Pratiche che rinforzano la capacità di concentrazione o attenzione sono presenti nella maggior parte delle tradizioni religiose. L’importanza dello sviluppo dell’attenzione è evidente soprattutto nella grandi tradizioni nate in India, in particolare nell’induismo e nel buddismo. Dai veggenti upanishadici ai giorni nostri, in India esiste una tradizione ininterrotta con cui l’uomo ha cercato di unirsi (nel cuore e nella mente) alla realtà assoluta.
Lo yoga assume molte forme, ma quella psicologica essenziale è la pratica dell’attenzione su un solo oggetto, o concentrazione (“citta-ekagrata”). Che si tratti di fissare l’attenzione su un mantra, sul respiro o su qualche altro oggetto, il tentativo di acquietare le attività automatiche della mente attraverso l’attenzione concentrata è il primo passo e il tema ricorrente dello yoga psicospirituale hindu.
Per le tradizioni nate da Gautama il
Buddha, non poteva essere diversamente. Le forme di meditazione
“samatha” e “vipassana” nella tradizione Theravada richiedono, come
àncora e radice, una capacità sempre maggiore di mantenere fissa
l’attenzione, senza cedere alle varie forze psicologiche che tendono a
disperderla. Samatha è la pratica dell’attenzione su un oggetto, ed è il
punto di partenza comune per vari tipi di meditazione buddista.
La
meditazione vipassana consiste nello spiegamento dell’attenzione
concentrata creata nella samatha da un punto all’altro dell’organismo,
con lo scopo di comprendere alcune dottrine buddiste a un livello
esperienziale sottile. Sebbene l’attenzione ricercata nella meditazione
vipassana non sia focalizzata su un oggetto, essa resta una forma di
attenzione altamente concentrata e diretta, l’antitesi stessa del
vagabondare mentale dispersivo.
In modo simile, la pratica tibetana
della visualizzazione (che comincia solo dopo la pratica preparatoria
della samatha) serve a sviluppare la costanza della mente, tramite la
costruzione di elaborate immagini sacre sullo schermo della
consapevolezza. Le due pratiche principali della tradizione zen, il
“koan” e lo “zazen”, hanno il comune denominatore della pratica di
un’attenzione continua e vigile. Inoltre, le principali scuole
contemplative del buddismo danno molta importanza alla qualità della
consapevolezza, cioè all’essere presenti, consci e, in una parola,
attenti.
Arthur Waley ci dice, in The Way and Its
Power (New York: Random House, 1958) che nel quarto secolo avanti
Cristo i taoisti avevano già sviluppato tecniche di meditazione e di
induzione della trance che erano probabilmente solo indirettamente
influenzate dalle tecniche indiane. Erano chiamate “tso-wang” e
“tso-ch’an” ed erano essenzialmente una pratica della concentrazione
attraverso la focalizzazione sul respiro. Se non fosse stato per questi
fenomeni indigeni analoghi, il buddismo avrebbe incontrato molta più
resistenza nella sua espansione in Cina.
Prendendo in esame i tre grandi
monoteismi occidentali, il fenomeno dell’attenzione non è altrettanto
visibile. Ciononostante, è presente. Parlando in generale, le discipline
spirituali delle religioni monoteiste non sono pienamente sviluppate
come quelle orientali. Spesso costrette alla clandestinità da correnti
teologiche o teocratiche ostili, molte pratiche spirituali delle
religioni monoteiste sembrano essere passate dall’esoterismo
all’oscurità, la corruzione e infine l’oblio. Tuttavia, queste religioni
monoteistiche contengono profonde dimensioni mistiche, ed è qui che
dobbiamo guardare per trovare la pratica dell’attenzione.
Le vere e proprie pratiche e tecniche
della preghiera mistica ebraica sono difficili da accertare, ma accenni
al riguardo si possono trovare negli antichi testi talmudici (in modo
intermittente), nell’opera di Abraham Abulafia (molto frequentemente) e
di alcuni suoi contemporanei, nei cabalisti di Safed del sedicesimo
secolo, nell’opera di Isaac Luria e nei testi chassidici. I termini
chiave sono “hitbodedut” (meditazione), “hitboded” (meditare) e
“kavanah” (concentrazione, attenzione e intenzione). I primi due vengono
da una radice che vuol dire “essere solitari”. Tuttavia, spesso questi
termini fanno riferimento a una solitudine maggiore di quella fisica:
ovvero, alla solitudine al di là dell’attività dispersiva della mente,
raggiunta grazie alla concentrazione. In modo simile, kavanah indica un
tipo di preghiera basata sulla concentrazione e l’attenzione capace di
indurre uno stato alterato, “superiore” di consapevolezza.
