mercoledì 1 aprile 2015

Il controllo del pensiero (Jiddu Krishnamurti)


Era stato educato all’estero, disse, e aveva ricoperto una carica importante all’interno del governo; ma più di vent’anni or sono aveva deciso di lasciare lavoro e pratiche terrene per trascorrere in meditazione i giorni che gli restavano.

«Ho praticato molti metodi diversi di meditazione,» disse «fino a raggiungere il controllo completo dei miei pensieri, e questa conquista ha portato con sé determinati poteri e forme di dominio su me stesso. Ciò nonostante, un mio amico mi ha portato ad assistere ad alcune delle tue conversazioni in cui tu rispondevi a una domanda sulla meditazione, dicendo che generalmente, per come è praticata, essa è solo una forma di autoipnosi, una semplice coltivazione di desideri proiettati da noi stessi, anche se sofisticata. Mi ha colpito al punto da ricercare questa conversazione con te; e considerando che ho dedicato la mia vita alla meditazione, spero che potremo approfondire l’argomento. Vorrei innanzitutto spiegare il mio percorso di crescita. Mi resi conto da tutto ciò che avevo letto che la priorità era diventare completamente padroni dei propri pensieri. E questo era molto difficile per me: la concentrazione nel mio lavoro era qualcosa di totalmente differente dallo stabilizzare la mente e imbrigliare l’intero processo del pensiero. Secondo alcuni testi, bisognava tenere saldamente in mano le redini del pensiero, poiché esso non sarebbe stato sufficientemente affinato per penetrare nelle molte illusioni fino a che non fosse stato controllato e diretto; perciò questo fu il mio primo impegno e obiettivo.»

Posso chiederti, senza interrompere la tua narrazione, se il controllo del pensiero è davvero il primo impegno?

«Ho sentito quello che hai detto nelle tue conversazioni sulla concentrazione, ma se posso preferirei descrivere il più possibile la mia intera esperienza e dopo cercare di analizzare alcune questioni di vitale importanza connesse con la mia esperienza.»

Come vuoi.

«Sin dall’inizio non ero soddisfatto della mia occupazione, ed è stato dunque abbastanza facile abbandonare una promettente carriera. Avevo letto tantissimi libri sulla meditazione e la contemplazione, inclusi gli scritti di molti mistici, sia orientali sia occidentali, e mi sembrava ovvio che il controllo del pensiero fosse il traguardo più importante. Richiedeva però uno sforzo considerevole, convinto e risoluto. Mentre progredivo nella meditazione ebbi molte esperienze: visioni di Krishna, di Cristo, e di alcune delle divinità indù. Diventai chiaroveggente e incominciai a leggere nei pensieri della gente, e acquisii certi altri siddhis o poteri yogici. Passai di esperienza in esperienza, da una visione, con il suo significato simbolico, a un’altra, dalla disperazione all’esperienza del più alto splendore. Conobbi l’orgoglio del conquistatore, di colui che è padrone di se stesso. (‘‘ascetismo, la padronanza di sé donano un senso di potere e alimentano vanità, forza e fiducia in se stessi: io ero nella ricca pienezza di tutto ciò. Anche se avevo sentito parlare di te da molti anni, l’orgoglio dei miei traguardi raggiunti mi aveva sempre impedito di venire ad ascoltarti; ma il mio amico, un altro sannyasi, insistette che dovevo assolutamente farlo, e quello che ho sentito mi ha turbato. E pensare che credevo di essere ormai oltre qualsiasi turbamento! In breve, questa è la storia del mio percorso nella meditazione. Tu hai detto nelle tue conversazioni che la mente deve andare oltre tutta l’esperienza, altrimenti resta imprigionata nelle sue stesse proiezioni, nei suoi desideri e nelle sue ricerche, e fui profondamente sorpreso quando riconobbi che la mia mente era intrappolata in queste stesse cose. Essendone consapevole, come può la mente abbattere le mura di una prigionia che essa stessa si è costruita? Ho sprecato questi miei ultimi vent’anni? Ho semplicemente vagato nell’illusione?»

