Per
70 anni uno dei fondamenti cruciali del potere statunitense è stato il
dollaro quale moneta più importante del mondo. Negli ultimi 40 anni,
pilastro del primato del dollaro è stato il ruolo dominante del verdone
nei mercati energetici internazionali. Oggi, la Cina sfrutta l’ascesa a
potenza economica e di mercato sempre più importante per gli esportatori
di idrocarburi del Golfo Persico e dell’ex-Unione Sovietica,
circoscrivendo il predominio mondiale del dollaro nell’energia, con
possibili profonde implicazioni per la posizione strategica degli USA.
Dalla seconda guerra mondiale, la supremazia geopolitica degli USA riposava non solo sulla forza militare, ma anche sulla posizione del dollaro quale principale valuta di transazione e di riserva mondiale. Economicamente, il primato del dollaro deriva dal “signoraggio”, la differenza tra costo per la stampa del denaro e il suo valore, sugli altri Paesi, minimizzando il rischio del cambio per le aziende degli USA.
La sua reale importanza, però, è strategica: il primato del dollaro
permette agli USA di colmare il cronico deficit di bilancio e
correntizio mediante l’emissione di ulteriore moneta, proprio come
Washington finanzia la propria proiezione di potenza da oltre mezzo
secolo. Dagli anni ’70, pilastro del primato del dollaro è stato il
ruolo di moneta dominante sui prezzi di petrolio e gas, con cui le
vendite internazionali di idrocarburi sono fatturate e liquidate.
Ciò
permette di mantenere alta la domanda mondiale di dollari, nutrendo
anche l’accumularsi tra i produttori di energia delle eccedenze in
dollari, rafforzandone la posizione di prima riserva patrimoniale del
mondo “riciclabile” nell’economia degli Stati Uniti per coprirne i
deficit. Molti ritengono che la preminenza del dollaro nei mercati
dell’energia deriva dallo status di maggiore valuta transazionale e di
riserva mondiale. Ma il ruolo del dollaro in questi mercati non è
naturale e né basato su una posizione dominante. Piuttosto, fu ideata
dai politici statunitensi dopo il crollo dell’ordine monetario di
Bretton Woods nei primi anni ’70, ponendo fine alla versione iniziale
del primato del dollaro (“egemonia del dollaro 1.0″). Collegare il
dollaro alla negoziazione internazionale del petrolio fu la chiave per
crearne la nuova versione (“egemonia del dollaro 2.0″) e, per
estensione, finanziare altri 40 anni di egemonia statunitense.
Egemonia oro e dollaro 1.0
Il primato del dollaro fu sancito in occasione della conferenza di Bretton Woods del 1944, dove gli alleati non comunisti degli USA aderirono al progetto di Washington per un ordine monetario internazionale del dopoguerra. La delegazione della Gran Bretagna guidata da Lord Keynes, e praticamente ogni altro Paese partecipante salvo gli Stati Uniti, favoriva la creazione di una nuova valuta multilaterale con il neonato Fondo monetario internazionale (FMI) quale principale fonte di liquidità globale. Ma ciò avrebbe ostacolato le ambizioni statunitensi per l’ordine monetario dollaro-centrico.
Il primato del dollaro fu sancito in occasione della conferenza di Bretton Woods del 1944, dove gli alleati non comunisti degli USA aderirono al progetto di Washington per un ordine monetario internazionale del dopoguerra. La delegazione della Gran Bretagna guidata da Lord Keynes, e praticamente ogni altro Paese partecipante salvo gli Stati Uniti, favoriva la creazione di una nuova valuta multilaterale con il neonato Fondo monetario internazionale (FMI) quale principale fonte di liquidità globale. Ma ciò avrebbe ostacolato le ambizioni statunitensi per l’ordine monetario dollaro-centrico.
