrambi avevano letto il Saggio sulla popolazione umana di
Maltus e, indipendentemente l’uno dall’altro, venero colpiti dai
principi della selezione naturale che è divenuta la base della biologia
moderna. «In base ai principi della selezione naturale il cervello di un
selvaggio dovrebbe essere appena poco superiore a quello di una scimmia
antropomorfa.
In realtà però il cervello del selvaggio è solo di poco
inferiore a quello del filosofo» scrisse Wallace, osservando molto
chiaramente che anche la minima alterazione nella coscienza potrebbe
provocare profondi cambiamenti nella specie. «Con la nostra venuta è
nato un essere in cui la sottile forza che noi chiamiamo “mente” è
divenuta molto più importante della pura e semplice struttura corporea».
Inevitabilmente ogni scoperta di qualche nuova droga è stata
accompagnata da un periodo di intenso uso popolare. Thomas De Quincey ha
fondato la moderna letteratura sulla droga con le sue Confessions of an
English Opium Eater (Confessioni di un mangiatore di oppio inglese)
(1821), che sono il diretto risultato delle sue esperienze con il
laudano che egli aveva preso per calmare i dolori al viso e allo
stomaco. Ovviamente non esistevano leggi contro l’uso di narcotici e De
Quincey stesso osserva che «il numero di mangiatori di oppio amateur
(come li potrei definire io) era, a quel tempo, enorme».
Non solo ne
facevano largo uso poeti come Coleridge, Crabbe e Thompson; c’erano
anche migliaia di lavoratori, filatori, casalinghe e commessi che, di
notte, annegavano i loro dispiaceri nel gin e nel laudano e, di giorno,
intervallavano le ore di lavoro faticoso e ingrato con pause per il
caffè. L’influenza internazionale dell’opera di De Quincey fu enorme.
Alfred de Musset e Charles Baudelaire pubblicarono traduzioni di De
Quincey, adattando liberamente il testo per poter includere le loro
esperienze personali con il vino, l’hashish e l’oppio. La maggior parte
dei grandi romantici francesi conobbe o fece parte del «Club des
Haschichins» fondato da Theophile Gautier, e gli eloquenti Les Paradis
artificiels di Baudelaire (1860) gli hanno assicurato una posizione di
primo piano tra gli autori classici della letteratura sulla droga. Nel
frattempo, a Schenectady, New York, uno studente americano di nome Fitz
Ludlow leggeva avidamente De Quincey, sperimentava tutte le droghe
ottenute nello scaffale del farmacista locale e scriveva il primo grande
compendio americano sull’uso di una droga a scopo ricreativo: The
Hasheesh Eater (1857).
Ma la sottocultura mondiale della droga di cento anni fa era ancora concentrata sulla vecchia ricerca di nuovi anestetici. Sin dal Medio Evo gli unici antidolorifici disponibili per la chirurgia erano la mandragora, l’oppio, la belladonna e le bevande alcoliche, che riuscivano a malapena a calmare le urla dei pazienti legati con cinghie in quelle camere dell’orrore chiamate sale operatorie. È vero che il dolce olio di vetriolo di Valerio Cordus (etere) veniva usato occasionalmente nel secolo XVIII, ma ci vollero ulteriori progressi nella tecnologia per renderlo veramente pratico. Joseph Priesteley scoprì l’ossigeno e il protossido d’azoto (1772) e sir Humphry Davy fece esperimenti con il protossido d’azoto nella Pneumati Institution del dott. Thomas Beddoes, a Bristol (1800), come fecero Coleridge, De Quincey e Tom Wegwood (famoso per la ceramica omonima). Ben presto le feste a base sia di etere che di gas esilarante furono di gran moda tra i giovani. Le dimostrazioni della medicina ambulante resero popolare l’etere e il protossido d’azoto, somministrati con strani congegni meccanici. Sam Colt, per esempio, attraversò l’intero West con sei vistosi indiani e una bombola di protossido, cercando di guadagnare abbastanza per poter brevettare il suo nuovo revolver, e dopo poco tempo i medici captarono il messaggio.
