La
città-tempio di Gobekli Tepe è ubicata ad otto miglia a nord est di
Sanliurfa, in Turchia. Gobekli Tepe risale a circa a 12.000 anni
addietro, ma certe sue opere suggeriscono addentellati con culture
posteriori. Ad esempio, vi si può ammirare un pilastro lapideo su cui è
scolpito un volatile con le ali spiegate, insieme con un oggetto
circolare. Tale raffigurazione evoca il simbolo egizio “shen “,
risalente grosso modo a 7000 anni più tardi.
L’effigie con il disco potrebbe essere associata a Nekhbet, dea dalle
sembianze di avvoltoio bianco, che di solito era riprodotto con le ali
spiegate, nell’atto di stringere un geroglifico “shen” fra gli artigli.
“Shen” deriva dall’antica parola egizia “shenu”, ossia “circondare."[1]
Lo “shen” è simbolo di eternità, d'infinito e di protezione: è per
questo che diventò un cartiglio contenente un nome. Nell'antico Egitto,
si riteneva che senza un nome, una persona fosse incompleta ed una
persona incompleta non poteva inoltrarsi nell'oltretomba con successo. I
nomi reali dovevano essere protetti per tutta l'eternità, dunque lo shen
salvaguardava il faraone nel suo transito verso il duat. Gli antichi
Egizi possedevano due nomi, uno essoterico, noto a tutti, ed uno
esoterico, conosciuto da pochi. Il nome segreto proteggeva l’identità,
l’essenza di chi lo portava.
In un’antica città della Turchia, Catal Huyuk, si può ammirare un
affresco che mostra avvoltoi appollaiati sulla cima di alte torri di
legno il cui fastigio è delimitato da cornici. In una torre, due
avvoltoi sono tratteggiati con le ali piegate su una testa umana.
Un certo numero di specialisti ipotizza che gli avvoltoi siano
all’origine di una lunga tradizione rintracciabile ancora oggi fra i
Parsi (Zoroastriani), seguaci della religione fondata dal profeta
persiano Zarathustra. I Parsi, presenti in India ed Iran, compiono il
rituale funerario della scarnificazione. La scarnificazione consiste
nell’abbandonare il corpo del defunto sulla sommità di una torre
circolare in pietra chiamata “dakhma”, attendendo che gli avvoltoi si
nutrano della carne. In questo modo la terra non è contaminata dalla
salma. Gli edifici di Catal Huyuk probabilmente sono una versione
precedente delle dakhma, note come “Torri del silenzio”.
Andrew Collins ritiene che l’avvoltoio sia un animale psicopompo, ossia
atto a condurre l’anima nell’aldilà. Non solo, lo studioso, autore del
saggio “Il mistero del Cigno”, reputa che altri pennuti, ossia la
cicogna ed il cigno, trasferiscano l’anima disincarnata in un altro soma
lungo l’itinerario della metempsicosi.
In varie parti d'Europa e dell’Asia è la cicogna a portare i neonati. Il
Cigno è anche una magnifica costellazione: agli astri che la formano
sono allineati alcuni siti archeologici. Al Cigno si collega pure
presumibilmente la visione di Costantino.
In alcune rappresentazioni del Neolitico gli avvoltoi hanno degli ovali
sulla schiena: all’interno degli ovali sono delineati feti o infanti che
rappresentano, secondo Collins, gli spiriti destinati ad essere
ricondotti sulla Terra. Collins pensa che l’avvoltoio sia un simbolo
fondamentale. Tale emblema riecheggiò attraverso i millenni fino a
quando fu adottato dagli antichi Egizi.
In altri contesti culturali, l'avvoltoio è un emblema di guerre e
battaglie. Tra i Sumeri e gli Amorrei (volgarmente noti come Babilonesi)
era l’animale che portava via l’anima dei combattenti morti sul campo.
La giornalista investigativa Linda Moulton Howe, analizzando i singolari
manufatti di Gobekli Tepe, comparati con altre testimonianze
iconografiche, soprattutto dei Nativi americani, si spinge a
congetturare che essi alludano alla procreazione di uomini per opera di
esseri allotri. Ella esamina, tra le altre, una sorprendente opera
custodita nel museo di Urfa (Turchia): è una sorta di totem alto
otto piedi con una testa non umana e priva di volto. Ai lati sono
scalpellati dei serpenti: questa inquietante creatura sembra essere
descritta mentre è in procinto di dare alla luce un bambino umano. Viene
in mente il celebre passo biblico del Genesi, dove sono menzionati “i
figli degli dei”…
Non si comprende per quale motivo questa ed altre figure antropomorfe
siano scolpite senza viso. Inintelligibili risultano anche molti glifi
sbalzati sui caratteristici pilastri a T di Gobekli Tepe. Le opere
litiche hanno alcunché di ieratico, ma soprattutto di sinistro, come se il sacro fosse velato da un’ombra sacrilega.
La Moulton Howe azzarda la seguente supposizione: i vari monumenti megalitici (menhir, dolmen, cromlech)
sarebbero le vestigia di un’intelligenza non terrestre che interagisce
in modo occulto con l’umanità da tempo immemorabile. Forse Gobekli Tepe
era un luogo cosmopolita dove gli anziani, gli sciamani, i guerrieri di
culture diverse si incontrarono per far scoccare la scintilla della
civiltà. Forse la misteriosa città-santuario fu edificata da un popolo
proveniente dalla costellazione del Cigno.
Gobekli Tepe è un luogo di morte, ma pure di rinascita. Il suo
simbolismo sembra riflettere questa duplicità. Era ed è – suggeriscono
alcuni - anche un portale cosmico, uno stargate. E’ un posto in cui la linea dello spazio-tempo si spezza e dove si può essere proiettati verso le stelle.
[1] Nekhbet era raffigurata ovunque il faraone fosse presente: nella
tomba reale e nei templi. La sua immagine ornava anche i pettorali ed i
gioielli del re. Ella, insieme con la dea Uto, nutriva il sovrano alla
nascita e lo proteggeva per tutta la vita. Con la democratizzazione del
culto, la divinità divenne nutrice di ogni defunto che rinasceva a nuova
vita.
Fonti: Grande enciclopedia illustrata dell’antico Egitto, a cura di E. Bresciani, Novara, 2009, s.v. Nekhbet
L. Moulton Howe, Gobekli Tepe: was it a soul recycling machine?, 2013
http://zret.blogspot.it/
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