Anche se
quasi tutti i partecipanti preferivano l’opzione multilaterale, la
potenza schiacciante degli USA fece sì che, alla fine, le sue preferenze
prevalessero. Così, con il gold exchange standard di Bretton Woods, il
dollaro fu ancorato all’oro e le altre valute al dollaro, facendone la
principale forma di liquidità internazionale. C’era però una
contraddizione fatale nella visione basata sul dollaro di Washington.
L’unico modo con cui gli USA potevano diffondere abbastanza dollari per
soddisfare le esigenze di liquidità mondiali, era il disavanzo a tempo
indeterminato.
Mentre Europa occidentale e Giappone recuperavano e
riconquistavano competitività, il deficit cresceva. Gettandosi nella
domanda crescente di dollari per finanziare l’aumento dei consumi,
l’espansione dello stato sociale e la proiezione di potenza globale, gli
USA presto offrirono più moneta statunitense di quella pari alle
proprie riserve auree. Dagli anni ’50, Washington agì per convincere o
costringere i titolari di dollari stranieri a non cambiare i verdoni con
l’oro. Ma l’insolvenza non poteva essere scongiurata per molto:
nell’agosto 1971, il presidente Nixon sospese la convertibilità
dollaro-oro, ponendo fine al gold exchange standard; nel 1973, anche i tassi di cambio fissi scomparvero.
Tali eventi sollevarono interrogativi fondamentali sulla solidità a lungo termine dell’ordine monetario basato sul dollaro. Per conservarne il ruolo di primo fornitore di liquidità internazionale, gli Stati Uniti avrebbero dovuto continuare a mantenere i disavanzi delle partite correnti. Ma questo deficit si espanse, avendo l’abbandono di Washington di Bretton Woods intersecatosi con altri due sviluppi cruciali: gli USA diventarono importatori netti di petrolio nei primi anni ’70 e l’affermazione sul mercato dei membri chiave dell’organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) nel 1973-1974, causando un aumento del 500% del prezzo del petrolio, aggravando la pressione sulla bilancia dei pagamenti.
Con il legame tra dollaro e oro reciso e tassi di cambio
non più fissi, la prospettiva che il deficit degli Stati Uniti
divenisse sempre più grande aggravò le preoccupazioni sul valore a lungo
termine del dollaro. Tali preoccupazioni ebbero risonanza speciale per i
grandi produttori di petrolio. Il petrolio sui mercati internazionali
era valutato in dollari almeno dagli anni ’20, ma per decenni la
sterlina fu usata almeno con la stessa frequenza dei dollari negli
acquisti di petrolio transnazionali, anche dopo che il dollaro aveva
sostituito la sterlina come prima valuta commerciale mondiale e di
riserva. Finché la sterlina era ancorata al dollaro e il dollaro era
“buono come l’oro”, ciò era economicamente sostenibile.
Ma dopo che
Washington abbandonò la convertibilità dollaro-oro e la transizione
mondiale passò dai tassi di cambio fissi a quelli fluttuanti, il regime
di valuta nel commercio del petrolio era in palio. Con la fine della
convertibilità dollaro-oro, i principali alleati degli USA nel Golfo
Persico, Iran dello Scià, Quwayt e Arabia Saudita, favorirono il
passaggio del sistema dei prezzi dell’OPEC dai prezzi in dollari a un
paniere di proprie valute. In tale contesto, molti alleati europei degli
USA ripresero l’idea (già affrontata da Keynes a Bretton Woods) di
fornire liquidità internazionale sotto forma di valuta multilaterale
emessa dal FMI, governata dai cosiddetti “diritti speciali di prelievo”
(DSP).
