martedì 29 ottobre 2013

La vera storia del rapimento di Giuliana Sgrena e dell’uccisione di Nicola Calipari


cover-Sgrena

“No, le cose non sono andate come vi hanno raccontato. Lo hanno mandato a morire…”

Sulla liberazione di Giuliana Sgrena e l’uccisione di Nicola Calipari c’è un’altra verità. Imbarazzante per il nostro governo (siamo nel 2005 Ndr) e, ancor piu’ per gli Americani. Mister X (un superagente italiano dei servizi antiterrorismo) tormenta un paio di occhialini rotondi in stile Ghandi. E snocciola la sua ricostruzione di quanto è accaduto nella notte di venerdì quattro marzo a Baghdad, con rabbia malcelata.

La sequenza è da thriller cinematografico.

Un gippone nero blindato con i vetri oscurati percorre Al-Janub Street. A bordo quattro uomini, agenti segreti armati, e una donna bendata e assopita. L’automobile prosegue decisa in un buio che fa paura.

Destinazione: aeroporto internazionale di Baghdad. Ma qualcosa o qualcuno cambia il programma. Il gippone si ferma. La donna, tra voci concitate, viene fatta scendere e consegnata a un altro uomo che la fa salire a bordo di una Toyota senza vetri blindati. Giuliana Sgrena si accomoda dietro, in mezzo a due funzionari, uno dei quali è Nicola Calipari. Davanti ci sono l’autista, maggiore dei carabinieri, e un quarto agente. La Toyota riparte con i cinque passeggeri. Poco dopo, gli spari che uccidono il funzionario del Sismi, colpiscono il carabiniere e feriscono la giornalista del Manifesto, liberata dopo un mese di sequestro. Sono le ultime fasi di un film vero e tragico. Gli ultimi minuti di vita del poliziotto Nicola Calipari, lo 007 di 52 anni in corsa per diventare capo del Sismi, il servizio segreto militare oggi (2005) diretto dal generale della Guardia di Finanza Nicolò Pollari.


Mister X conosceva bene Calipari. E io conosco bene lui. Mister X racconta «la fine di un’ ottima persona» con il solo vincolo di non citare il suo nome. Più per ragioni d ‘ufficio che per paura di essere riconosciuto. E’ uno dei responsabili del servizio antiterrorismo della Nato istituito dopo l’attentato alla stazione Atocha di Madrid che costò la vita a più di duecento persone l’11 marzo 2004. È giovane, vive nel nord Italia anche se a casa ci sta poco. Durante l’operazione Sgrena, ha seguito passo dopo passo i suoi uomini che hanno organizzato operativamente la liberazione della giornalista.

Il nostro incontro avviene in un bar alla periferia di una grande città. «Gli agenti che sono andati a prenderla sono del mio dipartimento e operano da due anni in Iraq»: è molto arrabbiato per come sono andate le cose, per un dramma che forse si poteva evitare e per quello che è stato detto e scritto sui cinque minuti di follia che sono costati la vita a Calipari. La sua versione dei fatti, sottolinea, non è peraltro incompatibile con gran parte di quanto ha riferito la Sgrena in prima persona: il racconto della prigionia e del rilascio scritto sul Manifesto dove, per esempio, descrive il suo passaggio, bendata, da un’auto a un’altra. La storia che ci racconta Mister X comincia da una drammatica riunione romana che contraddice quanto affermato da Berlusconi e ancor più decisamente da Fini …

«Cinque milioni di euro. Sono usciti dalle casse riservate della Presidenza della repubblica. Però ai rapitori ne sono arrivati 3,2. Sì, 3,2, anche se nei verbali c’è scritto cinque, glielo dico con certezza. Mi chiederà dove sono finiti gli altri, che strade hanno preso un milione e ottocento mila euro, più di tre miliardi e mezzo delle vecchie lire. Questo non glielo posso dire perché non ho le prove. Ho le prove, invece, del fatto che abbiamo consegnato denaro ai terroristi. Un paradosso no? Fanno gli attentati organizzandosi con i soldi dei servizi segreti dei paesi contro cui mettono le bombe. Mah! Eppure eravamo a un passo dal decidere di fare un blitz. I miei erano in grado di liberare Giuliana Sgrena senza pagare un euro di riscatto. Invece nell’ultima riunione a Roma, una riunione un po’ concitata con il Sismi e altre autorità, è prevalsa la linea di pagare. Qualcuno ha chiesto anche un contributo all’ambasciata americana, che . però questa volta non ha tirato fuori un centesimo. A differenza di quanto è successo con le due Simona». Gli ordini sono ordini.

