Il
numero cresce di continuo, visto che a fine dicembre ammontava a
2.169,9 miliardi, nonostante la tanto decantata lotta agli sprechi.
Qualcuno potrebbe obiettare che il debito — e con esso la spesa
pubblica — non sia di per sè un male, e ciò è sicuramente vero finché
non si tratta di qualità del debito e della spesa. Per esempio, se come
dice Teresa Tritch il Governo italiano perseguisse l'idea che lo Stato e l'impresa privata assumano insieme i rischi, godendo insieme dei benefici, non si avrebbe nulla da ridire.
D'altronde,
senza la spesa pubblica statale degli USA non si avrebbe l'approccio
così innovativo dell'Iphone di Steve Jobs e non esisterebbero Internet,
il Gps, lo schermo tattile e l'assistente vocale Siri: tecnologie
elaborate anche grazie a generose iniezioni di denaro pubblico a stelle e
strisce. Un altro esempio, guardando al nostro continente, è
rappresentato dalle politiche scandinave sulla maternità, grazie alle
quali i congedi arrivano fino a 16 mesi dopo la nascita dei figli e
coprono l'80% dello stipendio dei genitori.
Questa scelta ha portato con
sè un incremento della natalità: siamo ad una media di 1,8 nella
penisola scandinava contro l'1,58 dell'Europa e l'1,4 dell'Italia. Ed è
chiaro che con una bassa natalità aumenta il costo del welfare e si
registra un minore sviluppo del Paese, come ampiamente documentato da
illustri economisti. Questi esempi, pur molto diversi tra loro,
dimostrano come una spesa alta possa generare incrementi significativi
del Pil.
In
Italia la spesa e il debito conseguente non seguono le vie appena
citate. Si pensi che a fronte di un aumento del debito pubblico anche a
inizio anno, nel primo trimestre 2016 le nuove pensioni liquidate
dall'Inps sono state 95.381 con un calo del 34,5% rispetto allo stesso
periodo del 2015 (145.618). A indicarlo è l'Osservatorio Inps di
monitoraggio sui flussi di pensionamento, nel quale si ricorda come nel
2015 siano scattati l'aumento dell'aspettativa di vita (quattro mesi per
tutti) e i nuovi requisiti per le donne (passaggio da 63,9 anni a
65,7). Sono anche crollati gli assegni sociali (per gli anziani privi di
reddito o con redditi bassi) e i contributi, passati da 13.033 a 7.501
(-42,4%). In quest'ultimo caso il risultato viene dalle nuove regole
capestro adottate dal governo Renzi, che hanno modificato i criteri di
calcolo dell'Isee (indicatore della situazione economica equivalente):
una revisione che ha di fatto escluso dal welfare un 20% di italiani.
Alla faccia della litania recitata dal Governo sul fatto che non siano
aumentate le tasse.
Beh, anche se non mi aumenti le tasse a livello
nazionale (visto che a livello locale sono lievitate), ma mi escludi
dalle politiche di vantaggio, è come se me le aumentassi! D'altra parte,
come certifica l'Eurostat, nel Belpaese circa 7 milioni di persone sono
costrette a vivere con "gravi privazioni materiali" e questo nonostante
la piccola ma evidente ripresa economica che si è avuta nel mondo. A
dimostrazione del fallimento delle politiche renziane vi è la riduzione
della povertà in Europa: rispetto al 2014 nell'Ue il numero dei poveri è
sceso mediamente dello 0,8%, mentre in Italia solo dell'0,1%.
Il
problema reale è che questi dati dimostrano come l'incremento del
debito accumulato dall'attuale Governo non stia producendo alcun
miglioramento interno apprezzabile nè in termini di welfare nè di
sviluppo e sostegno del tessuto produttivo. Insomma, siamo di fronte a
una classe politica che sta confezionando la ricetta perfetta per il
fallimento sociale. Alla fine la Grecia, Paese le cui vicissitudini
hanno dato molto materiale ai media internazionali specialmente
in occasione del paventato Grexit, non sembra poi così distante. Nelle
parole dei leader dei corpi intermedi, che siano i partiti, i sindacati,
le rappresentanze datoriali o gli ordini professionali, si registra una
stanchezza diffusa. La rottamazione fine a sé stessa difficilmente
produce risultati migliori della gerontocrazia, quando essa prende linfa
dalla cooptazione familiare o partitica o di club elitari.
La Terza Repubblica sta fallendo, ma con essa
rischia di spezzarsi la tenuta sociale del Paese. Non si dovrebbero
sottovalutare gli effetti che si produrrebbero qualora si avverasse la
profezia di Boeri: la generazione nata negli anni ‘80 rischia di dover lavorare fino a 75 anni e prendere un assegno del 25% più basso rispetto ai pensionati di oggi.
Non ci vuole un genio per capire che il combinato disposto tra
l'eventuale cancellazione della pensione di reversibilità e
l'impoverimento dell'assegno potrebbe costituire una miscela esplosiva
che nessun governo riuscirebbe a contenere.
Marco Fontana
L'opinione dell'autore può non coincidere con la posizione della redazione.
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