Dopo che l’aumento dei prezzi del petrolio gonfiò i loro conti
correnti, Arabia Saudita e gli altri alleati arabi del Golfo degli Stati
Uniti spinsero l’OPEC ad iniziare le fatturazioni in DSP. Inoltre
approvarono le proposte europee per riciclare gli avanzi in petrodollari
nel FMI, per incoraggiarne l’emersione quale principale fornitore di
liquidità internazionale post-Bretton Woods. Ciò avrebbe significato che
Washington non poteva continuare a stampare dollari, mentre voleva
sostenere l’aumento di consumi, spese sociali e grande proiezione di
potenza globale. Per evitarlo, i politici statunitensi dovettero
trovare nuovi modi per incentivare gli stranieri a continuare a
mantenere sempre più grandi eccedenze di ciò che erano ormai dollari
fiat.
Egemonia petrolio e dollaro 2.0
A tal fine, le amministrazioni degli Stati Uniti dalla metà degli anni ’70 misero a punto due strategie. massimizzare la domanda di dollari come valuta transazionale ed invertire le restrizioni di Bretton Woods sui flussi di capitali transnazionali; con la liberalizzazione finanziaria, gli USA potevano fruttare ampiezza e profondità dei propri mercati di capitali, e coprire il cronico deficit di bilancio e partite correnti attirando capitali stranieri a costi relativamente bassi. Forgiare stretti legami tra vendita di idrocarburi e dollaro si dimostrò cruciale su entrambi i fronti. Creando tali collegamenti, Washington estorse efficacemente ai suoi alleati arabi del Golfo un silenzio condizionato garantendosi la loro propensione ad aiutare finanziariamente gli Stati Uniti. Rinnegando le promesse ai partner europei e giapponesi, l’amministrazione Ford spinse clandestinamente l’Arabia Saudita e altri produttori arabi del Golfo a riciclare quote sostanziali delle loro eccedenze in petrodollari nell’economia degli Stati Uniti, tramite intermediari privati (in gran parte degli Stati Uniti), piuttosto che attraverso il FMI.
A tal fine, le amministrazioni degli Stati Uniti dalla metà degli anni ’70 misero a punto due strategie. massimizzare la domanda di dollari come valuta transazionale ed invertire le restrizioni di Bretton Woods sui flussi di capitali transnazionali; con la liberalizzazione finanziaria, gli USA potevano fruttare ampiezza e profondità dei propri mercati di capitali, e coprire il cronico deficit di bilancio e partite correnti attirando capitali stranieri a costi relativamente bassi. Forgiare stretti legami tra vendita di idrocarburi e dollaro si dimostrò cruciale su entrambi i fronti. Creando tali collegamenti, Washington estorse efficacemente ai suoi alleati arabi del Golfo un silenzio condizionato garantendosi la loro propensione ad aiutare finanziariamente gli Stati Uniti. Rinnegando le promesse ai partner europei e giapponesi, l’amministrazione Ford spinse clandestinamente l’Arabia Saudita e altri produttori arabi del Golfo a riciclare quote sostanziali delle loro eccedenze in petrodollari nell’economia degli Stati Uniti, tramite intermediari privati (in gran parte degli Stati Uniti), piuttosto che attraverso il FMI.
L’amministrazione Ford chiese
anche il supporto del Golfo arabo a una Washington in ristrettezze
finanziarie, concludendo accordi segreti con le banche centrali di
Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per acquistare grandi quantità di
titoli del Tesoro USA al di fuori delle aste normali. Tali impegni
aiutarono Washington ad impedire al FMI di soppiantare gli Stati Stati
quale principale fornitore di liquidità internazionale, dando anche un
fondamentale impulso alle ambizioni di Washington nel finanziare il
deficit riciclando avanzi dei dollari esteri tramite mercati finanziari
privati e l’acquisto di titoli di Stato statunitensi.