Ma la sottocultura mondiale della droga di cento anni fa era ancora concentrata sulla vecchia ricerca di nuovi anestetici. Sin dal Medio Evo gli unici antidolorifici disponibili per la chirurgia erano la mandragora, l’oppio, la belladonna e le bevande alcoliche, che riuscivano a malapena a calmare le urla dei pazienti legati con cinghie in quelle camere dell’orrore chiamate sale operatorie. È vero che il dolce olio di vetriolo di Valerio Cordus (etere) veniva usato occasionalmente nel secolo XVIII, ma ci vollero ulteriori progressi nella tecnologia per renderlo veramente pratico. Joseph Priesteley scoprì l’ossigeno e il protossido d’azoto (1772) e sir Humphry Davy fece esperimenti con il protossido d’azoto nella Pneumati Institution del dott. Thomas Beddoes, a Bristol (1800), come fecero Coleridge, De Quincey e Tom Wegwood (famoso per la ceramica omonima). Ben presto le feste a base sia di etere che di gas esilarante furono di gran moda tra i giovani. Le dimostrazioni della medicina ambulante resero popolare l’etere e il protossido d’azoto, somministrati con strani congegni meccanici. Sam Colt, per esempio, attraversò l’intero West con sei vistosi indiani e una bombola di protossido, cercando di guadagnare abbastanza per poter brevettare il suo nuovo revolver, e dopo poco tempo i medici captarono il messaggio.
Un giovane dentista, Horace Wells,
assistette a una di queste rappresentazioni teatrali e si organizzò con
un collega, William Morton, per una dimostrazione sul gas esilarante
nell’aula del solenne chirurgo John Collins Warren, nel Massachussetts
General Hospital a Boston (1844). Sfortunatamente Wells non conosceva la
giusta quantità di gas da somministrare al suo corpulento paziente che
si contorceva in agonia mentre gli veniva estratto il dente, e Wells
uscì da questo esperimento con la fama di «impostore». Il dott. Charles
Johnson suggerì che venisse usato l’etere, una sostanza più attendibile,
e Morton lavorò al perfezionamento di una spugna inalatrice che ne
somministrasse dosi più equilibrate.
Nel 1846 Morton ritornò nell’aula
di Warren e anestetizzò un paziente per permettere a Warren di rimuovere
un tumore dalla faccia di un uomo. «Signori», annunciò gravemente
Warren nel silenzio stupito che accolse il successo dell’operazione,
«questa non è un’impostura». E in realtà non lo era. Tutti, con
qualsiasi scusa, volevano provare, e i dottori gareggiavano fra di loro
per scoprire altri anestetici. Sir James Simpson, un grande ostetrico di
Edimburgo, riunì la moglie e i suoi amici intorno al tavolo da pranzo
per provare varie sostanze chimiche, e scoprì che il cloroformio agiva
molto più velocemente dell’etere, quindi si rivelava più efficace
nell’alleviare i dolori del parto. (La regina Vittoria partorì sotto
l’effetto del cloroformio). Un altro celebre insegnante di Edimburgo,
sir Robert Christison, capo della British Medical Association,
sperimentò su se stesso la coca, la canapa, l’oppio, l’aconicotina, la
stricnica e persino alcuni estratti della temibile fava del Calabar
dell’Africa occidentale.
L’ultimo dei più importanti alcaloidi vegetali a
essere isolato nel secolo XIX fu la cocaina, a opera di Albert Niemann
di Göttingen, intorno al 1860. Un intraprendente chimico, Angelo
Mariani, introdusse sul mercato un vino a base di coca, molto popolare, e
inventò il metodo moderno di pubblicizzare un prodotto facendo
inizialmente degli omaggi: Sarah Bernhardt, Alphonse Mucha, Papa Leone
XIII, i presidenti Grant e McKinley, H. G. Wells e Thomas Edison furono
tra le migliaia di persone che provarono l’inebriante tonico.
Successivamente, nel 1884, il giovane Sigmund Freud si comprò un grammo
di cocaina Merck ($ 1,27) e pubblicò Uber Coca, una brillante monografia
che suggeriva l’uso della droga come anestetico e cura per il
morfinismo. Un suo amico, Carl Koller, un anno dopo dimostrò l’uso della
cocaina come anestetico locale per la chirurgia oculistica, una
scoperta che scosse il mondo e che riempì le pagine dei quotidiani e dei
giornali scientifici per molti mesi.
Fare esperimenti con un’infinita
varietà di droghe su se stessi, animali, pazienti, parenti e amici,
divenne parte di ogni corso di addestramento per studenti di medicina, e
si ebbe un’intera nuova generazione di medici. Il mondo si aprì a una
nuova e vasta coscienza: come la medicina era una volta derivata dal
magico, così ora si tornava al misticismo scientifico per spiegare i
celestiali effetti mentali delle droghe. William James, che aveva riso
sotto l’effetto del gas esilarante ad alcune feste da giovane, a
Edimburgo, nel 1901, parlò della «rivelazione anestetica». Era nato il
secolo XX.
