“Che mondo è questo,
dove i fiori di loto vengono arati
e trasformati in campi.”
(Issa)
Quando
leggiamo che la nostra rappresentazione del mondo dipende dalle
concezioni che condividiamo con i nostri simili pensiamo che stia
parlando un filosofo indiano, ma questa affermazione è vera e questo
viene confermato sperimentalmente dagli studiosi. L’integrazione della
dimensione psicologica e di quella sociale è un fatto vero, infatti gli
studi degli ultimi decenni confermano che esiste una condivisione
sociale di concezioni, atteggiamenti e valori che ci permette di
ottenere una “stabilizzazione del quadro di vita degli individui e dei
gruppi” come afferma lo psicologo e sociologo rumeno, Serge Moscovici.
Ma
la stabilità che otteniamo comporta, come diretta conseguenza che, il
quadro di orientamento che accettiamo causa una modifica dello
“strumento di orientamento della percezione.” In seguito a questo, ne
consegue che ogni stimolo o sollecitudine esterna viene filtrato e
ricostruito a livello sociale. L’individuo possiede due dimensioni che
si intrecciano e che vanno conciliate cioè la dimensione individuale e
quella collettiva, perciò è evidente che le rappresentazioni sociali
fanno parte della coscienza individuale.
Ma
questo non toglie il fatto che il singolo gode di una autonomia nei
riguardi dei condizionamenti sociali, infatti la coscienza individuale
può stabilire un ordine di preferenza dei valori e delle idee. I
soggetti costruiscono le rappresentazioni sociali per riuscire a dare un
ordine ad una realtà molto variegata e troppo complessa, perciò questo
fenomeno viene rafforzato dal livello mentale. Il processo di ancoraggio
mentale consiste nel fatto che ogni fenomeno estraneo viene collegato
ad una categoria nota che lo rende familiare e più accettabile.
Questo
meccanismo mentale ci consente di assimilate a livello mentale tutto
quello che ci risulta troppo inconsueto o che rischia di darci problemi.
Vediamo che la mente umana tende a creare una rete di categorie che gli
sono proprie e che gli diventano familiari, e questo fatto ci consente
di attivare dei confronti e dei paragoni tra l’elemento inconsueto e
l'elemento che fa parte di una categoria già conosciuta.
Il
processo dell'ancoraggio mentale spiega perché il cervello umano, per
analizzare i dati insoliti o ignoti, ha la necessità di fare il
confronto tra il sconosciuto e l'ignoto. Questo meccanismo è funzionale
all’ottimizzazione del processo di classificazione e di reazione
all’ambiente, ma questa facoltà mentale dimostra anche la capacità di
pensare passando da elementi astratti ad immagini concrete.
È
questo conferma il fatto che, un individuo possa avere una convinzione e
non esserne affatto consapevole. Infatti, non sempre le persone
agiscono secondo quello che credono, ma spesso agiscono a favore di
quello che non condividono. Alcune idee e atteggiamenti si radicano così
profondamente che si può essere condizionati senza essere consapevoli.
Infatti, anche se non possiamo fornire delle prove oggettive a favore di
molti pregiudizi, noi sosteniamo ancora quelle convinzioni errate.
In
questo frangente agisce un processo di adattamento sociale che implica
la condivisione sociale delle categorie ossia una condivisione di atti
di valutazione e di interpretazione del mondo. Ma, in questo modo
accettiamo anche l’organizzazione del mondo che ne consegue in termini
di conoscenze e di regole di vita. In parole povere, l’adattamento al
mondo comporta anche l’accettazione di categorie di pensiero ossia di
idee preconfezionate cioè di pregiudizi.
Nel
1954, uno psicologo e docente di Harvard, Gordon W. Allport, scrisse il
saggio “La natura del pregiudizio” che è passato alla storia delle
scienze sociali come il punto di partenza per lo studio del complesso
fenomeno. Il termine “pregiudizio” etimologicamente deriva dal latino
“praejudicium” che indica un “giudizio emesso a priori” cioè la
percezione di sentimenti positivi o negativi verso un oggetto senza
avere avuto un’esperienza oggettiva o senza tener conto dell’esperienza
avuta.
È
importante capire che il pregiudizio positivo o negativo, ma che il
solo fatto di avvallare un giudizio senza avere sperimentato dei dati di
fatto che possano suffragarlo equivale ad agire come quel tizio che
voleva distruggere tutto prima che qualcosa fosse costruito, nota
ironicamente Allport. Di solito, un soggetto che accetta un pregiudizio
dirà che ha tutte le sue buone ragioni per pensare quello che pensa.