Per la
tradizione mistica ebraica in generale, la ripetizione di parole sacre
liturgiche (in modo simile ai mantra) sembra lo strumento principale per
praticare l’attenzione, ma nei testi si possono trovare anche
riferimenti alla concentrazione su immagini mentali, disegni di lettere e
visualizzazioni di luci e colori. Gli esercizi di concentrazione sono
anche legati ai movimenti del corpo e al respiro. Alcuni esercizi
raccomandati nel tredicesimo secolo da Abulafia, dall’esecuzione lunga e
complessa, sembrano richiedere una grande attenzione. In questo
sembrano simili alla pratica buddista tibetana della visualizzazione
elaborata.
Nel mondo cristiano, troviamo
all’interno dell’ortodossia orientale la preghiera del cuore o di Gesù:
un “mantra” cristiano che i contemplativi usano per richiamare alla
mente il sé, unificare l’attenzione e quindi aprire il cuore alla
Presenza Divina. La grande mole di testi contemplativi nella tradizione
cattolica romana riguarda, come nell’ebraismo, la teoria e la dottrina,
piuttosto che le tecniche. Nel primo medioevo è possibile trovare
riferimenti alla contemplazione come a una ricerca di Dio nella quiete,
il riposo e la tranquillità, ma niente di più. Il tardo medioevo vede
tra i contemplativi la diffusione di una forma di preghiera chiamata
“lectio divina”, o lettura meditativa delle scritture. Il monaco
cistercense Thomas Keating descrive la lectio divina come l’esercizio
della “capacità di ascoltare a livelli sempre più profondi di attenzione
interiore” (nota 1).
Il misticismo pratico arriva a maggior
fioritura con Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, nel sedicesimo
secolo. La via di Giovanni era quella del silenzio, della preghiera
non-dispersiva, di stati mentali provocati da quella che definiva “una
serena e amorevole attenzione in Dio”. Recentemente è stato fatto un
tentativo di rendere più popolare questo tipo di attenzione
contemplativa con la “preghiera di centratura”, un’altra tecnica simile
ai mantra per focalizzare l’attenzione e acquietare la mente, simile
alla preghiera di Gesù in uso nell’ortodossia orientale.
Nel mondo dell’Islam, abbiamo la pratica
contemplativa del silenzio e del “dhikr”: quest’ultimo è un’altra
ripetizione simile ai mantra, solitamente dei nomi di Allah, finalizzata
a imbrigliare la volontà e il suo potere di attenzione. Un termine più
generico per il tipo di attenzione meditativa raggiunta nel dhikr è
“moraqebeh”, che indica una “concentrazione della propria attenzione su
Dio”, “la vicinanza del cuore a Dio”, “l’assorbimento dello spirito
(umano) – «ruh» – nel respiro di Dio” e “la concentrazione di tutto il
proprio essere su Dio” (nota 2). Moraqebeh, dicono i sufi, non è solo
un’attività umana, ma anche divina: è poiché Dio è sempre attento a noi,
che noi dovremmo esserlo a lui.
Due uomini che hanno attinto alle
tradizioni di cui sopra e i cui scritti eclettici hanno avuto una grande
influenza su chi è interessato all’autorealizzazione, sono G. I.
Gurdjieff e J. Krishnamurti. Fondamentale nel lavoro di Gurdjieff è
l’esercizio del “ricordo di sé”, consistente nel tentativo di sviluppare
un’attenzione continua, priva di distrazioni e osservazionale diretta
sia all’esterno, verso l’esperienza, sia – allo stesso tempo –
all’interno, verso colui che sperimenta.
Questo particolare aspetto del
lavoro di Gurdjieff è simile agli esercizi di “nuda attenzione” della
meditazione vipassana buddista. Krishnamurti insegna che la pratica
fondamentale della trasformazione psicologica è la “consapevolezza priva
di scelta”. Si tratta, di nuovo, della pratica di un’attenzione
continua, osservazionale e non-reattiva verso l’esperienza interiore ed
esteriore. Considerandola in modo isolato dal resto dell’insegnamento di
Krishnamurti, questa attenzione non è molto diversa dal lavoro di
Gurdjieff o dalla “nuda attenzione” dei buddisti.
L’attenzione, naturalmente, è un
concetto che si ritrova anche al di fuori della prassi religiosa. Fa
parte del vocabolario delle attività mentali di tutti i giorni, ma anche
in questo contesto sembra un termine abusato, impiegato per indicare
una grande varietà di stati mentali. Occorre resistere alla tentazione
di pensare a essa come a una cosa sola. È meglio concepirla come una
gamma che va dall’assenza virtuale di attenzione, come nel vero e
proprio sogno a occhi aperti e nel flusso mentale meccanicamente
determinato, fino all’acuta vigilanza attiva.
