mercoledì 1 agosto 2018

Lettera ai medici che curano una malattia dicendo di curare il malato


Caro Dottore o Professore,

non so quale sia il tuo titolo, so che sei un medico. Ti ho sentito mentre parlavi agli studenti e ti ho riascoltato in una trasmissione televisiva dove, sottolineavi con enfasi, che curi il malato. Sono sobbalzato dalla gioia. Erano finiti i nomi di malattie, attribuzioni proprie di una mentalità ottocentesca che più che i medici, ricorda gli esploratori che, davano il proprio nome a fiumi e monti.

Era morta la statistica come fine e di conseguenza, quella prigione terapeutica che si chiama protocollo. Ero felice.

Poi, sentendoti parlare ho avuto la sensazione che questa tua affermazione la consideravi una “scoperta” attuale della medicina. Allora mi sono chiesto, perché un ricercatore attento come te, puntiglioso nella lettura dei lavori scientifici, sottoposti a rigorose meta-analisi, non avesse citato, almeno storicamente, per coerente rigore, l’“Organon” di Samuel Hahnemann del 1810, dove, nel primo paragrafo si dice che, compito principale del medico è curare il malato.

Quello che tu stavi dando come nuovo annuncio è una pratica clinica normale per l’omeopatia da oltre 200 anni. “Nihil novi sub sole”, cita l’Ecclesiaste e lo sapeva anche Hahnemann che, nel suo testo riporta, con correttezza bibliografica, di chi l’ha preceduto. Perdonami, allora ripensando mi hai fatto sorridere. È ovvio che chi si rivolge a te sia un malato! La medicina, se non ci fossero malati non esisterebbe. Ma non hai detto cosa intendi per malato.

Ho guardato gli ordinamenti di studio universitari e ho visto che c’è una materia nella Facoltà di medicina che risponde al nome di Metodologia clinica. Credo, sia la Semeiotica dei miei tempi. In questa materia il rapporto medico-paziente, cioè con la persona, viene trattato per un’ora, cioè un attimo in sei anni di studi. Il rapporto con il paziente è totale, ma per comodità lo dividerò in fisico e psichico. Inizio a ragionare sul primo.

La semeiotica, lo studio dei segni ha la mano come attore principale insieme alla parola. Che importanza ha la mano! La mano accarezza, si stringe per salutare. Le mani del medico dovrebbero sapere tutto con i sensi affinati, aiutati dal dialogo. Sai ancora usare le mani per una semeiotica tradizionale che ti permetteva di percepire, anche in assenza di strumenti che, dovrebbero solo confermare? La mano che palpa per diagnosticare è molto vicina alla carezza nella percezione di chi soffre.

La mano comunica. Heidegger sintetizza tutto ciò con “la mano agisce”, mezzo di manifestazione dell’Essere, cioè della vita, dell’essere nel mondo. La mano pensa, prima di fare, è logos. Diventa verità. Sottrae il velato rendendolo reale. Lo stetoscopio di Laennec ha fatto migliorare l’auscultazione, ma è stato il primo passo di allontanamento tra chi soffre e chi cura. Oggi l’ecografia ha sostituito la palpazione.

Grande fondamentale miglioramento clinico che, però, come svantaggio, ha tolto un contatto diretto tra la mano che cura, anche come aspetto simbolico, e il paziente. Chi usa la macchina, centro del mondo, senza momento critico dà la sensazione di essere il servo che chiede aiuto al padrone.

Così, l’intuizione, vinta dalla sicurezza neutra di una macchina, si è un poco atrofizzata. Quindi un rapporto migliorato nella tecnica, disumanizzato nella pratica. L’uso della tecnica è fondamentale, senza però che questa si impossessi di chi l’ha inventata. Tu hai il potere di giudicare, investito da una laurea ingigantita dai tuoi titoli, così il tuo rapporto con l’altro è asimmetrico. Il paziente è tenuto all’oscuro da un linguaggio criptico che non aiuta la reciprocità.

Certo esiste il consenso informato, ma fa parte dell’aspetto tecnico della terapia, dell’aspetto materico, è chimico. Hai mai la sensazione di darti all’altro, a chi soffre? Mi puoi dire che il rapporto medico-paziente è insito nella medicina, fa parte del medico. Eppure nei fatti il paziente è sempre più solo. Direi che l’uomo è più solo. Conferma, il crescente numero di ingressi nei social dove si vuole apparire senza farsi vedere.