Ma,
in realtà, sappiamo che quel soggetto è vittima di “un processo
selettivo” dei suoi ricordi. Infatti, la rielaborazione dei ricordi si
mescola alle dicerie ascoltate, poi quelle idee vengono ridotte a
giudizi generalizzanti e vengono condivise a livello sociale. Allport
dice che “il pregiudizio non possa essere compreso se non a partire dai
processi di pensiero normali, gli stessi che consentono all’individuo di
padroneggiare la estrema complessità degli stimoli ambientali e di
agire efficacemente in rapporto ad essi.”
Il
fatto che i pregiudizi si fondino su dati inconsistenti rende difficile
sradicarli, perché non si può eliminare un fondamento che non c'è.
Riflettendoci sopra vediamo che il pregiudizio si rivolge all'individuo
che viene classificato sulla scorta della sua appartenenza a una
categoria specifica, senza tener conto delle sue qualità particolari, e
reagendo nei suoi riguardi, in ragione di qualità che gli vengono
attribuite perché attribuite al suo gruppo di appartenenza.
Tutto
questo comporta che, la dimensione di valutazione negativa è data in
base all’appartenenza sociale, razziale, religiosa, politica, sessuale,
economica e così via. Ma qualora si stabilisce che esiste una
disposizione naturale per cui esiste una certa scala sociale che
differenzia la qualità degli individui, allora possiamo essere certi che
il pregiudizio è diventato una discriminazione.
E
qualora si ammettono delle espressioni o atteggiamenti di disprezzo e
discriminazione verso un certo gruppo si crea un confine che divide gli
ingroup e gli outgroup cioè il gruppo privileggiato degli inclusi e
quello discriminato degli esclusi. È certo che, un pregiudizio, non
corrisponde ad una realtà oggettiva, perché la vera finalità delle
discriminazioni è quella di creare una tendenza sociale nei confronti di
gruppi specifici.
Ma
è pur vero che alcune culture preferiscono alcune qualità perciò
cercano di reprimere quello che non amano. Senza dimenticare che, per
coltivare i pregiudizi è necessario avere costruito una buona competenza
cognitiva perciò questo conferma il fatto che i bambini non hanno
alcuna forma di pregiudizio. Per un'ironia delle cose per essere così
ottuso da avere pregiudizi si richiede il possesso di una competenza
cognitiva.
Tutto
questo è valido anche per l’affermazione di pregiudizi positivi verso
il gruppo a cui si sente di appartenere come è evidente nelle sindromi
da “popolo eletto” che hanno causato le orribili stragi del secolo
scorso. Il fatto di venire percepiti come categoria e non di essere
visti come individui è un fattore di spersonalizzazione che deve destare
molta attenzione, perché lo stereotipo è il padre del pregiudizio.
E
il pregiudizio può attuarsi in modi diversi perciò gli studiosi
identificano varie categorie di pregiudizi, e alcune discriminazioni
sono insolute e scottanti, perché questi pregiudizi sono duri da
eliminare come: il pregiudizio sul femminile, il pregiudizio
etnico-razziale, le marginalità sociali, le marginalità di giovani e
anziani, le diversità di genere, la disabilità fisica e quella mentale,
la tossicodipendenza, ecc.
Il
pregiudizio etnico consiste in sentimenti di ostilità rivolti verso le
minoranze etniche oppure verso i gruppi di etnia diversa, perciò il
fenomeno vede entrare in gioco un complesso groviglio di fattori
sociali, culturali e psicologici che entrano in conflitto e accentuano
la difficoltà di risolvere la questione. Negli ultimi decenni, si tende a
ridurre le manifestazioni esplicite di intolleranza ma l’ostilità è
diventata latente perciò sopravvive in forma mascherata.
Siamo
passati dal modello del vecchio razzismo esplicito a quello implicito e
occulto perciò molto più insidioso. Ci sono vari modi di mostrare
queste forme di razzismo occulto perciò si preferisce contrastare le
iniziative a favore delle minoranze. Oppure si legittimao le istanze
razziste usando in modo distorto gli stessi principi di uguaglianza e
libertà individuale che dovrebbero tutelare gli individui. È questa la
strategia di quelli che dicono che le iniziative a favore delle
minoranze ledono i diritti delle maggioranze.