Sebbene le pratiche
contemplative differiscano grandemente tra loro, la qualità
dell’attenzione che richiedono e a cui mirano si trova all’estremità
superiore della gamma. Le varietà dell’attenzione contemplativa, in
altre parole, si assomigliano tra loro più di quanto non assomiglino a
quel fenomeno discontinuo e intermittente dell’attività mentale
quotidiana che definiamo attenzione. D’ora in poi, se vogliamo evitare
confusione, dobbiamo ulteriormente precisare la differenza relativa tra i
tipi ordinari di attenzione e quelli che sono l’obiettivo della pratica
contemplativa.
L’attenzione ordinaria può essere
descritta come dispersiva, intermittente e passiva. Passa
incessantemente da un oggetto all’altro, la sua intensità vacilla e
spesso soccombe al vagabondaggio della mente, è reattiva o “passiva” in
relazione ad alcune successioni di oggetti esterni o al flusso autonomo
della consapevolezza.
Prendiamo, per esempio, l’atto in cui il lettore è
attualmente assorto. Tu stai seguendo attentamente questa spiegazione,
cercando di capirla. Sicuramente, questa è attenzione e non
disattenzione. Il contemplativo sarebbe d’accordo, ma aggiungerebbe che
questa attenzione è dispersiva e prevalentemente passiva. In questo caso
particolare, le mie parole stanno creando le dispersioni della tua
mente, portandola da un luogo all’altro. Inoltre, è altamente probabile
che, durante la lettura, la tua mente avrà vagato un numero sorprendente
di volte, rincorrendo un’associazione o l’altra per mezzo di
fluttuazioni psichiche autonome.
Anche se ora smettessi di leggere
questo articolo e ti volgessi al tuo interno per elaborare una catena di
ragionamenti, è probabile che faresti questo in uno stato di attenzione
prevalentemente passiva. Infatti, tale attività creativa richiede
un’accurata selezione di ciò che l’attività automatica della psiche
offre.
Nello stato mentale ordinario,
l’attenzione non è una qualità che portiamo nell’esperienza, ma qualcosa
che accade, piuttosto casualmente, quando il nostro organismo si
interessa momentaneamente a qualche sequenza interiore o esteriore di
fenomeni. L’attenzione comune va e viene senza il nostro consenso; non è
qualcosa che facciamo, ma che ci accade. Quasi sempre, per la maggior
parte di noi, l’«attenzione» è stimolata, condizionata e guidata da
mobilitazioni di energia lungo i sentieri abituali all’interno del
nostro organismo, in modo che quando essa arriva davanti al suo oggetto,
si trova sempre di fronte, per così dire, un “fait accompli”, un fatto
compiuto.
Quindi, l’attenzione cui mirano gli esercizi contemplativi può
distinguersi non solo dalla semplice disattenzione, ma anche dalla
comune attenzione dispersiva. Si tratta, piuttosto, di un’attenzione
continua, non dispersiva e attiva che è, in realtà, abbastanza
straordinaria. Infatti, molti di noi, pur nella varietà dei nostri
miliardi di stati mentali, non hanno mai conosciuto un momento di
autentica attenzione attiva. Un tale momento riduce le funzioni autonome
dell’attività psicologica ordinaria. Se il lettore ha dei dubbi, può
fare un semplice esperimento.
Prendiamo una situazione di grande
attenzione verso lo schermo della consapevolezza (per esempio quando si
ascolta qualcuno), e si fa la guardia, per così dire, al luogo in cui
nascono i contenuti della consapevolezza. Finché si riesce a mantenere
questa intensa attenzione attiva, il dialogo interiore e il flusso delle
immagini cesserà. Come ha detto Hubert Benoit: “La nostra attenzione,
quando funziona nel modo attivo, è pura, senza un oggetto manifesto. La
mia energia mobilizzata non è percepibile in sé, ma solo negli effetti
della sua disintegrazione, ovvero le immagini. Tuttavia, tale
disintegrazione accade solo quando la mia attenzione opera nella
modalità passiva; l’attenzione attiva anticipa questa disintegrazione”
(nota 3).
Chiunque abbia mai sperimentato
l’attenzione attiva come l’abbiamo appena descritta, sa, comunque, che è
difficile mantenerla a lungo. L’ammonimento onnipresente nei testi
contemplativi ad andare in qualche modo oltre le immagini, le idee e
tutto il pensiero dispersivo, comporta il compito apparentemente
impossibile di cercare di fermare la mente con la mente. Ma grazie alla
guida di un insegnante scopriamo che questo iniziale ammonimento viene
in seguito bilanciato da una strategia molto più sottile, una seconda
fase, per così dire.
