Sui media il termine ricorrente (e compiaciuto, senza dubbio) è “flop”.
Constatato che il numero dei partecipanti alla manifestazione di ieri a
Roma è stato largamente inferiore alle attese – si parlava di 15mila
persone e ne sono arrivate circa un quinto – ci si è precipitati a
trarre le conclusioni, ben lieti di poter stilare un immediato
certificato di morte della protesta capitanata da Danilo Calvani. Manco
si trattasse di uno show televisivo a corto di audience, per il quale la
scarsità del seguito basta e avanza a determinare la rimozione dal
palinsesto.
Fin dal primo momento, del resto, nei confronti di queste iniziative che partono dalla gente comune e che osano rifiutare
in blocco l’intero sistema dei partiti, la parola d’ordine
dell’establishment è stata quella di gettare il discredito sui
dimostranti.
Da un lato, agitando il consueto spauracchio della violenza
e dell’illegalità, che quando si rivolgono contro la classe dirigente
vengono capziosamente assimilate, ormai da decenni, al vero e proprio
terrorismo; dall’altro, sottolineando a getto continuo le carenze, in
parte oggettive e in parte no, delle posizioni espresse, improntate più
alla rabbia viscerale che alle analisi approfondite. Risultando perciò
assai vaghe nel proporre soluzioni che vadano al di là dello spazzare
via i politici odierni all’insegna di un tonante, ma rozzo, «Tutti a casa!».
Questo tipo di strategia non è affatto nuovo, e il fatto stesso che i
più continuino a non rendersene conto costituisce di per sé una prova
inconfutabile dello stato di omologazione, assimilata fino divenire
inconscia, in cui i cittadini-spettatori sono sprofondati negli ultimi
decenni.
L’offensiva propagandistica, senza dilungarsi nelle
ricostruzioni storiche, ha avuto inizio nello scorcio finale dei
Settanta, con la totale criminalizzazione dell’estremismo: il messaggio,
vedi l’etichetta onnicomprensiva e a dir poco generica degli “Anni di
piombo”, era che per quanto lo Stato facesse schifo l’alternativa
rivoluzionaria (vera o presunta) era ancora peggio.
Con la corruzione si poteva convivere; con la furia ideologica, no.
Con le sopraffazioni del potere economico e partitico si poteva sperare
di venire a patti, non foss’altro che grazie alla radicata, e
collaudata, “arte di arrangiarsi”. Con le imposizioni dei rossi, o dei
neri, assolutamente no: sui primi gravavano innanzitutto i precedenti
storici, certo non rassicuranti, delle dittature comuniste, dagli eccidi
di Stalin e di Pol Pot ai deliri della Rivoluzione culturale nella Cina
di Mao; i secondi erano condannati a priori a causa dei loro richiami
al fascismo o, peggio, al nazismo.
Così, facendo leva sul timore di cadere dalla padella nella brace,
Brigate Rosse e affini vennero additati come il nemico pubblico numero
uno. Una minaccia sanguinaria, e intollerabile, non soltanto ai danni
dei loro effettivi bersagli, scelti nel mondo delle pubbliche
istituzioni o delle imprese private, ma dell’intera popolazione.
Non che
non ci fosse del vero, ma la parte autentica era comunque strumentale a
un obiettivo perverso. Che mirava a innalzare al rango di verità
definitiva e incontrovertibile una colossale menzogna: quella, che ci
accompagna da allora e che dal 2008 in poi è stata enfatizzata come
unica risposta possibile alla crisi, di una sostanziale e
imprescindibile unità nazionale che salderebbe gli interessi, e persino i
destini, di tutti gli italiani.
Dall’ultimo dei disoccupati al primo
dei super ricchi. Da chi è condannato a sopravvivere nella precarietà a
chi è certo, o quasi, di vivere nel lusso. Da chi può solo subire, e
sperare di cavarsela, a chi comanda, anzi spadroneggia, e confida che la
stragrande maggioranza del popolo sia abbastanza
rammollita/spaventata/succube da non ribellarsi né ora né mai.
