Tutta la retorica sul Jobs Act, alla fine, si riduce a una
flessibilità quasi selvaggia. Questo è quanto rimane dalla lettura del
corposo comunicato stampa del Consiglio dei ministri del
“super-mercoledì” renziano. Il miraggio del contratto unico, l’ipotesi
del salario minimo o del sostegno ai disoccupati, infatti, va a finire
in un progetto di legge delega la cui attuazione dipenderà dal volere
degli dei, conoscendo la politica italiana. Da un decreto governativo,
invece, immediatamente in vigore per essere convertito dal Parlamento,
dipendono le modifiche ai contratti a tempo determinato e
all’apprendistato. E si tratta di modifiche pesanti. Per il contratto a
termine, infatti, scrive il testo del governo «viene prevista
l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità».
Ma la novità peggiore è che viene prevista «la possibilità di
prorogare anche più volte il contratto a tempo determinato entro il
limite dei tre anni, sempre che
sussistano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa
attività lavorativa».
Rinnovare anche più volte, senza limiti chiari,
significa, come ha notato Tito Boeri su “Repubblica”, poter rinnovare un
contratto di lavoro ogni settimana e quindi ben 156 volte nell’arco di tre anni. Le aziende
saranno soddisfatte, ma tutti quei lavoratori precari che, pure, hanno
sperato nel “contratto unico” di Renzi, che diranno? La proposta del
governo pone un solo limite, quello del 20% dei dipendenti di un’azienda
che possono essere assunti con contratto a tempo. Su 50 si tratta di
dieci contratti, non è poco. Inoltre, nel momento in cui verrà
introdotto il contratto unico in cui per almeno tre anni non sarà
previsto l’articolo 18, le aziende potranno avere fino a sei anni di disponibilità assoluta del lavoratore, minacciato in ogni momento dal licenziamento.
La tendenza è confermata dall’apprendistato in cui verrà previsto il
ricorso alla forma scritta solo per il contratto e per il patto di
prova. Non ci sarà più, invece, in forma scritta il piano formativo
individuale ma, soprattutto, si elimina la norma secondo la quale
«l’assunzione di nuovi apprendisti è necessariamente condizionata alla
conferma in servizio di precedenti apprendisti». Quindi, si assumeranno
apprendisti, con una paga base pari al 35% della retribuzione, e questi
potranno essere costantemente sostituiti.
Infine, «per il datore di lavoro
viene eliminato l’obbligo di integrare la formazione di tipo
professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica, che
diventa un elemento discrezionale». A fronte di queste norme, certe, la
parte più attesa del “piano del lavoro” rimane rinviata nel tempo. Tutta la materia degli ammortizzatori sociali, della riforma dell’Aspi (l’indennità di disoccupazione), la riforma dei Centri per l’impiego, il contratto
unico, il riordino delle forme contrattuali diverse e lo stesso salario
minimo, l’estensione della maternità, finiranno in una legge-delega.
Uno strumento che in genere mette su un binario morto tanti buoni
propositi. In questa decisione si rintraccia una particolare “svolta”
operata da Renzi. Quelli che sembravano i suoi settori di riferimento – giovani precari, partite Iva, forza lavoro intellettuale spesso in fuga dall’Italia – vedranno un peggioramento della loro condizione di lavoro e di vita. I settori tradizionali della sinistra – il classico lavoro
dipendente – vedranno, invece, un piccolo miglioramento (sempre che il
premier non si riveli, come ha detto lui stesso, “un buffone”). Un
cambio di “base sociale” che ha spiazzato la Cgil e la minoranza Pd e che rende sempre più “acrobatico” l’esperimento governativo del giovane leader democratico.
(Salvatore Cannavò, “Jobs act, il premier tradisce subito i giovani e i non garantiti”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 marzo 2014).
fonte: http://www.libreidee.org/2014/03/cervelli-in-fuga-renzi-ha-gia-tradito-giovani-e-precari/
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