Ieri fu la Grecia, oggi la Turchia, domani non si sa. Siamo sempre pronti a lanciarci in proclami per esaltare chi si oppone. Ma chi sono quelle persone in strada? Cosa vogliono? Contro chi protestano? Non importa, si oppongono e questo ci basta.
La presunzione di essere nel giusto ci acceca, il mondo viene ridotto alle nostre categorie di pensiero, categorie di occidentali istruiti che nonostante tutto stanno bene. La crisi dei consumi, dei nostri consumi, ha messo in crisi il nostro mondo, che resta nostro. Senza andare nelle favelas brasiliane o tra i bambini soldato africani, ma semplicemente andando nelle periferie delle nostre città potremmo capire cosa significa crisi. Le stesse periferie dove noi non osiamo addentrarci, dove non arrivano i mezzi pubblici – che la sera non prendiamo – dove vivono quei poveri privi del fascino esotico della povertà asiatica, africana, sudamericana o comunque altra.
Il mito del terzo mondo magari in lotta ci ha dominato. Abbiamo talmente tifato per cause altrui da non sapere più nemmeno vedere le nostre. Abbiamo talmente sperato che qualcuno lottasse anche per noi che abbiamo dimenticato per cosa quei popoli lottavano. Siamo talmente arroganti da pensare che tutto il mondo lotti per il nostro mondo, che tutti vogliono il nostro sistema, lo stesso sistema che abbiamo il vezzo di disprezzare. Figli di un internazionalismo degenerato siamo i peggiori conservatori di una realtà che a parole vogliamo combattere, quello che chiamiamo il mondo civile. L’idea che i diritti non siano affatto universalmente condivisi non ci sfiora nemmeno, impossibile qualcuno voglia dei diritti diversi.
E in Turchia si lotta, e si muore, oggi che siamo così a corto di simboli ed ideali, ma cambiare non si può, non si deve. I manifestanti turchi permettono a noi intellettualini di riempire i nostri blog, di fare le nostre analisi, in un rito orgiastico masturbatorio. Siamo pronti a sostenere chiunque possa fregiarsi dell’etichetta di ribelle, rivoluzionario non suona più bene alle nostre orecchie ormai delicate, a patto che sia politicamente corretto. Abbiamo l’arroganza di decidere chi abbia il diritto di lottare in paesi che forse non abbiamo mai nemmeno visto come turisti.
Siamo ipocriti, la rivolta ci piace in Turchia ed ovunque possiamo essere liberi da prese di posizione. Forse ci servirebbe una crisi vera, che spazzi via i nostri distinguo e la nostra (fu) purezza democratica. Siamo i figli di un mondo schierato, incapaci di superare la logica amico-nemico, ma con la presunzione di essere dalla parte giusta. Siamo figli di una cultura cattolica che neghiamo essendone intrisi, adoratori del dio progresso, unico dio ammesso nel nostro Pantheon. Lo stesso progresso, monolite proteso verso il cielo della crescita continua, che sta distruggendo il pianeta. Progresso che, tramite la globalizzazione, rende Istanbul simile a Tor Bellamonaca, dove l’unico metro di paragone è il successo; poco importa se avere successo significhi soldi o followers: la dinamica è la stessa, noi vogliamo riconosciuto il nostro essere migliori.
Di fronte a ciò, che fare? Impossibile rispondere: siamo troppo occupati a sentirci turchi, greci, immigrati, clandestini, tutto tranne essere noi stessi. Essere ceto medio, magari mediamente colto, non fa audience nella nostra social life. Ma finchè noi saremo altro non saremo che maschere vuote, che cambiano con i tempi: ieri Il Che oggi Kemal (chi era costui?). Viviamo nella paura, la paura di perdere tutto, il che significa che abbiamo qualcosa da perdere; oltre alla dignità, persa da tempo.
Ronald Reagan disse che lo stile di vita degli americani non era in discussione, ed il nostro?
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