Ricerca di socievolezza volendo restare isolati. Oppure l’affezionarsi a immagini di personaggi televisivi che si ascoltano solo, ma che nell’immaginario, diventano amici che parlano, ai quali non si possono porre domande che, però, attraverso uno schermo sembrano essere entrati nel quotidiano, al punto che si soffre per la loro perdita. Il virtuale si è fatto reale.

L’abitudine ha fatto in modo che tutto questo non reale, sia o debba, essere sufficiente per molti, dal momento che la parola è scomparsa schiacciata dalla solitudine. Solitudine che vorrebbe comunicare e che tende a deprimersi di silenzio. L’uomo è parola, senza questa che aiuta a comunicare il bello e la memoria, per trasferire al futuro il proprio vissuto, non sarebbe tale.

Sento già che mi stai dicendo che tutto questo è filosofia, sociologia e me lo dici con un tono quasi di disprezzo. Mi piacerebbe che tu comprendessi che tutto questo fa parte della medicina. Ti sei mai domandato come nelle analisi cliniche, un piccolo trattino inserito tra due numeri, strette da due parentesi sia capace di determinare la salute e la malattia? Lo stesso trattino, inserito tra due date di nascita e di morte, può essere lo scorrere di una vita? A Heidegger fu chiesto di descrivere Aristotele e lui disse “Nacque, visse, morì”. Era un’evidente provocazione. Non pensi che quel trattino debba essere srotolato per sapere di più di un qualcuno che non è un qualcosa?

Simon Weil dice che, “il bene è ingrandire la realtà delle cose e dell’altro”. Parla di realtà e l’unica vera è l’inserimento dell’individuo nel suo vissuto, cioè come ognuno vive se stesso. Questo non vuol dire eliminare la conoscenza tecnica o la terapia più adatta per poterlo aiutare, ma il centro è sempre e solo lui.

Il concetto e la visione di malato non si può ridurre a un breve lasso di tempo in un corso di studi, è una maniera diversa e costante di osservare l’altro nella sua individualità di sofferenza. Allora mi è venuto un altro pensiero, forse quella lezione breve sul rapporto medico-paziente che, ai miei tempi non c’era, è il corrispettivo del bugiardino all’interno delle confezioni dei farmaci, foglietto utile a mettere in pace e anche a togliere responsabilità alle coscienze delle industrie e dei prescrittori. In sintesi, dire che curi il malato è una sorta di maschera di buonismo?

Forse questa frase, curare il malato nasconde un “complesso” nei confronti dell’omeopatia che, veramente si prende cura della persona inserendola nella malattia, studiando quest’ultima, certamente con tutti i mezzi più moderni possibili ma sempre in funzione dell’individualità di chi soffre e ti chiede aiuto. Credo ti dovresti informare meglio sull’omeopatia, eliminando sterili preconcetti privi di conoscenza. È praticata da medici laureati come te, che hanno il vantaggio di avere un’arma in più rispetto alla tua, cioè il voler capire veramente l’individuo.

L’omeopatia non è solo prescrizione di granuli o globuli con presenza più o meno numerosa o assenza di molecole, secondo le diluizioni. A dare queste risposte fisico-chimiche penseranno i ricercatori. Io sono un clinico come te e compito dei ricercatori è spiegare i miei risultati e la soddisfazione dei pazienti che, indipendentemente dalle polemiche o dalle diatribe, migliorano o guariscono dei loro sintomi.

L’omeopatia è un modo di vedere l’altro diversamente. Ho capito! È questa la ragione per cui non hai citato Hahnemann! Del resto come avresti potuto, saresti stato costretto a vedere la statistica come mezzo e non come fine con tutte le conseguenze che comporta una visione metodologica di questo tipo. Ti vorrei precisare che non sto parlando di terapia, ma solo dell’approccio al malato.