«Abbiamo studiato il piano. Dopo infinite discussioni siamo arrivati a questo: i miei uomini dovevano prelevare la Sgrena e consegnarla al dottor Nicola Calipari e a un funzionario della Cia all’aeroporto di Baghdad. I sette chilometri di strada dovevano essere percorsi a bordo del nostro fuoristrada. I soldati americani di guardia ai tre check-point che dovevamo superare, corrispondenti ad altrettanti anelli di sicurezza antiterrorismo e antiterroristi, erano informati del passaggio della nostra macchina.

Invece tra il secondo e il terzo anello, in una delle zone che noi stessi avevamo segnalato come tra le più pericolose, veniamo fermati dal dottor Calipari che ci chiede di consegnargli la giornalista. l ragazzi gli dicono fino a dopo il terzo chek-point è molto pericoloso. Temono un attentato e poi gli americani non avrebbero riconosciuto l’auto. Alla fine, però, obbediscono a quello che era comunque un ordine.

Giuliana Sgrena sale a bordo della Toyota dove, come da protocollo militare, ci sono, oltre a Calipari, altri tre agenti. Due davanti e due dietro (in realtà secondo alcune indiscrezioni il quarto uomo dietro sarebbe stato un terrorista ferito). La Sgrena si siede dietro, in mezzo tra Calipari e un altro funzionario dei servizi segreti. Cinque, erano in cinque su quella maledetta macchina. E io parlo solo se ho le prove».

Che cosa sia successo esattamente poche centinaia di metri dopo, al check point volante dove avviene la sparatoria, lo stabilirà l’inchiesta congiunta italo-americana (Invece no).

Tuttavia, le fonti interne ai servizi accreditano fortemente la tesi dell’incidente. In quelle ore, spiegano, si attendeva il passaggio del convoglio blindato di John Negroponte, lo “zar” americano in Irak. Lo stato era di massima allerta. È probabile che i marines abbiano aperto il fuoco convinti che quella Toyota solitaria e senza insegne fosse un’autobomba.

Ma il mistero è un altro.

Perché le autorità italiane decidono di trasportare la Sgrena all’aeroporto in tutta fretta anziché farle trascorrere la notte in ambasciata per poi viaggiare di giorno, in condizioni di sicurezza?
E ancora: perché avviene il trasbordo non programmato dal gippone blindato a una macchina senza alcuna difesa?

La spiegazione delle gole profonde concorda: da qualche tempo gli americani avevano acceso un riflettore sull’attività professionale di Giuliana Sgrena. La sua passione pacifista, la sua posizione di ascolto nei confronti della dissidenza irachena, le sue critiche agli “occupanti”, le avevano guadagnato i sospetti delle autorità militari che, su di lei, pare avessero aperto addirittura un dossier.

Sospetti che la Cia, ben cosciente delle posizioni assunte dalla sinistra italiana, non condivideva ma che vengono rafforzati presso la polizia militare dalle circostanze del rapimento. La Sgrena, infatti, è sequestrata il venerdì (!!!) all’uscita di una moschea dove si raccolgono i profughi di Falluja e dov’è stata ospite dell’Imam per alcune ore.

In più, si sa che gli italiani sono disposti a pagare, una prassi che il comando americano avversa fortemente.

Dopo la liberazione della giornalista - affermano le nostre fonti - i militari Usa avevano tutta l’intenzione di interrogarla e, in caso di rifiuto, erano disposti anche a un fermo. E questo sarebbe stato, ovviamente, un disastro d’immagine per le autorità italiane oltre che un ulteriore calvario per la giornalista.

Da qui la decisione di accelerare il ritorno della Sgrena in patria. Calipari è costretto a cambiare velocemente i suoi piani, fidando nella benevola collaborazione del responsabile Cia in aeroporto per raggiungere senza troppi intralci la scaletta dell’aereo dell’aereonautica in attesa.

Ma i marines all’ultimo check-point non sono informati di nulla.

E comunque non riconoscono l’auto.

Il convoglio italiano non raggiungerà mai la sua meta.

Un faro, appena un lampo.

Nessun avvertimento.

Dieci, dodici secondi di raffiche rabbiose (per coprire un solo, unico, colpo molto preciso su Calipari). Poi il buio. Un’altra notte di buio a Baghdad.


Marco Gregoretti


fonte: http://www.stampalibera.com/?p=67861#more-67861
 
 

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