L’impegno
dell’OPEC al dollaro come moneta per le vendite internazionali del
petrolio fu fondamentale per l’ampia adozione del dollaro quale valuta
transazionale dominante sul mercato petrolifero. Pochi anni dopo,
l’amministrazione Carter siglò un altro accordo segreto con i sauditi,
per cui Riyadh s’impegnava ad esercitare la propria influenza per
garantire che l’OPEC mantenesse i prezzi del petrolio in dollari. Quando
il sistema di prezzi amministrati dell’OPEC crollò a metà degli anni
’80, l’amministrazione Reagan incoraggiò l’uso universale dei dollari
nelle vendite di petrolio internazionali nelle nuove borse del petrolio
di Londra e New York. I prezzi quasi universali del petrolio e poi del
gas, in dollari, furono rafforzati dalla probabilità che le vendite di
idrocarburi non fossero solo espresse in dollari, ma anche trattate,
generando il costante sostegno alla domanda di dollari in tutto il
mondo.
In breve, queste occasioni furono fondamentali nella creazione dell'”egemonia del dollaro 2.0″. E sostanzialmente ressero nonostante la periodica insoddisfazione araba del Golfo verso la politica mediorientale degli Stati Uniti, il fondamentale allontanarsi degli Stati Uniti da altri importanti produttori del Golfo (Iraq di Sadam Husayn e Repubblica islamica dell’Iran), e dall’interesse sul “petro-euro” nei primi anni 2000. I sauditi, in particolare, hanno vigorosamente difeso i prezzi del petrolio esclusivamente in dollari. Mentre Arabia Saudita e altri grandi produttori di energia accettavano il pagamento delle loro esportazioni di petrolio in altre valute principali, la quota maggiore delle vendite mondiali di idrocarburi continuava ad essere regolata in dollari, perpetuando lo status del dollaro a prima valuta transazionale del mondo. Arabia Saudita e altri produttori arabi del Golfo completarono il sostegno al nesso petrolio-dollari con grandi acquisti di armi avanzate statunitensi; la maggior parte agganciò le proprie valute al dollaro, un impegno che alti funzionari sauditi descrivono come “strategico”. Mentre la quota del dollaro nelle riserve globali è scesa, il riciclaggio dei petrodollari del Golfo arabo permette di mantenerlo come valuta di riserva mondiale.
La sfida della Cina
Eppure, storia e logica cautela delle pratiche attuali non sono scolpite sulla pietra. L’ascesa del “petroyuan” verso un regime valutario meno dollaro-centrico nei mercati energetici internazionali, con implicazioni potenzialmente gravi per la posizione del dollaro, è già in corso. Mentre la Cina è emersa quel principale attore sulla scena energetica mondiale, ha anche intrapreso un’estesa campagna per internazionalizzare la propria valuta. Una quota crescente del commercio estero della Cina viene espressa e regolata in renminbi; l’emissione di strumenti finanziari denominati in renminbi è in crescita. La Cina persegue un processo prolungato di liberalizzazione essenziale alla piena internazionalizzazione del renminbi in conto capitale, permettendo maggiore flessibilità dei tassi di cambio dello yuan. La Banca Popolare di Cina (PBOC) ha ora accordi di swap con oltre 30 altre banche centrali, il che significa che i renminbi è già un’efficace valuta di riserva. Guardando al futuro, l’uso del renminbi nella vendita degli idrocarburi internazionale sicuramente aumenterà, accelerando il declino dell’influenza statunitense nelle regioni-chiave produttrici di energia.
Eppure, storia e logica cautela delle pratiche attuali non sono scolpite sulla pietra. L’ascesa del “petroyuan” verso un regime valutario meno dollaro-centrico nei mercati energetici internazionali, con implicazioni potenzialmente gravi per la posizione del dollaro, è già in corso. Mentre la Cina è emersa quel principale attore sulla scena energetica mondiale, ha anche intrapreso un’estesa campagna per internazionalizzare la propria valuta. Una quota crescente del commercio estero della Cina viene espressa e regolata in renminbi; l’emissione di strumenti finanziari denominati in renminbi è in crescita. La Cina persegue un processo prolungato di liberalizzazione essenziale alla piena internazionalizzazione del renminbi in conto capitale, permettendo maggiore flessibilità dei tassi di cambio dello yuan. La Banca Popolare di Cina (PBOC) ha ora accordi di swap con oltre 30 altre banche centrali, il che significa che i renminbi è già un’efficace valuta di riserva. Guardando al futuro, l’uso del renminbi nella vendita degli idrocarburi internazionale sicuramente aumenterà, accelerando il declino dell’influenza statunitense nelle regioni-chiave produttrici di energia.