Incominciò l’esplorazione dei mondi interiori attraverso le tecniche della scienza moderna. Sir Weir Mitchell, che aveva fatto esperimenti con il peyotl e la mescalina sin dal 1880, lo fece provare a James. Lo studio sul peyotl fu il prototipo dello studio contemporaneo sugli allucinogeni e, con la maggiore comunicazione tra i vari circoli scientifici, i ricercatori vennero più tempestivamente a conoscenza dei lavori dei propri colleghi. Il piccolo classico Mescal, opera di Henrich Klüver (1928), per esempio, venne letto nel 1936 dallo studente di Harvard Richard Schultes che, per tale motivo, lasciò lo studio della medicina per la botanica e partì per l’Oklaoma con l’antropologo Weston La Barre per studiare i riti indiani a base di peyotl.
Incominciò l’esplorazione dei mondi interiori attraverso le tecniche della scienza moderna. Sir Weir Mitchell, che aveva fatto esperimenti con il peyotl e la mescalina sin dal 1880, lo fece provare a James. Lo studio sul peyotl fu il prototipo dello studio contemporaneo sugli allucinogeni e, con la maggiore comunicazione tra i vari circoli scientifici, i ricercatori vennero più tempestivamente a conoscenza dei lavori dei propri colleghi. Il piccolo classico Mescal, opera di Henrich Klüver (1928), per esempio, venne letto nel 1936 dallo studente di Harvard Richard Schultes che, per tale motivo, lasciò lo studio della medicina per la botanica e partì per l’Oklaoma con l’antropologo Weston La Barre per studiare i riti indiani a base di peyotl.
Il libro di La
Barre, The Peyotl Cult, viene ora consultato dai capi indiani come guida
alle vecchie usanze; Schultes è ora il botanico più importante del
mondo per lo studio degli allucinogeni vegetali, e il suo illustratore,
Elmer W. Smith, fornisce i disegni di piante psicoattive più accurati
del nostro tempo. Ci furono altri strani collegamenti. Koller fondò una
clinica specializzata in malattie oculari a New York, dove curò un
bambino di dieci anni che soffriva seriamente di astigmatismo e miopia.
Il ragazzo era Chauncey Leake, che in seguito organizzò il laboratorio
di farmacologia dell’Università della California a San Francisco, da cui
vennero l’etere di vinile per l’anestesia generale, le anfetamine come
stimolanti per il sistema nervoso centrale, la nalorfina come
antagonista della morfina. La scoperta delle anfetamine, a opera di
Gordon Alles (1927), avvenne durante la ricerca di sostituti
dell’efedrina e dell’epinefrina per l’asma, ricerche che sono state
condotte sin dai tempi di Ko Hung. Alles scoprì anche gli effetti
psicotropici del Mda, una sostanza sintetica molto simile negli elementi
costitutivi alla noce moscata.
Ma l’esplosione dell’uso delle droghe,
avvenuta nel secolo XIX, ci è fuggita dalle mani. William Halsted
inventò l’anestesia che paralizza i nervi con la cocaina (1885), ma
sviluppò una dipendenza così forte per la droga che i suoi amici
dovettero metterlo a bordo di una goletta e lasciarvelo per parecchi
mesi in modo che potesse disintossicarsi. Lo fece, ma divenne dipendente
dalla morfina che si procurava dalla provviste della nave. Per molto
tempo il fatto che Halsted, uno dei fondatori dell’Università John
Hopkins, fosse un morfinomane, fu un segreto custodito gelosamente
all’Istituto.
Uno studente di Halsted, James Leonard Corning, inventò
l’anestesia spinale con la cocaina. In ogni famiglia c’era un padre
vizioso e ubriacone o uno zio dissoluto; madri intristite scolavano
litri su litri di medicinali brevettati, ragazzini allevati con sciroppi
per la tosse a base di cocaina passavano poi alle bevande gassate a
base di cola. Ragazze che lavorano passavano gli intervalli per il
pranzo nelle fumerie cinesi; negri «fatti» di coca diventavano
invulnerabili alle pallottole; adolescenti fumavano spinelli e
massacravano intere famiglie – almeno secondo i giornali popolari e i
notiziari della polizia, dove queste terrificanti immagini di «drogati»
iniziarono a circolare per prime. La febbre della proibizione fece presa
sull’America. Inviperiti riformatori come Carrie Nation e tromboni come
Henry Anslinger colsero l’opportunità per imporre la loro dubbia
moralità sulla Nazione col motto: «Arrestiamo il crimine».