La terapia viene dopo ed entrambi dovremmo usare, in scienza e coscienza la migliore, qualunque essa sia, per quell’individuo, in quel determinato momento. Ora un po’ di pensiero. Non fa male parlare da filosofo, ti arricchisce, credimi. Alla base c’è da considerare il concetto di altro da me, che non è un distaccarsi ma evidenziare il rispetto per la differenza, non dimenticando che, senza l’altro non ci sarebbe il mio io.

Quando Montaigne, riferendosi all’affetto sincero, puramente platonico, verso l’amico filosofo La Boétie, morto in giovane età, con il quale condivideva cultura, gusto del bello e del sapere, scrive “Perché io ero io, lui era lui”, non indica una separazione, ma un rispetto delle differenze. Lo rispettava, cioè distoglieva lo sguardo, aveva per lui riguardo. Non lo ri-vedeva come immagine, ma come entità. In medicina è il rapporto medico paziente del quale tanto si è scritto. Credo che a caratterizzarlo ci siano fondamentalmente due aspetti: l’interesse sincero verso l’altro, una sorta di imperativo categorico kantiano e l’ascolto.

La preparazione tecnica si dà per scontata. Come tu ben sai, gli ormoni agiscono sul comportamento, come è vero il contrario che un comportamento o un fattore esterno psichico, ambientale può agire su di loro. L’ascolto non è solo fisico, è sapere sentire le parole silenziose del non detto, a volte più rumorose di un suono. È cercare di essere disponibili. È voler realmente approfondire l’altro in tutti i dettagli del quotidiano, sentire la necessita di conoscere chi ti chiede aiuto.

Non è psicologismo, ma sapere che l’uomo non è solo corpo che misuro, ma un qualcosa di più, che è il suo non detto capace di modificare il suo stato di salute e anche generare una malattia. La sottrazione del concetto di persona è entrata anche nella cultura psicologica dove si cerca, con sperimentazioni, di misurare l’incommensurabile della psiche per trasformarla in misurabile fino a ridurla a farmaco e quindi a consumo. L’essere è assimilabile solo a se stesso. Vedere il malato come una malattia annulla l’originale sostituendolo con un’immagine che è solo riproduzione.

La visione della malattia ricorda quella di una fotografia, ma non la realtà dell’immagine della quale conserva solo tracce. Barthes considera la verità fotografica inseparabile dalla realtà. La realtà che, è il paziente, viene spesso sostituita. La visione del paziente è paragonabile a una contemplazione, un atteggiamento ricettivo di fronte a una rappresentazione.

Il paziente, se non lo si inserisce nella malattia, diventa solo una citazione. Si ha la sensazione che si voglia creare un assoluto della salute, mentre quella vera è quella reale, cioè relativa al vissuto del singolo. Il reale può essere molto più scioccante dell’astrazione di una malattia. La vera condivisione sta nel considerare che, una volta posta la diagnosi di malattia, la devi saper inserire nell’individuo.

Come fai a dire che curi il malato quando in patologie del tutto diverse ad esempio, asma, psoriasi, flogosi..., in individui differenti, prescrivi il cortisone? Oppure in patologie batteriche, un antibiotico, spesso senza antibiogramma che, almeno avrebbe indicato la resistenza individuale? Ma questo è solo l’aspetto più evidente del problema. La richiesta di aiuto, l’insicurezza del quotidiano, la paura di vivere, come le curi? Con uno psicofarmaco comune per tutti che agisce solo sulla componente chimica del malessere quando il vissuto si fa reale? E inoltre quando prescrivi più farmaci, tu che proclami, giustamente, il consenso informato e accusi l’omeopatia di essere il nulla, quindi dai peso giustamente alle farmacodinamie, conosci le loro interazioni che si assommano andando ben oltre gli effetti indesiderati descritti nel bugiardino per ogni singolo farmaco? Stai usando l’aritmetica e non una raffinata matematica. Stai curando una malattia.

Come fai a dire che curi il malato del quale conosci solo ciò quello che lui ti ha voluto raccontare o che hai raccolto in un’anamnesi standardizzata. La storia è un racconto. È medicina narrativa. Sai che problemi ha sul lavoro, a casa, che interessi ha, quale sport pratica, quali sono i suoi gusti alimentari, che cosa sogna, che paure ha? Potrei continuare, insomma conosci la sua vita? Ebbene tutto questo è il malato, cioè come lui vive la sua malattia nel corpo, nella mente e nell’anima.

