giovedì 23 aprile 2015

Il sogno di un Kurdistan indipendente si scontra con la prudenza politica


Dopo la riconquista di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, i media occidentali sembravano convinti che la vittoria contro i terroristi del sedicente Stato Islamico fosse un dato ormai acquisito. Purtroppo si sbagliavano.

L'ISIS ha contrattaccto in Siria, dove è arrivato ai sobborghi di Damasco, e nella provincia irachena di Al Anbar ove la città di Ramadi è tuttora sotto assedio, dimostrando che la minaccia terrorista è ancora vitale. Senza contare gli atti compiuti da emuli fuori dallo stesso Medio Oriente.

Sul campo di battaglia, anche grazie all'aiuto della forza aerea dei Paesi alleati, i peshmerga curdi restano l'unica forza militare su cui si può fare sicuro affidamento mentre l'esercito iracheno riesce a ottenere parziali vittorie solo se affiancato da milizie sciite, per lo più ubbidienti a Teheran e non a Baghdad.  La presenza di questi ultimi non manca inoltre di suscitare preoccupazione perché non va dimenticato che fu proprio a causa della politica settaria dello sciita Al Maliki che molte tribù irachene sunnite avevano dovuto sposare le milizie jihadiste.

Purtroppo i curdi, nonostante il loro coraggio e il sacrificio di molte vite, non possono fare più di tanto contro nemici ben armati perché a loro è impedita la fornitura di armi particolarmente sofisticate e di mezzi di artiglieria. Tutti i governi occidentali, infatti, continuano a rifiutare di consegnare loro alcuni degli armamenti necessari e ogni fornitura deve avere il beneplacito di Baghdad. Anche se Paesi come l'Italia, la Francia, la Gran Bretagna e, recentemente, l'Ungheria forniscono istruttori militari e la Germania missili anticarro efficientissimi denominati Milan (fosse così forte anche la squadra di calcio omonima, i tifosi ne sarebbero soddisfatti), tutti temono che un equipaggiamento d'attacco troppo completo possa spingere i curdi, una volta eliminato il pericolo terrorista, a usare quelle armi contro l'esercito di Baghdad per cercare di conquistare l'indipendenza. La paura che sta dietro queste scelte è che il modificare i confini in Iraq possa aprire una serie di rivendicazioni da sconvolgere gli equilibri in tutta la regione.

Questa prudenza è tuttavia esagerata per vari motivi, sia pratici sia politici. Innanzitutto, come già detto, il pericolo terrorista è lungi dall'essere eliminato e la capacità offensiva dei militanti di Al Baghdadi è ancora troppo forte e non dotare i peshmerga di tutti i tipi di armi necessarie riduce la loro possibilità di sferrare colpi definitivi. Una capace artiglieria in loro possesso sarebbe di grande aiuto all'azione che già svolgono i bombardamenti aerei e preparerebbe i terreni all'avanzata delle truppe di terra, fattore indispensabile per la riconquista di territori e villaggi ancora occupati dal nemico.

Anche politicamente, però, nonostante sia vero che la stragrande maggioranza dei curdi, sia in Iraq sia nei Paesi vicini, auspichi la nascita di uno stato curdo indipendente, i dirigenti politici di Erbil sanno benissimo come questo sogno sia poco praticabile nelle condizioni date. Essi sono consci che sia l'Iran sia la Turchia non accetterebbero mai di buon grado la loro indipendenza perché questa diventerebbe un polo di attrazione per i milioni di curdi turchi e iraniani e favorirebbe spinte indipendentiste anche dentro gli altri attuali confini. Se veramente il Presidente Massoud Barzani e il primo ministro Nechirvan pensassero davvero di voler conquistare militarmente l'indipendenza si troverebbero a dover affrontare non solo l'esercito iracheno ma anche, in modo più o meno trasparente, le forze armate di Iran e di Turchia. Troppo, anche per i più sconsiderati indipendentisti.

Ma non basta: per sopravvivere, il Kurdistan, che non ha sbocchi al mare, ha bisogno di avere buoni rapporti con almeno uno degli Stati confinanti, unico modo per garantirsi il transito di merci in entrata e di gas e petrolio in uscita. E' per questo che Erbil ha sempre fatto di tutto per avere ottimi rapporti con Iran e Turchia. Quest'ultima, dal canto suo, ha un triplice interesse a buone relazioni con il Kurdistan iracheno. Oltre a rappresentare per la propria economia una voce importantissima per i commerci e per gli investimenti (le esportazioni in Kurdistan nel 2015 sono stimate attorno ai venti miliardi di dollari), Erdogan ha bisogno dell'azione pacificatrice, o almeno moderatrice, che i Barzani, grazie e il loro prestigio, possono svolgere sui curdi di Turchia.Inoltre il gas e il petrolio curdo, sia come forniture che in transito, rappresentano una delle importanti diversificazioni energetiche di Ankara.  

Non si può certo dire che tra i due paesi ci sia una profonda fiducia reciproca ma, fino a che l'interesse economico sarà superiore alla diffidenza che nutrono l'uno per l'altro, la relazione resterà ottimale.

I turchi hanno furbamente lasciato che qualche loro esponente politico (non di primissimo piano) rilasciasse qualche dichiarazione possibilista su un Kurdistan indipendente ma questo era utile soprattutto per acquisire qualche simpatia supplementare tra le popolazioni curde e per lanciare indiretti avvertimenti a Baghdad e Teheran all'interno della non dichiarata lotta per l'egemonia regionale.

Anche se quelle dichiarazioni hanno solleticato gli animi di molti patrioti curdi, i Barzani sanno bene che una loro possibile, e improbabile, indipendenza favorita dalla Turchia potrebbe verificarsi solo con la contemporanea accettazione di una sorta di "protettorato" da parte di Ankara e ciò significherebbe passare dalla padella alla brace. Perché sostituire una dipendenza lasca da Baghdad con una molto più stringente con i vicini turchi? Come ebbe a dire in una passata intervista il Presidente Barzani: "Uno Stato curdo è il nostro sogno e non ci si può impedire di sognare ma noi oggi siamo una regione dell'Iraq e rispettiamo la Costituzione". In altre parole, i sogni restano sogni e la realtà non sempre vi può corrispondere. Anche se la retorica locale e un referendum consultivo affermano la volontà curda di avere un proprio Stato, nessuno nel Kurdistan iracheno immagina di voler ingaggiare una guerra per ottenerlo.

Ciò che però potrebbe scongiurare nello stesso tempo il rischio di ridisegnare tutti i confini in Medio Oriente e accontentare, almeno in parte, i "sogni" senza creare nuovi conflitti esiste: una volta definitivamente sconfitto il terrorismo nella regione, prendendo atto delle profonde fratture createsi fra tribù sunnite e sciite e non dimenticando che l'Iraq è solo uno Stato creato a tavolino dagli ex-colonizzatori, si potrebbe pensare a dar vita a una locale Confederazione che sostituirebbe l'attuale Federazione. L'unita' del Paese rimarrebbe e ogni parte etnica e religiosa ne uscirebbe valorizzata senza più conflittualità con le altre.

 
Mario Sommossa

 

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