La
sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività (in inglese
Attention Deficit e Hyperactivity Disorder, da cui la sigla ADHD) ha
creato grande confusione negli ultimi anni. Il numero di diagnosi è
cresciuto vertiginosamente, circa un bambino su cinque sembrerebbe
affetto da questa sindrome (dato rilevato dal Federal Centers for
Disease Control and Prevention). I genitori si sono disperati, alcuni
insegnanti coscienziosi sono entrati in crisi sul da farsi, altri hanno
trovato una comoda etichetta per liberarsi dei bambini difficili da
gestire. I professionisti del settore hanno cominciato a cercare di
“curare” il fenomeno, ma spesso con scarsi risultati. In un quadro
caotico del genere ha fatto scandalo, di recente, la dichiarazione
di Leon Eisenberg, la persona che aveva ideato e definito l’ADHD come
una patologia. Oggi il dottor Leon Eisenberg si è pentito è ha
confessato che tale patologia non esiste, si tratta solo di un’invezione
(Dal settimanale tedesco Der Spiegel, 2 febbraio 2012).
A
questo punto per fare chiarezza sul tema conviene fare un passo
indietro. Le diagnosi mediche e psicologiche nascono come etichette
rapide per capire di cosa si sta parlando. Purtroppo, storicamente, le
etichette tendono a vivere di vita autonoma, diventano un marchio
indelebile che accompagna la persona. Un esempio tratto dalla vita
quotidiana può rendere bene il concetto: se conosciamo una persona che
sia chiama Marco e diciamo che è sovrappeso stiamo mettendo un’etichetta
riduttiva che non tiene conto di quanti chili è sovrappeso, se questo
gli crea problemi fisici o mentali, se ha preso quei chili perché pensa
erroneamente che il fritto sia un cibo dietetico e lo mangia tutti i
giorni oppure perché è molto stressato e non metabolizza bene i
carboidrati (o altro ancora).
Quando parleremo di Marco con altre
persone ci riferiremo a lui come “chi? quello sovrappeso?”, fissando per
sempre un’immagine parziale della persona, come se fosse la cosa più
sicura al mondo. Pensate che lo stesso fenomeno avviene quando si dice
che un bambino ha un deficit dell’attenzione o che è iperattivo. Magari
al tempo in cui è stato etichettato così - posto che lo fosse veramente -
era solo agitato perché i genitori litigavano spesso, oppure era un
bambino molto vivace in una classe di bambini tranquilli. I confronti
sono spesso la fonte di tanti inganni e fraintendimenti.
Avete
presente Gillian Lynne, la coreografa di Cats, The Phantom of the Opera e
altri famosi musical firmati da Andrew Lloyd Webber? Quando era bambina
era stata sottoposta alla valutazione di un professionista perché era
sempre vivace e facilmente distraibile a scuola. Per fortuna non avevano
ancora inventato la definizione di ADHD e il professionista che la
visitò era una persona di grande intelligenza e intuito: disse alla
madre che questa bambina aveva bisogno di muoversi e di fare qualcosa di
appassionante. Così la mamma la iscrisse a una scuola di danza... e il
resto è storia. Questa è la storia di una persona soddisfatta, che ha
fatto ciò per cui era portata, ma cosa sarebbe successo se la diagnosi
fosse stata fatta ai giorni nostri e le avessero dato un farmaco per
tranquillizzarla?
Oggi per fortuna sono tante le evidenze che
la maggior parte di bambini classificati con deficit dell’attenzione e
disturbo di iperattività in realtà non hanno nessun problema mentale o
fisico. Se un problema c’è, spesso è transitorio e dovuto a fattori esterni molto facilmente individuabili e governabili.
Real Way of Life,
istituto internazionale di ricerca, formazione e divulgazione, ha
appena pubblicato uno studio condotto nell'arco di due anni che ha
coinvolto 720 bambini tra i 5 e 16 anni (www.realwayoflife.com/bambini).
È stato messo sotto la lente d’ingrandimento il fenomeno dell’ADHD
(deficit dell’attenzione e iperattività), ma anche alcune altre diagnosi
oggi molto diffuse e con caratteristiche affini: disturbi
dell’apprendimento come dislessia, disgrafia, ma anche solo difficoltà
con materie specifiche; difficoltà emotive e relazionali come, elevata
ansietà, paura, timidezza, chiusura relazionale.
Inoltre è
stata prestata attenzione alla condizione di salute generale dei
bambini, osservando la forza o debolezza del sistema immunitario (che si
manifesta attraverso allergie, intolleranze, facilità ad ammalarsi). Lo
scopo dello studio era duplice: di verificare se si trattasse di
diagnosi corrette o di etichette generalizzate; individuare modalità
semplici ed efficaci per attenuare o eliminare i sintomi fastidiosi per i
bambini, indipendentemente da come erano stati valutati. La
ricerca si inserisce nel filone ottimistico e promettente della PNEI
(PsicoNeuroEndocrinoImmunologia), delle NeuroScienze e della Neurologia
Funzionale, discipline altamente scientifiche e innovative che stanno
cambiando i paradigmi della scienza.
Tutti i bambini hanno
seguito un piano denominato Real Kids ©, ci spiega Sara Achilli -
coordinatrice del progetto - consistente nel fornire 3 semplici
accorgimenti alimentari, alcune informazioni e suggerimenti rispetto
alle proprie emozioni, due esercizi per sviluppare autopercezione e
consapevolezza corporea, tre esercizi da fare per ottimizzare la
lateralizzazione degli emisferi cerebrali. I cambiamenti sono stati
valutati a 3, 6 e 12 mesi di distanza.
Tra i risultati più rilevanti:
•
dopo un anno l'87% dei bambini ha riscontrato miglioramenti
significativi rispetto alle proprie difficoltà iniziali e la maggior
parte dei cambiamenti è avvenuta entro 6 mesi;
• il miglioramento
dei risultati scolastici è stato sostenuto, in particolare,
dall'assunzione regolare di Omega 3 e dagli esercizi con i movimenti
oculari;
• l’alimentazione delle madri in gravidanza e in allattamento influisce direttamente sulle capacità cognitive dei figli;
•
la gestione delle emozioni (come iperemotività, reazioni ansiose
eccessive, comportamenti aggressivi) è migliorata per il 68% dei casi
nel primo mese;
• il maggior effetto sulla riduzione dell’ansia si
è avuto grazie allo sblocco della respirazione diaframmatica e a una
spiegazione di un’ora delle emozioni dal punto di vista etologico
(l’uomo visto come animale da branco);
• la riduzione degli
zuccheri raffinati ha portato al buon miglioramento di tutti i bambini,
indipendentemente dalla problematica evidenziata;
• tutti i
bambini, anche i più piccoli, sono stati consapevoli dei cambiamenti
avvenuti, dimostrando una capacità riflessiva di solito inaspettata in
certe fasce di età ed evidenziando come un bambino si accorga
immediatamente quando viene eliminato un elemento di blocco o di
disagio.
Questi risultati sono incoraggianti e confermano
quelle teorie per cui tutte le risorse per stare bene sono già dentro
di noi e in quello che la natura ci offre, basta sapere come attivarle e
come rimettersi in fisiologia.
Riferimenti bibliografici e sitografici
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