Non
di rado, queste idee distorte possono istigare degli atti di ostilità
verso le minoranze. Un’altra forma di razzismo strisciante è quella che
comporta il rifiuto volontario di avere rapporti e contatti con le
minoranze, e il volontario scoraggiamento delle iniziative che vengono
intraprese per riconoscere i loro diritti. Per rinforzare un clima
ostile, non solo viene mantenuta un forte distanza con le minoranze, ma
vengono messi in evidenza i disturbi che producono.
Questo
è testimoniato anche nei detti stereotipati associati alle etnie o
nazionalità come quelle che affermano che “lo zingaro è ladro e rapisce i
bambini” che “l’italiano è creativo e inaffidabile” e che “lo svizzero è
preciso e noioso.” Questi vecchi stereotipi rivestono dei pregiudizi
che faticano a passare di moda. Malgrado la scienza abbia provato che
affermare la superiorità di una razza su di un'altra è un'idiozia priva
di basi scientifiche vediamo che le idiozie restano in auge.
L’errore
che queste credenze errate vogliono confermare è che un popolo abbia
un’omogeneità di sensibilità, di attitudini e di orientamenti che non si
osservano neppure in una famiglia. Da scemenze di questo tipo sono nate
le persecuzioni razziali nei confronti degli ebrei e di quei popoli che
hanno pagato con questa moneta insanguinata il mantenimento della loro
identità nazionale. E se pensiamo ai pregiudizi di carattere sessuale
vediamo quelli contro le donne, i trasgender e gli omosessuali che
"disturbano" le idee sull’identità maschio/femmina.
Riguardo
le donna va detto che ci viene da sempre riservato il posto del sesso
debole e, non per caso, ci vengono affibbiate le qualità con valore
socialmente negativo. Dicono che la donna è debole, timorosa, emotiva,
irrazionale, bisognosa di tutela e di protezione. È vero che ci vengono
attribuite anche delle qualità auspicabili, ma sono pur sempre
funzionali ad un ruolo subalterno, infatti la donna dovrebbe essere
dolce, seduttiva e molto sensuale.
Le
regole della società maschilista comportano che la donna venga
svantaggiata sul lavoro e venga pagata sempre meno del collega maschio
anche se svolge lo stesso lavoro, che abbia un maggior carico di lavoro
di cura e di assistenza in famiglia, perciò non è per caso se resta
timorosa di fare carriera. Lo sfondamento del soffitto di vetro sembra
lontano forse perché quel vetro è stato temprato per essere
antisfondamento. E poi se queste differenze esistono e vengono rimarcate
perché il nostro svantaggio è quello di essere il cosiddetto "sesso
debole" perché siamo costrette a faticare tanto.
Sarà
forse perché dobbiamo condividere il medesimo destino infamante che è
riservato alle altre minoranze sessuali? Sarà di sicuro così, perché nel
caso di omosessualità e della diversità di genere, la paura dell’Aids e
la diffusione della positività alla malattia ha rafforzato la
stigmatizzazione di questa categoria di “lebbrosi moderni”.
L’efficientismo dei tempi moderni ci spinge ad avere un atteggiamento
disturbato e discriminante anche nei riguardi dei problemi legati alle
abilità di chi è portatore di handicap fisici o mentali. Ma l’infelicità
della malattia mentale è più forte.
Questo
è dovuto al fatto che si è maturata un’accettazione maggiore per la
malattia fisica che viene vista come socialmente più accettabile, mentre
resta intatto il marchio infamante della malattia mentale. Un valore
condannabile viene riservato anche a tutti quelli che vengono giudicato
in base ai pregiudizi sull’età, perché questa condanna assurda è
giustificata dalle associazioni e alle aspettative di comportamenti e
sentimenti che vengono definiti in modo fisso e stereotipato.
Quindi
ai giovani non resta che rassegnarsi e di accettare di venire associati
allo stereotipo che essere giovani comporta essere persone meno
responsabili e meno autonome nelle decisioni, di essere persone poco
maturi e consapevoli, perciò si viene considerati come dei minorati
nelle facoltà quindi l'epiteto di "bamboccioni" rientra nel gioco.
Per
gli anziani si tratta di accettare di incarnare lo stereotipo della
rigidità, della nostalgia del passato e del disinteresse per il futuro,
di essere ostili alle innovazione, di essere collerici, ostinati e
piagnucolosi. La tragica comicità del paradosso è il fatto che l'unico
modo per non diventare vecchi odiosi è morire giovani seppure inetti. Ma
siccome la soluzione mi sembra peggiore del male, non sarebbe meglio se
la smettiamo con queste scemate e iniziamo a vivere come esseri umani
più evoluti?
Buona erranza
Sharatanfonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2016/07/errori-e-pregiudizi_15.html
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