Eroina e
cocaina vennero bandite dall’Harrison Narcotic Act (1914); l’alcol dal
Volstead Tax Act (1937). Per un curioso cavillo della storia,
antropologi e capi indiani riuscirono a salvare il peyotl
dall’Inquisizione generale (1937), purché il suo uso fosse limitato ai
membri della Native American Church. Venne proibito ai dottori di
prescrivere l’eroina anche ai tossicomani che stavano morendo per la sua
mancanza, e l’uso delle droghe a scopo ricreativo proseguì di nascosto.
Il risultato fu la creazione, non la prevenzione, del crimine
organizzato. Sebbene molte droghe svanissero dal mercato, ricomparvero
nelle mani dei re del crimine, ancora più contenti di fornire a prezzo
inflazionato delle emozioni che prima si potevano provare a poco prezzo.
Vennero accumulate fortune con il commercio di gin fatto in casa, di
coca a Hollywood, di eroina a New York.
Ma la proibizione si dimostrò
impossibile, come è sempre stata. Quando finì la proibizione del
liquore, il jazz salì lungo il fiume da New Orleans a New York in una
nuvola di fumo di marijuana, e i musicisti negri divennero i precursori
della cultura moderna. Gli spacciatori da strada – Mezz Mezzrow e
Detroit Red (Malcom X) – diventarono eroi popolari, mentre Lady Day
cantava i blues. E gli uomini della legge li arrestavano a migliaia.
La Seconda guerra mondiale interruppe il flusso naturale di droghe vegetali che vennero sostituite da sostanze sintetiche e diventarono l’incubo degli anni Cinquanta: i nazisti con la coca, la metedrina e il metadone, gli americani con la dexedrina e i barbiturici, le casalinghe con i tranquillanti e gli uomini d’affari di nuovo con le bevande alcoliche. Sembrava che il mondo stesse diventando tranquillamente matto in un vestito di flanella grigia, incapace di scegliere tra Joe McCarthy e Marilyn Monroe. «Ho visto le migliori menti della mia epoca distrutte dalla pazzia, morenti di fame, nude, isteriche, che si trascinavano all’alba tra le strade di quartieri negri cercando una dose di eroina», scriveva Allen Ginsberg, e William Burroughs replicava con la campana a morto del romanticismo di De Quincey sui narcotici: «Posso sentire l’autorità circondarmi, sentire loro là fuori che si muovono sistemare i loro infernali delatori, che cantano sommessamente sul mio cucchiaio e sulla siringa...».
La Seconda guerra mondiale interruppe il flusso naturale di droghe vegetali che vennero sostituite da sostanze sintetiche e diventarono l’incubo degli anni Cinquanta: i nazisti con la coca, la metedrina e il metadone, gli americani con la dexedrina e i barbiturici, le casalinghe con i tranquillanti e gli uomini d’affari di nuovo con le bevande alcoliche. Sembrava che il mondo stesse diventando tranquillamente matto in un vestito di flanella grigia, incapace di scegliere tra Joe McCarthy e Marilyn Monroe. «Ho visto le migliori menti della mia epoca distrutte dalla pazzia, morenti di fame, nude, isteriche, che si trascinavano all’alba tra le strade di quartieri negri cercando una dose di eroina», scriveva Allen Ginsberg, e William Burroughs replicava con la campana a morto del romanticismo di De Quincey sui narcotici: «Posso sentire l’autorità circondarmi, sentire loro là fuori che si muovono sistemare i loro infernali delatori, che cantano sommessamente sul mio cucchiaio e sulla siringa...».
Ma nel 1943 Albert Holfmann, un chimico
che stava facendo delle ricerche sui derivati della segale cornuta nei
laboratori Sandoz, in Svizzera, accidentalmente assorbì attraverso le
mani del dietilammide di acido lisergico. Improvvisamente i regni della
coscienza alterata predicati da James divennero disponibili a dosi di
microgrammo. Sotto la coscienza narcotizzata degli anni Cinquanta stava
germogliando una rivoluzione. Filosofi-scienziati riscoprirono gli
allucinogeni magici: Huxley e Osmond, Schultes e Hofmann, Wasson e Heim:
una generazione di veterani Sufi dediti alla nuova alchimia.