Parleremo più tardi di quale sia l’azione che dovrà essere fatta; ma consideriamo ora, se vuoi, il controllo del pensiero. Il controllo è necessario? È benefico o dannoso? Molti maestri religiosi hanno indicato come passaggio primario il controllo del pensiero, ma hanno ragione? Chi è colui che controlla? Non è una parte dello stesso pensiero che cerca di controllare? Può riferirsi a se stesso come a un’entità separata, diversa, altra dal pensiero, ma non è invece il risultato del pensiero? Sicuramente, il controllo implica l’azione coercitiva della volontà per soggiogare, sopprimere, dominare, costruire una resistenza contro quello che non è desiderato.

In questo intero processo c’è un grandissimo, penoso conflitto, non sei d’accordo? E qualcosa di buono può forse scaturire e provenire dal conflitto?


La concentrazione nella meditazione è una forma di miglioramento egocentrico: enfatizza l’azione all’interno dei confini del sé, dell’io, del «me». La concentrazione è un processo di riduzione del pensiero: sei come un bambino tutto preso dal suo giocattolo. Il giocattolo, l’immagine, il simbolo, la parola arrestano i vagabondaggi senza posa della mente, e un tale assorbimento è chiamato concentrazione. La mente viene controllata dall’immagine, dall’oggetto, esteriori o interiori. L’immagine o l’oggetto assumono allora un’importanza fondamentale, e non più la comprensione della mente. La concentrazione su qualcosa è relativamente facile: il giocattolo assorbe la mente, ma non la libera, dandole la possibilità di esplorare, di scoprire cosa ci sia, ammesso che ci sia qualcosa, oltre le sue stesse frontiere.

«Ciò che stai dicendo è così diverso da quello che uno legge o che gli è stato insegnato, ma comunque mi sembra vero e sto iniziando a comprendere le implicazioni del controllo. Ma come può la mente raggiungere la libertà senza disciplina?»

La soppressione e la conformità non sono passaggi che conducono alla libertà: il primo passo da fare verso la libertà è la comprensione dei legami, del condizionamento. La disciplina imbriglia il comportamento e plasma il pensiero entro un desiderato modello, ma senza la comprensione del desiderio, il semplice controllo e la disciplina travisano il pensiero; laddove, quando esiste una consapevolezza delle modalità del desiderio, questa porta invece ordine e chiarezza. Prima di tutto, la concentrazione è la via del desiderio. Un uomo d’affari è concentrato perché vuole ammassare ricchezza e potere, e quando un altro è concentrato nella meditazione, anch’egli sta ricercando una realizzazione, una ricompensa: entrambi stanno perseguendo il successo, che regala fiducia e stima in se stessi e la sensazione di sentirsi al sicuro. E così, non pensi?

«Ti sto seguendo.»

La pura e semplice comprensione verbale, che altro non è se non cogliere a livello intellettuale ciò che è stato detto, ha ben poco valore, non sei d’accordo? Il fattore liberatorio non è mai una pura e semplice comprensione verbale, ma la percezione della verità o della falsità della questione. Se noi riuscissimo a comprendere le implicazioni della concentrazione e a vedere il falso come falso, allora ci sarebbe la libertà dal desiderio di realizzare, sperimentare, diventare. Da questo proviene l’attenzione, che è completamente diversa dalla concentrazione. La concentrazione implica un duplice processo, una scelta, uno sforzo, giusto? C’è l’autore dello sforzo e il fine verso cui lo sforzo è diretto; perciò la concentrazione rafforza l’ io», il sé, l’ego in quanto autore dello sforzo: il conquistatore, il virtuoso. Ma nell’attenzione questa attività dualistica non è presente; c’è un’assenza dello sperimentatore, di colui che accumula, immagazzina e reitera. In questo stato di attenzione il conflitto della realizzazione, dell’ottenimento e la paura del fallimento sono cessati.

«Ma sfortunatamente non tutti noi siamo benedetti da questo potere dell’attenzione.»

Non è un dono, non è una ricompensa, una cosa che debba essere acquistata attraverso la disciplina, la pratica e altro: arriva in essere con la comprensione del desiderio, che è la conoscenza di sé. Questo stato di attenzione è il bene, l’assenza del sé.

«Ma allora tutti i miei sforzi e la disciplina di questi anni non sono stati altro che una completa perdita di tempo e non hanno alcun valore? E pur facendo questa domanda, sto incominciando a rendermi conto della verità della questione. Vedo ora che per oltre vent’anni ho perseguito una via che ha inevitabilmente condotto a una prigione che mi sono creato da solo e in cui ho vissuto, sperimentato e sofferto. Piangere sul passato significa indulgere nell’autocommiserazione, e invece bisogna ricominciare con spirito rinnovato. Ma cosa mi dici di tutte le visioni e le esperienze che ho vissuto? Anch’esse erano false, senza alcun valore?»