I politici cinesi apprezzano i “vantaggi di agente storico” di
cui il dollaro gode; il loro scopo non è il renminbi che sostituisce il
dollaro, ma affiancare lo yuan al verdone quale valuta transazionale e
di riserva. Oltre ai benefici economici (ad esempio, riducendo i costi
di cambio per le imprese cinesi), Pechino vuole, per motivi strategici,
rallentare ulteriormente la crescita delle sue enormi riserve in
dollari. La Cina ha visto aumentare la propensione statunitense ad
escludere Paesi dal sistema finanziario statunitense come strumento di
politica estera, e si preoccupa di come Washington cerchi di sfruttare
ciò; l’internazionalizzazione del renminbi può mitigare tale
vulnerabilità. In generale, Pechino comprende l’importanza del potere
del dollaro nel dominio statunitense; intaccandolo la Cina può contenere
l’eccessivo unilateralismo degli Stati Uniti.
La Cina da tempo ha inserito gli strumenti finanziari nei suoi sforzi
per accedere agli idrocarburi stranieri. Ora Pechino vuole che i
principali produttori di energia accettino il renminbi come valuta
transazionale, anche per concludere l’acquisto di idrocarburi,
incorporando il renminbi nelle riserve della banca centrale cinese. I
produttori sono motivati ad accettarlo. La Cina è nel prossimo futuro,
di gran lunga il principale mercato in crescita per i produttori di
idrocarburi nel Golfo Persico e dell’ex-Unione Sovietica. Le ampie
aspettative di lungo termine sull’apprezzamento dello yuan rendono
l’accumulazione delle riserve di renminbi una “bazzecola” in termini di
diversificazione del portafoglio.
Mentre gli USA sono sempre più visti
come potenza egemone in declino, la Cina è vista come potenza in ascesa
per eccellenza. Anche per il Golfo arabo, che da tempo si affida a
Washington come ultimo garante della sicurezza, ciò fa sì che più
stretti legami con Pechino siano un imperativo strategico. Per la
Russia, i rapporti deterioratisi con gli Stati Uniti spingono a una
maggiore cooperazione con la Cina, contro ciò che Mosca e Pechino
considerano i declinanti, ma ancora pericolosamente instabili ed
iperattivi USA. Per diversi anni, la Cina ha pagato le importazioni di
petrolio dall’Iran in renminbi; nel 2012, la BoPRC e la Banca Centrale
degli Emirati Arabi Uniti istituirono uno swap in valuta da 5,5 miliardi
di dollari, ponendo le basi per la conclusione in renminbi delle
importazioni di petrolio cinesi da Abu Dhabi, un’importante espansione
dell’uso del petroyuan nel Golfo Persico. L’accordo sul gas sino-russo
da 400 miliardi di dollari concluso quest’anno, prevede l’acquisto
cinese di gas russo in renminbi; se completato, ciò darà un ruolo
apprezzabile al renminbi nelle transazioni di gas transnazionali.
Guardando al futuro, l’uso del renminbi nelle vendite di idrocarburi internazionali sicuramente aumenterà, accelerando il declino dell’influenza statunitense nelle regioni-chiave produttrici di energia. Rendendo anche più difficile per Washington finanziare quello che la Cina ed altre potenze in ascesa considerano una politica estera interventista; una prospettiva su cui la classe politica statunitense ha appena cominciato a riflettere.
Tyler Durden Zerohedge
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
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