Dapprima,
questa bomba atomica della farmacologia, l’allucinogeno più potente che
il mondo abbia mai conosciuto, venne salutato come «psicotomimetrico»:
una cura adatta per un mondo schizofrenico. Certamente l’Lsd imitava
molto bene la psicosi negli ambienti clinici dove dottori e pazienti se
lo aspettavano. È la natura delle medicine degli stregoni a esagerare la
mente naturale. Ma col continuo trasferimento di informazioni nelle
comunicazioni moderne, nulla rimane nei laboratori per molto tempo.
Poeti e artisti sapevano da lungo tempo della marijuana, erano pronti
per l’acido, e gli psicologi glielo diedero – a Praga, a Palo Alto,
forse persino a Pechino. Era l’alba dell’età degli «psichedelici» –
prima dozzine, poi migliaia, quindi milioni. Kesey la portò fuori dai
manicomi; Leary e Alpert la portarono ad Harvard; Ginsberg in India;
Snyder in Giappone. Gli uomini della legge, sgomenti, cercarono allo
stesso modo di diffondere la proibizione in tutto il mondo, con trattati
come la Single Convention on Narcotic Drugs delle Nazioni Unite (1961) –
un accordo davvero ridicolo di fronte a Nazioni come l’India che
promettevano di porre fine all’uso di sacre tradizioni preistoriche in
25 anni.
Antiche scene ricorrevano in modo moderno: un intero esercito
di americani, come i loro predecessori francesi, provarono il fumo e
l’eroina in Vietnam. Caffè, cocaina, marijuana ed eroina divennero i
raccolti più esportati delle antiche terre psichedeliche in Messico e
Sud America… I giovani in tutto il mondo incominciarono a coltivarsi la
propria erba e i funghi magici. Le droghe, una volta disprezzate,
emergevano con successo nella borghesia, e la «sottocultura della droga»
non rappresentava più una minoranza, se mai lo era stata.
E per il futuro? «Mediante la somministrazione di agenti psichedelici adatti si può ottenere il comportamento desiderato», scrivevano Willis Harman e James Fadiman, una strana preveggenza nel 1966. L’abilità di selezione e la tecnologia dello stregone aumenteranno l’uso di droghe specifiche per scopi specifici: qualche volta separatamente, qualche volta combinate, talvolta in modo poco saggio, ma qualche volta fornendo più istruzione in una serata che in vent’anni di scuola. Veleni mentali e filtri amorosi, più potenti di quanto oggi si possa immaginare, governeranno il mondo. Prodotti chimici ibridi, come il Dob e l’Mmda, fluttuano già attraverso le menti di anime avventurose: droghe per il lavoro, per il gioco, per il corpo, per lo spirito; ce ne saranno di più, mai di meno. Gli alchimisti continueranno a scoprire molecole nuove e rischiose.
E per il futuro? «Mediante la somministrazione di agenti psichedelici adatti si può ottenere il comportamento desiderato», scrivevano Willis Harman e James Fadiman, una strana preveggenza nel 1966. L’abilità di selezione e la tecnologia dello stregone aumenteranno l’uso di droghe specifiche per scopi specifici: qualche volta separatamente, qualche volta combinate, talvolta in modo poco saggio, ma qualche volta fornendo più istruzione in una serata che in vent’anni di scuola. Veleni mentali e filtri amorosi, più potenti di quanto oggi si possa immaginare, governeranno il mondo. Prodotti chimici ibridi, come il Dob e l’Mmda, fluttuano già attraverso le menti di anime avventurose: droghe per il lavoro, per il gioco, per il corpo, per lo spirito; ce ne saranno di più, mai di meno. Gli alchimisti continueranno a scoprire molecole nuove e rischiose.
L’uso di droghe vegetali e derivati, incessante da tre
milioni di anni, continuerà a coprire un mondo sempre più piccolo sotto
gli occhi vigili di satelliti di comunicazione. Polizia narcomaniaca
cercherà di fermare l’inevitabile. Rimarranno da esplorare nuovi mondi
in dimensioni lontane; potremo salutare nuove forme di coscienza in
alcuni di loro. Lo spazio interno incontrerà lo spazio esterno: uno
scambio galattico su innumerevoli e immensi Pianeti uniti strettamente. È
meraviglioso vivere nel mattino dell’era spaziale.
L'alba delle droghe. Contesti, culture, rituali (Brossura)
L'alba delle droghe. Contesti, culture, rituali (Brossura)
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