martedì 22 ottobre 2013

Legge di stabilità, con licenza di uccidere il ceto medio

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Foto: EPA

 

Scorrendo le 91 pagine della bozza della legge di stabilità presentata dal Governo, sorge spontaneo un pensiero: questa norma inserisce una nuova scriminante nel codice penale italiano? Se si legge tra le righe del disposto normativo, vi è infatti prescritto in modo inequivocabile il mandato di poter deliberatamente uccidere il ceto medio per ragion di Stato: di sopprimere cioè lentamente quella piccola e media borghesia che si è costituita con tenacia negli anni del boom economico e che sembra ormai assurta, insieme alle imprese, a principale nemico del Paese.

Tale legge di stabilità getta nello sconforto anche i più ottimisti, perché la direzione che prende è nuovamente quella di porre sulle spalle dei soliti noti, quelli che da sempre tirano avanti la carretta del Belpaese, il peso di cinquant’anni di disastri della classe politica italiana. Ma soprattutto perché decide di non decidere, millantando tagli alle tasse e al costo del lavoro che varranno, se va bene, una tazzina di caffè in più a fine mese, e se va male, invece, la vendita di un appartamento frutto di anni di risparmi.

I sedicenti governi del risanamento, quello di Monti e adesso quello di Letta, hanno fallito. Non bisogna aspettare neppure l’avanzare della Storia, perché lo attestano già i numeri. È uno scenario da default: i ricavi dalla tassazione diretta sono diminuiti in luglio del 7%, il rapporto deficit/Pil è maggiore del 3%, mentre il debito pubblico è ben al di sopra del 130%. Il 15% del settore manifatturiero in Italia, il più grande in Europa dopo quello tedesco (prima della crisi), è stato distrutto: circa 32.000 aziende sono scomparse. Il prossimo anno, con una manovra che - secondo le dichiarazioni ufficiali - dovrebbe diminuire la pressione fiscale, la Cgia di Mestre ha valutato che si pagheranno 4 miliardi di tasse in più.

La verità è che manca una piattaforma politico-economica condivisa. E questo perché il Governo si accanisce contro tutti per non scontentare nessuno. Non potendo aprire ad una revisione del patto di stabilità, offre ai Comuni la possibilità di innalzare la tassazione locale rischiando di aumentare ancora di più la pressione fiscale; sbrana il risparmio fatto di patrimonio e conti correnti inserendo norme scellerate su casa e banche; offre una mancia a imprese e lavoratori, che dovranno invece sobbarcarsi un rialzo dell’Iva che potrebbe provocare fino a 3,5 miliardi di euro in meno di entrate; confonde le pensioni d’oro regalate con quelle regolarmente versate; danneggia gli imprenditori individuali che si vedono scippati del Fondo anti Irap; mortifica i pensionati bloccando l’indicizzazione delle pensioni. In poche parole accresce gli effetti della crisi e candida questo Paese all’inferno della recessione ancora per diversi anni. Sia ben chiaro che se le tasse non diminuiscono, questo Paese il parametro del 3% di rapporto deficit/Pil non lo raggiungerà mai.

Ma dove vuole andare l’Italia esattamente? Il federalismo ha fallito, diciamocelo francamente. Perché invece di diventare una occasione di efficienza è stato stuprato per aumentare indiscriminatamente la spesa, addomesticare i centri di potere locale e comprarsi il consenso. Con un paradosso: una sussidiarietà sana avrebbe diminuito la fiscale diminuisce e aumentato la qualità dei servizi. Da noi invece è avvenuto l’esatto contrario. Di spending review meglio non parlare: è non pervenuta. Se ne continua a cianciare “per sport”, ma ad oggi ha prodotto alcun risultato; e questo perché si è totalmente incapaci di guardare a lungo termine e si cerca solo di salvaguardare le rendite di posizione conquistate. 

Basti pensare alla difficoltà di trovare 4 miliardi di euro per cancellare l’Imu e alla facilità estrema con cui si sono rintracciati 7 miliardi per salvare il Monte dei Paschi di Siena. Le Province che continuano a vegetare nell’attuale assetto istituzionale ne sono un altro emblema. Ci sono poi i casi Alitalia, Telecom, Ilva, i quali dimostrano come manchi del tutto un management all’altezza: oggi siamo in mano ai figli del ’68 e ne apprezziamo i nefasti risultati; non a caso, per la scelta dei dirigenti di queste imprese sono stati utilizzati anche parametri politici.

Manca, in conclusione, il coraggio di rompere gli schemi attuali e di ridisegnare insieme l’Italia. Ripartendo da zero. Per farlo però è necessario sapere la rotta da intraprendere: ad oggi, invece, i nostri capitani sembrano privi di radar, aggrappati alle scialuppe di salvataggio, aspettando che l’iceberg colpisca il Titanic.
 
Marco Fontana 
 

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