Foto: EPA
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Scorrendo le 91 pagine della bozza della legge di stabilità presentata dal Governo, sorge spontaneo un pensiero: questa norma inserisce una nuova scriminante nel codice penale italiano? Se si legge tra le righe del disposto normativo, vi è infatti prescritto in modo inequivocabile il mandato di poter deliberatamente uccidere il ceto medio per ragion di Stato: di sopprimere cioè lentamente quella piccola e media borghesia che si è costituita con tenacia negli anni del boom economico e che sembra ormai assurta, insieme alle imprese, a principale nemico del Paese.
Tale legge di stabilità getta
nello sconforto anche i più ottimisti, perché la direzione che prende è
nuovamente quella di porre sulle spalle dei soliti noti, quelli che da
sempre tirano avanti la carretta del Belpaese, il peso di cinquant’anni
di disastri della classe politica italiana. Ma soprattutto perché decide
di non decidere, millantando tagli alle tasse e al costo del lavoro che
varranno, se va bene, una tazzina di caffè in più a fine mese, e se va
male, invece, la vendita di un appartamento frutto di anni di risparmi.
I
sedicenti governi del risanamento, quello di Monti e adesso quello di
Letta, hanno fallito. Non bisogna aspettare neppure l’avanzare della
Storia, perché lo attestano già i numeri. È uno scenario da default: i
ricavi dalla tassazione diretta sono diminuiti in luglio del 7%, il
rapporto deficit/Pil è maggiore del 3%, mentre il debito pubblico è ben
al di sopra del 130%. Il 15% del settore manifatturiero in Italia, il
più grande in Europa dopo quello tedesco (prima della crisi), è stato
distrutto: circa 32.000 aziende sono scomparse. Il prossimo anno, con
una manovra che - secondo le dichiarazioni ufficiali - dovrebbe
diminuire la pressione fiscale, la Cgia di Mestre ha valutato che si
pagheranno 4 miliardi di tasse in più.
La verità è
che manca una piattaforma politico-economica condivisa. E questo perché
il Governo si accanisce contro tutti per non scontentare nessuno. Non
potendo aprire ad una revisione del patto di stabilità, offre ai Comuni
la possibilità di innalzare la tassazione locale rischiando di aumentare
ancora di più la pressione fiscale; sbrana il risparmio fatto di
patrimonio e conti correnti inserendo norme scellerate su casa e banche;
offre una mancia a imprese e lavoratori, che dovranno invece
sobbarcarsi un rialzo dell’Iva che potrebbe provocare fino a 3,5
miliardi di euro in meno di entrate; confonde le pensioni d’oro regalate
con quelle regolarmente versate; danneggia gli imprenditori individuali
che si vedono scippati del Fondo anti Irap; mortifica i pensionati
bloccando l’indicizzazione delle pensioni. In poche parole accresce gli
effetti della crisi e candida questo Paese all’inferno della recessione
ancora per diversi anni. Sia ben chiaro che se le tasse non
diminuiscono, questo Paese il parametro del 3% di rapporto deficit/Pil
non lo raggiungerà mai.
Ma dove vuole andare l’Italia
esattamente? Il federalismo ha fallito, diciamocelo francamente. Perché
invece di diventare una occasione di efficienza è stato stuprato per
aumentare indiscriminatamente la spesa, addomesticare i centri di potere
locale e comprarsi il consenso. Con un paradosso: una sussidiarietà
sana avrebbe diminuito la fiscale diminuisce e aumentato la qualità dei
servizi. Da noi invece è avvenuto l’esatto contrario. Di spending review
meglio non parlare: è non pervenuta. Se ne continua a cianciare “per
sport”, ma ad oggi ha prodotto alcun risultato; e questo perché si è
totalmente incapaci di guardare a lungo termine e si cerca solo di
salvaguardare le rendite di posizione conquistate.
Basti pensare alla
difficoltà di trovare 4 miliardi di euro per cancellare l’Imu e alla
facilità estrema con cui si sono rintracciati 7 miliardi per salvare il
Monte dei Paschi di Siena. Le Province che continuano a vegetare
nell’attuale assetto istituzionale ne sono un altro emblema. Ci sono poi
i casi Alitalia, Telecom, Ilva, i quali dimostrano come manchi del
tutto un management all’altezza: oggi siamo in mano ai figli del ’68 e
ne apprezziamo i nefasti risultati; non a caso, per la scelta dei
dirigenti di queste imprese sono stati utilizzati anche parametri
politici.
Marco Fontana
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