Le implicazioni legali del decreto di Obama che definisce il Venezuela una “minaccia inusuale e straordinaria” esprimono nella forma più pura il colonialismo imperialista che ha caratterizzato la politica estera USA
Seguendo la solita prassi degli antichi
(e decadenti) imperi, Barack Obama ha sottoposto all’approvazione del
Congresso un decreto legge – come se fosse argomento di politica interna
– che definisce il Venezuela una minaccia per la sicurezza interna
degli USA. Ciò dà fondamento ad una linea di azioni legali che
sottintendono un giudizio sul Venezuela, come la Legge per la Protezione
dei Diritti Umani e la Società Civile, presentata da Robert Menéndez e
approvata dal Congresso americano grazie al sostegno di Marco Rubio e
Ileana Ross-Lehtinen, due instancabili lobbisti del fascismo
nell’America Latina.
Al fine di “attuare” il suddetto Decreto
legge del 2014, Obama lo scatena contro il Venezuela, riadattando
decreti che erano stati inizialmente concepiti in situazioni piuttosto
differenti, come quella della Siria. Uno di questi era il famoso Fondo
per l’Alleanza Contro il Terrorismo, proposto da Obama in un discorso
sulla politica estera, tenuto a West Point a giugno 2014. In quella
circostanza avanzò al Congresso la richiesta di stanziare un miliardo e
mezzo di dollari per una “Iniziativa di Stabilizzazione Regionale” per
il Medio Oriente, per sostenere “l’opposizione siriana” che “stava
combattendo contro la tirannia” di Assad.
Definendo il Venezuela una “minaccia”
che costituisce un “pericolo immediato” per la sicurezza della regione
e, quindi, per gli Stati Uniti, Obama, inquadrando il suo discorso con
la terminologia della guerra di quarta generazione, sostiene di avere un
“nemico visibile” e una “minaccia credibile”. Questa è una delle
formulazioni utilizzate dal governo USA quando cerca sostegno pubblico
per le proprie iniziative.
La campagna anti-Venezuela, con la sua
manipolazione demonizzatrice dell’opinione pubblica americana e
mondiale, ha raggiunto questo livello estremo: la criminalizzazione del
Paese, la dichiarazione che sia una minaccia, una questione di
“altissima sicurezza nazionale” per gli USA, dà fondamento legale ad
altre azioni che sicuramente gli USA intraprenderanno.
Perché un decreto d’emergenza
Secondo i parametri del diritto
internazionale e della legislazione USA, un decreto d’emergenza
rilasciato dall’esecutivo è a tutti gli effetti un assegno in bianco che
gli consente di fare qualunque cosa necessaria all’eliminazione della
supposta minaccia oggetto del decreto. Nella normale operatività
quotidiana della politica estera, le decisioni dell’esecutivo sono
sempre sottoposte all’approvazione del Congresso; non nel caso di
un’”emergenza” che richiede “azioni immediate”.
Un esempio di questa legislazione è
stato la legge firmata da Obama nel settembre 2014, che autorizzò il
Pentagono ad addestrare e armare i ribelli siriani “nella battaglia
contro lo Stato Islamico” che è stato, come si è ben capito, anche un
tentativo di rovesciare il governo di Bashar el-Assad, anche lui
considerato una “minaccia” per gli Stati Uniti. Il modo in cui
assicurare la copertura finanziaria per questa decisione, si ritrova in
un decreto legge del 2011, per mezzo del quale il Congresso autorizzò
Obama ad agire al fine di conservare “la pace nel Medio Oriente” in un
momento in cui la situazione in Siria stava iniziando a surriscaldarsi e
la Libia era già in fiamme. Questa legge era parte del cosiddetto
“Piano di Sicurezza Omnicomprensivo” per il Medio Oriente, in sostanza
una strategia USA per assicurare stabilità politica nelle regioni ricche
di fonti d’energia, rovesciando “regimi autoritari” e proseguendo nella
“Guerra Contro il Terrorismo”.
Thomas Sparrow, corrispondente della BBC
a Washington, ha affermato: “Quando il Presidente firma un ordine
esecutivo, dichiarando che ci si trova in uno stato d’emergenza, ottiene
dei poteri speciali che gli consentono, per esempio di imporre sanzioni
o congelare investimenti”. Il governo americano ammette di avere tra
venti e i trenta di questi programmi sanzionatori, basati su simili
dichiarazioni d’emergenza e formulati in un linguaggio dello stesso
genere di quello impiegato per il Venezuela. Negli ultimi anni gli USA
hanno dichiarato lo stato di emergenza in svariati paesi, tra cui
Ucraina, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Yemen, Libia e Somalia;
stati con cui Washington ha, o ha avuto, rapporti difficili.
In Libia e Siria sono state comminate
sanzioni contro esponenti governativi e parenti di Gheddafi e Assad
rispettivamente. Ma le sanzioni tendenzialmente sono progressive e sono
mantenute finché non hanno raggiunto il loro scopo. Le sanzioni iniziali
in genere sono seguite da nuove sanzioni, implementate per “consolidare
i risultati delineati nelle sanzioni iniziali”. Il regime sanzionatorio
spesso si trasforma in un embargo militare ed economico a pieno titolo,
aprendo la via a nuove azioni legali grazie alle quali gli Stati Uniti
sostengono apertamente gruppi paramilitari e mercenari, che hanno
fomentato (e tutt’ora continuano a fomentare) guerre civili prolungate
in quei paesi.
La questione dei “diritti umani” viene
sbandierata in un tentativo di giustificare le azioni contro il
Venezuela, così come era stata precedentemente utilizzata per
giustificare i “bombardamenti umanitari” sulla Libia e la fornitura di
armi ad Al Nusra, il ramo siriano di al-Qaeda, che stava attaccando le
forze governative di Bashar al-Assad.