Purtroppo, almeno per quello che è emerso finora, la strategia sta
funzionando. E tornando alle manifestazioni degli ultimi giorni un ruolo
fondamentale lo svolge, facilitando di fatto il successo
dell’operazione-discredito, l’atteggiamento oggettivamente grossolano di
chi sta scendendo in piazza.
Capiamoci bene, su questo punto. Non si tratta di avallare la solita
contrapposizione, tanto cara alle oligarchie che detengono il potere,
fra chi è preparato e chi non lo è, da cui consegue che le masse più o
meno incolte devono giocoforza delegare le scelte collettive ai professionisti della
politica, o addirittura ai tecnocrati dell’economia. Si tratta però di
fare i conti con il problema, reale, della credibilità di chi si scaglia
contro l’ordine costituito.
Data per acquisita la buonafede, sia dei partecipanti che dei leader,
se un nucleo iniziale di rivoltosi ambisce a diventare un movimento di
portata nazionale ha l’obbligo inderogabile, e pressante, di attrezzarsi
alla bisogna. Ciò significa, evidentemente, avere delle chiavi di
lettura precise, e coerenti, rispetto alla realtà nella quale si opera e
sulla quale si vuole incidere. Pensare di esaurire questo compito a
suon di slogan perentori, del genere di quelli che sono
risuonati anche ieri a Piazza del Popolo, è sciocco, prima ancora che
sbagliato.
Naturalmente gli slogan vanno benissimo, ma a condizione che
siano la sintesi – sloganistica, appunto – di una visione di gran lunga
più meditata e compiuta. E lo stesso discorso, a maggior ragione, vale
per le dichiarazioni pubbliche, sia sotto forma di interviste, con la
trappola delle domande insinuanti e la tentazione delle risposte ad
effetto, sia in quella dimensione a metà tra il ragionamento e
l’emotività che sono i comizi.
Danilo Calvani, o chi per lui, è tenuto a essere conscio del fatto
che trovarsi sotto i riflettori dei media implica, per riprendere la
classica formuletta dei polizieschi made in USA, che «tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te».
Con un problema supplementare, nell’ambito della lotta politica: il
linguaggio utilizzato, compreso quello paraverbale dei toni e quello non
verbale del corpo, è parte integrante di ciò che si comunica.
Anche volendo rimanere solo sul piano dei contenuti, però, la
confusione è palese, e inquietante. Calvani passa da squarci di
requisitorie dal respiro internazionale, che giustissimamente chiamano
in causa «una Commissione europea formata da banditi finanzieri [che] ci vuole distruggere», a istanze completamente irrealistiche che si condensano nel succitato «Tutti a casa!»
e che non trovano di meglio, nel replicare all’ovvia domanda su chi
dovrebbe prendere il posto degli odierni governanti, che rifugiarsi in
un fideistico «Noi abbiamo una costituzione: la Costituzione dice che si va al voto».
E stendiamo un velo pietoso sulla celebrazione di Papa Francesco,
scandita dal palco e subito rilanciata dalla platea con un entusiastico,
ma credulone, «Uno di noi».
La domanda da porsi, quindi, è se e in quale misura il neonato
Movimento 9 dicembre, peraltro già diviso in diverse fazioni, avverta
l’esigenza di andare al di là del desiderio di manifestare il proprio
malcontento. Se questa esigenza non c’è, e ci si illude che per
eliminare i Letta & C. sia sufficiente gridargli contro il proprio
(sacrosanto) disprezzo, il fallimento è sicuro.
Federico Zamboni
Fonte: www.ilribelle.com
Link: http://www.ilribelle.com/la-voce-del-ribelle/2013/12/19/movimento-9-dicembre-urlare-e-giusto-urlare-non-basta.html
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=12719
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