Certo, perché anche l’etica è importante con rimpianti e rimorsi. Ebbene tutto questo è la lunga anamnesi omeopatica dove ogni singolo piccolo dettaglio, le modalità, portano a una diversa prescrizione, basata su una tossicologia studiata sull’uomo sano. Questo è curare il malato inserendolo nella malattia.

Non pensare che tutto ciò che non sia misurabile non esista. L ’informazione è cumulativa, la verità è selettiva. Il sapere non è somma di dati, ma conferma di esperienza. Il sapere supera il tempo, l’informazione è un momento fugace. L’informazione è impaziente, è propria del cacciatore, che predilige l’uso. Il sapere è del raccoglitore. Oggi noi esistiamo perché i nostri antenati, per generare civiltà, compirono il passaggio dalla caccia alla raccolta. Oggi l’Essere coincide con l’informazione.

L’eccesso di informazioni può distrarre l’attenzione riducendo l’analisi, spostando la propria responsabilità verso le informazioni stesse, divenute più importanti di chi le ha acquisite. Penrose scrive, “La fiducia nelle regole, trascende le regole stesse”.

Così l’informazione può deformare il giudizio. Il narcisismo delle proprie conoscenze allontana dalla verità. Lo studio di una parte per il tutto, non spiega la complessità uomo. Cognizione senza conoscenza. Leggi l’omeopatia come diversa modalità di approccio all’altro, come cura della salute. Ciò non significa che tu debba utilizzare l’omeopatia, significa che devi riesaminare la maniera in cui ti approcci al malato. A prescindere dalle terapie che consiglierai, anche se appartengono alla farmacopea tradizionale, prescrivile con un’altra visione, un approccio più generoso verso chi soffre.

Dell’omeopatia, in sintesi, prendi la mentalità. I ricercatori stabiliranno la sua fondatezza. Come clinico utilizza la sua mentalità di approccio, ti renderai, con gioia, ragione del perché sei medico. Il paziente ha, insieme al desiderio di guarire, quello di parlare e di essere ascoltato raccontando se stesso. Non trovi che tutto questo indipendentemente dal nome che gli vuoi dare, sia la medicina? Si ha la sensazione che quasi non ci sia interesse alla guarigione, ma solo alla cura, un “pallium” che riduce il paziente a cliente.

L’impegno e la fiducia verso la sostanza prescritta può togliere l’impegno consolatorio che è basilare in medicina. Il paziente, ricevuta una diagnosi, senza una partecipazione, si sente inserito in un protocollo dove tu appari come autoreferente. L’individuo così, isolato, sembra avere sempre meno voce. È ovvio che questa mia sia una provocazione, perché molte malattie sistemiche, ad esempio, guariscono con l’efficacia del farmaco, è un voler sollecitare una nuova mentalità.

Sono certo che molti medici agiscono in questa maniera, ebbene sono medici con mentalità omeopatica, senza saperlo. Tutto questo porterà anche a una nuova educazione del paziente che non vedrà il medico come l’equivalente di una ricetta, ma anche con la possibilità che da un consultorio si possa uscire con un consiglio, una dieta e perché no, con una tua carezza. Tutto ciò non si compra in farmacia, per cui anche tu dovrai lottare contro farmacisti e Big Pharma che vogliano che tu faccia sempre più consumare.

Cerca di non apparire solo un efficiente distributore terapeutico, mediatore di consumi. Qualsiasi terapia tu scelga come migliore per quel singolo caso, prima prescrivi te stesso al paziente. Fallo sentire meno solo. Togli quella targa con il nome di una malattia e ridonagli il suo. Al nome è legata la fiducia, la vera base della conoscenza. Dandogli il nome di una patologia stai riconoscendo questa come sua realtà, piuttosto che lui stesso.

La tua azione è importante perché in questa comunicazione tu sei il potere e questo procede dall’alto verso il basso. Non c’è, come dovrebbe esserci, una simmetria. Cerca di ricrearla. Fai in modo che il recettore di questo tipo di messaggio non sia solo passivo. È vero che la diffusa caduta dei valori porta alla caduta del rispetto. Ma cerca di ricostruire la reciprocità eliminando le gerarchie.