Qual è lo scenario più probabile in Venezuela?
Le differenze tra Venezuela, Siria e
Libia sono enormi, ma un fattore è sempre il medesimo: l’atteggiamento
guerrafondaio degli Americani che per due secoli hanno progettato e
sviluppato ogni tipo di ricetta per guerre aperte o sotto copertura al
fine di produrre ciò che eufemisticamente chiamano “cambio di regime”.
La legislazione USA impone che l’esecutivo non possa richiedere
autorizzazione al Congresso per un intervento allo scoperto, a meno che
non ci sia una formale “dichiarazione di guerra o intervento”. Possiamo
pertanto escludere la possibilità di un’invasione del Venezuela da parte
delle forze armate regolari americane. Non esiste nella regione il
consenso per un’operazione di questo genere: il Venezuela non è solo.
Nel caso del Venezuela, ciò che possiamo
vedere sono nuove sanzioni diplomatiche ed economiche unilaterali,
dirette non solo contro alcuni specifici esponenti del governo, bensì
contro l’intero spettro politico/economico in un tentativo di provocare
l’implosione della sua economia e delle sue istituzioni.
Le sanzioni USA
tendenzialmente sono “progressive”: nel momento in cui le sanzioni
contro funzionari governativi non producono il “cambio di regime”
desiderato, vengono scartate come “inefficaci” e sono seguite da nuove e
più severe sanzioni fino alla totale asfissia della nazione a al
conseguente “cambio di regime”.
Un altro possibile sviluppo potrebbe
essere l’applicazione al Venezuela della strategia impiegata con la
Siria: la generazione di una guerra civile violenta e prolungata
finalizzata all’ottenimento del “cambio di regime”. In effetti è già
iniziato, il conflitto paramilitare-guarimbero a bassa intensità è
iniziato nel 2014. Il precedente per questo genere di intervento è la
guerra sotto copertura contro la rivoluzione sandinista in Nicaragua,
condotta dai paramilitari “Contras” negli anni ottanta.
Potrebbe accadere solo a condizione di
una guerra fratricida in Venezuela, che gli USA siano in grado di
innalzare il livello del loro intervento, giustificando le loro azioni
col fine di “conservare la pace nella regione”.
Per arrivare allo scontro diretto, gli
USA potrebbero perfino approvare decreti legge che consentono alla Casa
Bianca di operare a favore della controrivoluzione venezuelana,
sostenendo i fascisti, come ha fatto con le formazioni salafite che
stavano tentando di prendere Damasco. Grazie alla permeabilità del
confine colombiano/venezuelano, formazioni paramilitari sono già
infiltrate nel Venezuela, producendo un ambiente favorevole per
attività di mercenari. Probabilmente gli USA stanno già pensando
seriamente a qualche provocazione che causerebbe un conflitto a larga
scala. Sfortunatamente per il pacifico Venezuela e per l’America Latina,
tutti i giornalisti e tutti gli indicatori economici, politici e
militari puntano verso un risultato di questo genere.
I fattori politici favorevoli a un
intervento in Venezuela stanno raggiungendo il culmine, sia dentro, sia
fuori dal Paese. I fattori internazionali potrebbero avere un’influenza
considerevole sulla strategia e lo stile di comportamento imperiale.
Lo scenario politico interno in
Venezuela comincia a cambiare. Sin dal 2014, i senatori Democratici
hanno avvertito che sanzioni contro il Venezuela sarebbero state
“controproducenti” per l’opposizione venezuelana, così da causare forti
ritardi nella loro implementazione. Ma adesso non è più così. La destra
venezuelana ha perso un’altra porzione della sua già sottile base
politica in una tornata elettorale, facendo sì che il Dipartimento di
Stato USA gettasse sotto un autobus la leadership dell’opposizione
venezuelana, constatando che il 90% della popolazione (secondo uno
studio di Hinterlace pubblicato ai primi di marzo 2015) respingerebbe
l’intervento americano.
Dobbiamo chiederci, è logico credere che
lo spionaggio americano abbia trascurato questo dettaglio? Sarebbe
assurdo. Dunque, per quale motivo la Casa Bianca ha deciso di
distruggere la base politica dell’opposizione venezuelana? La risposta
dovrebbe essere ovvia: perché non crede più che uno scenario
elettorale-democratico sia una via percorribile per ottenere un cambio
di governo in Venezuela.
Ciò che potrebbe valutare – e molto
probabilmente è così – è un intervento USA sotto copertura, che
causi una guerra civile prolungata. E’ indifferente che un approccio di
questo genere trovi sostegno in Venezuela o meno. Sondaggi in Iraq nel
2003 hanno mostrato che l’87% della popolazione (compresi gli oppositori
di Saddam Hussein) rifiutava l’intervento americano, nonostante ciò,
l’intervento c’è stato, sotto la copertura di veri pretesti. Il secondo
in ordine di importanza – dopo quello delle supposte armi di distruzione
di massa – era la “liberazione di una popolazione soggiogata”. Dunque,
se l’opposizione della popolazione inizia a respingere l’intervento USA,
come hanno fatto i chavisti per 15 anni, sarà irrilevante; il
“ripristino della democrazia” in Venezuela come scusa, non è più nelle
mani dell’opposizione, è nelle mani di Obama.
Gli Stati Uniti hanno attraversato la
soglia dell’intervento a viso aperto contro la Rivoluzione Bolivariana,
nelle parole del presidente Nicolas Maduro: “Obama ha preso in carico
personalmente il compito di intervenire in Venezuela e rovesciarmi”.
L’ora decisiva è giunta.
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Articolo di Franco Vielma apparso originariamente su Mision Verdad il 10/03/2015
Traduzione a cura di Mario B. per SakerItalia.it
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