Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di
fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro
dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni
regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione
di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno
sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle
nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono
invecchiati come se ne fossero passati dieci.
La dimensione locale della
politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi
che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di
piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a
quelli del professionismo del potere.
Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette
classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti
Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.
Lo iato tra livello nazionale e “periferia” non potrebbe essere più
vistoso, dal Veneto alla Puglia. Ma rischia di suggerire una
contrapposizione tra due fenomeni in realtà speculari. L’esplosione dei
legami dentro e tra i partiti non è soltanto la certificazione
del fallimento di un’idea di federalismo. Riflette anche le scissioni
sociali che sono avvenute in questi anni in un’Italia affacciata sul
vuoto dell’azione politica.
Sono la versione minore e moltiplicata delle migrazioni parlamentari
registrate in questi anni alle Camere: indizi di un malessere ormai
cronico. Le spaccature e le riaggregazioni locali nel centrodestra,
nella Lega, perfino nel Pd,
imitano alla perfezione i conflitti alla Camera e al Senato. Replicano
“cambi di casacca” che non sono solo frutti dell’opportunismo: rivelano
un trasversalismo privo di nobiltà, e alimentato da identità debolissime
e stralunate. Il cemento è il micro-interesse, e tanti micro-narcisismi
collettivi che rendono difficile qualunque aggregazione forte e
duratura.
La domanda è se e chi riuscirà a ricompattare questo magma
centrifugo. In apparenza, il modello verticale di Matteo Renzi lo sta
facendo. Ma la distanza tra il premier o il capo della Lega, Matteo
Salvini, o Beppe Grillo,
i tre oggi in auge, e il caotico agitarsi di anonimi candidati
regionali, non esalta solo la loro capacità di leadership. Finisce anche
per sottolineare i loro limiti: quasi l’impossibilità, oltre che
l’incapacità, di trasformare dall’alto una realtà prosaicamente mediocre
e fuori controllo. La politica
nazionale inspira a pieni polmoni i miasmi locali anche perché non
appare in grado di trasmettere messaggi forti di rinnovamento come
quelli che si sforza di offrire all’Europa.
Il risultato è che a vincere sembra sia la “periferia” non governata,
immutabile e misteriosa nei suoi gangli più oscuri: quelli che solo la
magistratura finora tende a portare alla luce, delegittimando
partiti che arrivano sempre dopo; e che mostrano riflessi difensivi
automatici, lasciando ai giudici una supplenza di fatto che assume
contorni ambigui e mostra limiti oggettivi, seguendo logiche non
politiche. Sono fenomeni che corrodono quotidianamente la credibilità
degli eletti, e si proiettano sulle scelte nazionali.
Vedremo come si evolverà la campagna elettorale. Ma il turbinìo di
liste, unioni e rotture trasmette una pessima impressione. Il crollo
della partecipazione a livello locale che si è registrato negli ultimi
anni non è un segno di modernità “all’americana”: anche per la rapidità
con la quale sta avvenendo, suona come la risposta patologica ad una
rappresentanza inadeguata e malata. Se si dovesse confermare a maggio,
significherebbe un rifiuto di metodi e di formazioni non disinvolti ma,
appunto, ormai percepiti come “impazziti”. Sarebbe una sconfitta che
nessuna riforma elettorale, né la prevalenza di uno schieramento
sull’altro, potrebbero attenuare o nascondere. Il guaio maggiore,
tuttavia, non sarebbe il fallimento di una politica
locale che per paradosso oggi fornisce tanti governanti, premier
compreso; né la scissione di alcuni partiti, ridotti a gusci di identità
irriconoscibili. Il rischio vero è quello della scissione tra
l’elettorato e chi non è in grado di offrirgli una scelta degna di
questo nome. Sarebbe la premessa di una pericolosa democrazia con sempre
meno popolo.
(Massimo Franco, “Piccole miserie locali”, dal “Corriere della Sera” del 15 aprile 2015).
fonte: http://www.libreidee.org/2015/04/partiti-fantasma-a-pezzi-per-una-democrazia-senza-popolo/
Nessun commento:
Posta un commento