Ieri
suona il campanello di casa un giovane messicano - qui in Texas quella
che era la minoranza ispanica è diventata maggioranza - per una
riparazione domestica.
Houston, 8 Maggio 2015 -
Il giovane è sveglio e brillante.
Si
capisce che ha voglia di parlare, sa che sono italiano, parliamo prima
in inglese ma ogni tanto scivoliamo verso lo spagnolo.
Si avventura pericolosamente in qualche frase in italiano.
Mi
racconta del suo paese di origine, della miseria, della disperazione,
della decisione di partire, di cercar fortuna. Della sua entrata
illegale negli USA, attraverso il deserto, giorni e giorni sotto un sole
implacabile, senza cibo e pochissima acqua. In agguato serpenti
velenosi, scorpioni e i killer razzisti che si divertono a sparare sugli immigranti clandestini.
Poi nel sottofondo di un truck
appena passato il confine. Infine, esausto di stanchezza, cade in un
sonno catalettico, ma è risvegliato dalla guardia di frontiera che trova
tutti i disgraziati ammonticchiati nel veicolo e li rimanda indietro.
Gli interrogatori, la detenzione, il duro viaggio di ritorno.
Ma lui non si scoraggia. Vuole venire in quello che crede essere il Paese di Bengodi e fa una richiesta formale di immigrazione.
Nonostante quello che è successo, la sua richiesta viene accolta. Il pragmatismo americano è emblematico - prima
ci hai provato illegalmente e ti è andata male ma ora hai imparato la
lezione e lo chiedi per via ufficiale, dunque sei un potenziale
cittadino modello e noi ti ammettiamo nel Paese.
Così il nostro Abiel - questo il suo nome - entra finalmente nella Terra Promessa e, dopo pochi anni, è cittadino americano.
Il
mito americano per lui non è minimamente scalfito dagli avvenimenti
mondiali, dalla politica dissennata di questo Paese, dall’aggressività
globale del sistema politico-militare-industriale a stelle e strisce.
Abiel è una foglio di carta bianco, su cui i tasti di una macchina da scrivere battono il decalogo della Terra Promessa.
Sembra di vedere un italiano dell’immediato dopoguerra, tutto sigarette Lucky Strike e Rock ’n’ Roll.
Quelli che ancora parlano della Liberazione.
Parliamo
di politica, del 9/11 e di quello che è seguito. Capisce che le cose
non stanno come le raccontano in TV, ma non riesce a credere che sia
stato un atto intenzionale, un inside job. Gli consiglio di vedere il documentario di Massimo Mazzucco sull’11 settembre.
No, no, non ci credo a queste storie complottiste. Ma ti pare, se fossero vere si sarebbe saputo no? Sono passati 14 anni.
A
un certo punto mi dice, guardandomi fisso negli occhi con aria di sfida
- sa che sono un giornalista e ha capito la mia opinione sulla
situazione generale della politica USA - che lui è republican.
Che? Republican?
Un immigrato fresco fresco di cittadinanza, capelli nero corvino e
pelle olivastra? Sei uno di quelli che mettono la bandierina a stelle e
strisce davanti casa e sulla macchina? Che corre a vedere i fuochi
d’artificio il 4 di Luglio cantando a squarciagola con la destra sul
cuore? Non ci posso credere…ma come? Stai dalla parte di quelli che ti
sparavano addosso nel deserto e che lo fanno ancora contro quelli che -
come te - cercano di venire qui?
Certo,
perché le leggi vanno rispettate. Io sono entrato illegalmente e mi
hanno rimandato indietro. Solo dopo sono entrato legalmente. Ora ho
capito come funziona. Anche questi devono rispettare le leggi e chiedere
l’autorizzazione all’immigrazione, allora sì. Poi...questo Paese è tutto ciò che io ho sempre sognato e ti dico…io amo i ricchi, danno lavoro…
Ok, ma scusa, ti sembra giusto che l’1% della popolazione possieda tanta ricchezza quanto il restante 99%?
Sì certo, perché se la sono conquistata quella ricchezza.
A
parte che non sempre è vero, ma poi queste persone immensamente ricche,
che vivono nello sfarzo esteriore, spesso hanno una incredibile povertà
interiore, lo sai questo?
Gli dico che, per lavoro, ho avuto modo di conoscere molte persone straordinariamente ricche, come, ad esempio, alcune celebrities di Hollywood.
Che spesso sono persone vuote e tristi pur sguazzando nell’oro. Non mi
crede, gli faccio vedere le foto in cui sono in compagnia di alcuni
personaggi dello spettacolo. Per un attimo tace ma poi riparte con
slancio.
No non ci credo, ma tu sei comunista? Sei come Fidel Castro?
No
non sono comunista, ma credo che il capitalismo sia un sistema
imperfetto; penso che dovremmo trovare un sistema che fonda le cose
positive di socialismo e capitalismo separando, magari, i tre ambiti
della vita sociale, culturale, giuridico ed economico.
Eh
già, ma tu sei un filosofo, queste cose sono lontane dalla realtà,
dimmi dove sono applicate queste tue teorie? In quale Paese del mondo?
Non
lo sono ancora, ma se nessuno avesse suggerito di usare le automobili,
andremmo ancora in calesse…l’idea è ciò che crea il futuro. Anche per l’imprenditore è così; prima ha l’idea e poi la realizza, no?
Per un attimo vacilla, si rende conto che anche questo sistema sociale ha delle ombre.
Beh, forse voi in Europa per certe cose siete più avanzati, per esempio la sanità…
Ecco,
infatti, ti sembra giusto che chi non ha i soldi per pagarsi
l’assicurazione non possa curarsi quando ha delle malattie serie?
Sì, su questo forse…
E il lavoro? Dover far due o tre lavori per vivere? Vivere per lavorare?
Beh, io lavoro dieci ore al giorno, è la cosa più importante…
Già,
il sogno americano, lavorare per arricchirsi, per comprare sempre più
cose, case, auto, proprietà…e poi? Non avere neppure il tempo di
fermarsi a pensare. A chiedersi il senso della vita, delle scelte fatte e
di quelle da fare…ti sembra giusto?
Non risponde, qualcosa lo ha colpito di questo discorso.
Continua a lavorare sulle luci del garage e io lo guardo in silenzio.
Penso
alla sua storia ed a quella di milioni di esseri umani del sud del
mondo, uomini coraggiosi e tenaci come lui. Questa è una terra di
immigrati, di persone che, dopo averla sognata per anni, farebbero
qualsiasi cosa per poterci venire.
Qualsiasi cosa.
Talmente abbacinati dalle luci di questa civiltà da non riuscire ad intravederne le ombre.
Come
quegli animali che, di notte, attraversando la strada, rimangono
abbagliati dai fari delle macchine e, invece di scappare, ne vengono
rovinosamente travolti.
Finisce il lavoro, mi guarda, mi stringe la mano.
Come si chiamava il documentario che mi hai detto prima?
Scritto da Piero Cammerinesi (corrispondente dagli USA di Coscienzeinrete Magazine, Altrogiornale e Altrainformazione)
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