La mente non è una sorta di enorme magazzino di tutte le esperienze, le visioni e i pensieri dell’uomo? La mente è il risultato di molte migliaia di anni di tradizione ed esperienza; è capace di invenzioni fantastiche, dalla più elementare alla più complessa e sofisticata; è capace di straordinarie delusioni o di incredibili percezioni e intuizioni. Le esperienze e le speranze, le angosce, le gioie e la conoscenza, collettive o individuali, accumulate nel corso del tempo, sono tutte li, immagazzinate negli strati più profondi della coscienza, e ognuno di noi può rivivere le esperienze e le visioni ereditate o acquisite. Dicono che certe droghe possano portare chiarezza, una visione delle profondità e delle altezze, che possano liberare la mente dai suoi turbamenti, donando una grande energia e una lucida introspezione. Ma la mente può viaggiare attraverso tutti questi passaggi oscuri e nascosti per arrivare alla luce? E quando attraverso uno qualsiasi di questi mezzi arriva veramente alla luce, si tratta della luce dell’eterno? O è la luce del conosciuto, del riconoscimento, un’esperienza nata dalla ricerca, dalla lotta, dalla speranza? Bisogna per forza passare attraverso questo processo estenuante per trovare ciò che non è misurabile, l’incommensurabile? Non potremmo invece evitare tutto questo e arrivare direttamente a quello che si chiama amore? Dal momento che hai avuto visioni, poteri, esperienze, che cosa mi dici?

«Mentre li vivevo, naturalmente pensavo che fossero importanti e significativi; mi donavano un senso soddisfacente di potere, e una certa felicità per le realizzazioni gratificanti. Quando i poteri arrivano, danno una grande fiducia e sicurezza, una sensazione di padronanza su di sé in cui è presente un intenso orgoglio. Dopo che abbiamo parlato di tutto questo, non sono sicuro che le visioni e le esperienze che ho vissuto abbiano più questo grande significato, anche se prima mi sembrava lo avessero. Sembrano come scemare e allontanarsi nella luce della mia nuova comprensione.»

Si deve passare attraverso tutte queste esperienze? Sono necessarie per spalancare le porte dell’eterno? Non possono essere evitate? Prima di tutto, ciò che è essenziale è la conoscenza di sé, che porta a una mente immobile e silente. Una mente immobile e silente non è il prodotto della volontà, della disciplina, delle varie pratiche per soggiogare il desiderio; pratiche e discipline non fanno altro che rafforzare il sé, e la virtù diventa allora un’altra roccia su cui il sé può costruire una casa di importanza e rispettabilità. La mente deve invece essere vuota dal conosciuto affinché l’inconoscibile possa essere e rivelarsi. Senza la comprensione delle vie del sé, la virtù incomincia a rivestirsi di importanza; perciò, è necessario che il movimento del sé, con la sua volontà e il suo desiderio, la sua ricerca e la sua accumulazione, debba interamente cessare. Solo allora l’eterno, il senza tempo, potrà palesarsi e disvelarsi: non può essere evocato. La mente che cerca di evocare il reale attraverso varie pratiche, discipline, preghiere e atteggiamenti e comportamenti, può solo ricevere le proprie proiezioni gratificanti, ma non saranno il reale.

«Ora percepisco, dopo tutti questi anni di ascetismo, disciplina e automortificazione, che la mia mente è tenuta prigioniera dalle sue stesse creazioni, e che le mura di questa prigione vanno abbattute. Come si può fare?»

La semplice consapevolezza che vadano abbattute è già abbastanza. Una qualsiasi azione per abbatterle non farà altro che mettere in moto il desiderio di realizzare, di ottenere, e quindi innescherà il conflitto degli opposti, lo sperimentatore e l’esperienza, il ricercatore e la ricerca.

Vedere il falso in quanto falso, in se stesso è già abbastanza, poiché la vera percezione libera la mente dal falso.


Jiddu Krishnamurti


Da: Il silenzio della mente (Mondadori ed.)

fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/krishnamurti/ilcontrollo.htm  

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