Capisco le difficoltà in un mondo che tende a massificare, a globalizzare, dove la cultura del singolo appare difficile, se non impossibile. Si deve agire sulla massa, tutti uguali, più facile da gestire, “psicologia per le folle”! Ricordo di dittature, dalla Russia, all’Europa del secolo scorso. Non ti rendi conto che tutto questo modo di pensare ti sta sottraendo libertà. Che poi è quella di godere di un bello personale che si deve inserire in uno più grande, assoluto.

Libertà di pensare e di agire mantenendo sempre un codice di morale, almeno naturale. Infine libertà di cura. Devi scegliere la terapia migliore per l’altro secondo la tua esperienza, non dimenticando che “esperire” vuol dire fare un esperimento ogni volta, e questo è l’incontro con la singolarità che si chiama persona malata.

Osserva tutto, leggi tutto, considerando che la componente verbale nella comunicazione, forse, è più semplice di quella non verbale, fatta di gestualità, di comportamenti, un linguaggio diverso da interpretare. Proverai il desiderio di capire e conoscere l’altro, con la certezza che, se non senti questo stimolo, dovrai seriamente riflettere se sei un medico e se sei adatto a questa professione.

Lo sguardo, come dice Sartre, annuncia l’altro. L’altro va visto ovviamente in un concetto più vasto che va oltre, che interessa tutto. Nell’incontro prova la gioia, ormai persa, di essere anche tu osservato. Cerca di uscire dal tuo narcisismo culturale che ti porta alla scomparsa dello sguardo dell’altro. Cerca di ripristinare un bagliore, una luce che non sia uniforme, altrimenti diventa oscurità priva di desiderio, monotonia senza variabili che, invece creano la singolarità di un incontro.

Ti sei chiesto perché l’aspirazione del giovane di oggi sia uno smartphone? La domanda potrà sembrare strana per un medico, ma non la sarebbe se tu vedessi il tuo malato e non solo la sua malattia, perché lo vedresti inserito in un mondo nel quale vive e dal quale può essere determinato.

Perché è solo e ha bisogno di comunicare, ma tutto questo tu lo vedi come un atteggiamento filosofico o psicologico quindi molto lontano da te. A parte la considerazione che il medico dovrebbe essere psicologo e filosofo, ti capisco, perché non ti è stato insegnato e un’ora in sei anni di studi è veramente poca cosa. Non usare con senso di sufficienza la parola filosofia.

Senza la filosofia non avresti avuto la scienza. Cerca di dubitare, se vuoi, leggendo questa frase di Popper: “Il vecchio ideale di episteme – di conoscenza assolutamente certa, dimostrabile – ha dimostrato di essere un idolo. La domanda di obiettività scientifica rende inevitabile che ogni affermazione scientifica debba rimanere provvisoria per sempre. (...) Non è il suo possesso di conoscenze, di verità inconfutabile, che fa l’uomo di scienza, ma la sua ricerca persistente e incautamente critica della verità”.

La tua vita di medico, sempre più tecnica e frettolosa è diventata un automatismo e in questo è compreso quel rapporto di causa effetto che è l’uso della tecnica per porre una diagnosi alla quale segue una terapia. Questo automatismo non è interrompibile. Ormai il rapporto con l’altro è superato dalla molecola e soprattutto non viene fabbricato da Big Pharma e non si acquista in farmacia, in sintesi non rende. Però cura e aiuta a curare.

Quindi, prendi in considerazione, se mi permetti, la mentalità omeopatica, come modo di vedere l’altro come persona. Certo, forse, avrai un numero minore di visite giornaliere, perché per capire, si deve passare molto tempo ad ascoltare.

Questo modo di pensare che, sorridendo, mi dirai essere utopico in un’epoca come la nostra, viene applicato quotidianamente da molti medici che, in ogni parte del mondo, ottengono il consenso dei pazienti.

Cerca di utilizzarlo, le tue terapie saranno più efficaci e credimi, alla fine della giornata ti sentirai molto più felice.


Francesco Eugenio Negro


fonte: http://www.informasalus.it/it/articoli/lettera-medici-curano-malattia.php

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