Stabilito che le profonde abitudini
della psiche sconfiggeranno ripetutamente una mente che abbia appena
iniziato a praticare la concentrazione, e assumendo che il praticante
cercherà sempre di esercitare un’attenzione attiva e vigile, i suoi
alleati in ciò saranno l’imparzialità, l’equanimità e l’accettazione
non-reattiva. Quando l’attenzione concentrata vacilla, occorre restare
testimoni non-reattivi di ciò che sta avvenendo.
Qualunque cosa emerga
nella mente viene osservata e lasciata passare, senza ragionarci sopra
né reagirci contro. Immagini, pensieri e sentimenti sorgono a causa
dell’automatismo delle strutture psicologiche profondamente radicate, ma
la loro esca non viene abboccata. A essi non viene permesso di rubare
l’attenzione, disperdendola in un fiume di associazioni. Il praticante
coltiva un’attenzione concentrata, ma quando quest’ultima si interrompe,
egli impara a disidentificarsi con i contenuti della consapevolezza,
mantenendo un atteggiamento non-reattivo e privo di scelta, e
acquietando l’ego e le sue preferenze.
Se questa descrizione sembra troppo
asiatica e solleva dubbi sulla sua pertinenza alle pratiche della
preghiera contemplativa nelle religioni monoteiste, si consideri (per
riequilibrare) questo brano da Your Word is Fire, un libro sulla
preghiera chassidica: “Qualsiasi insegnamento che ponga tanta enfasi
sulla concentrazione totale nella preghiera deve… affrontare il problema
della distrazione. Cosa deve fare una persona quando pensieri estranei
entrano nella sua mente, distogliendola dalla preghiera? …Il Baal Shem
Tov… parlava contro i tentativi dei suoi contemporanei di… dare
battaglia ai pensieri distraenti… Egli insegnava che ogni distrazione
può trasformarsi in una scala attraverso la quale ascendere a nuovi
livelli di devozione… Dio [è] presente in quel momento di distrazione! E
solo colui che sa che Dio è presente in tutte le cose, inclusi quei
pensieri che egli cerca di evitare, può essere un insegnante di
preghiera” (nota 4).
Sebbene alcuni studiosi hanno distinto
tra una pratica dell’attenzione “concentrativa” e una “ricettiva”,
quanto appena detto suggerisce che questa distinzione non va spinta
troppo in là. In ogni caso, questo cavillo accademico non deve
trattenerci ulteriormente dal considerare il punto più importante. La
domanda è: in che modo la pratica lunga e regolare dell’attenzione, nel
contesto di una tradizione spirituale, fa sì che l’io riesca a liberarsi
dall’egotismo compulsivo e dalla cecità per sperimentare le realtà più
sottili e inclusive che si formano in tal modo?
La maggior parte della tradizioni contiene delle nozioni sulla falsa consapevolezza o falso io, il quale, una volta sconfitto, reso trasparente o altrimenti trasceso, permette alla verità autoevidente di rivelarsi.
Diciamo, quindi, che il significato
centrale degli esercizi dell’attenzione è liberare l’essere umano dalla
schiavitù alle macchinazioni del falso io.
Per afferrare meglio questo concetto,
consideriamo il fatto che gli esseri umani hanno un persistente bisogno
di preservare ed espandere il proprio essere, e quindi ciascuno di noi,
dalla nascita, intraprende quello che potremmo chiamare un progetto
dell’io. Ognuno aspira a essere speciale e al centro dell’attenzione, a
conseguire addirittura l’immortalità, e ognuno spende energia per
raggiungere quelle cose che, secondo il suo livello di comprensione,
appagheranno tali aspirazioni.
Secondo molte tradizioni contemplative,
tale aspirazione ha radici in una verità profonda: in ultima analisi,
tutti partecipiamo alla vita eterna della realtà assoluta. Ma,
sfortunatamente, la trascendenza dell’ego prescritta dalle tradizioni
contemplative viene di solito rifiutata, a favore di vani e infiniti
tentativi di espandere l’ego nel mondo esterno, attraverso il possesso,
la proiezione e la gratificazione.
Il falso io, allora, può essere visto
come una metafora dell’automatismo psichico, cioè dei modelli di
pensiero automatici, egocentrici e abitudinari, dei giudizi e delle
valutazioni emotive, e dell’immaginazione che filtra e distorce la
realtà, modellando il comportamento secondo i bisogni del progetto
dell’io. Una volta che questi modelli di inclinazioni si sono fissati in
“strutture” psicologiche relativamente permanenti, possiamo pensare che
si nutrono costantemente dell’energia psichica disponibile,
dissolvendola nelle associazioni senza fine né valore della corrente
della consapevolezza. L’energia che altrimenti si sarebbe manifestata
come la gioia della consapevolezza aperta e centrata sul presente, viene
inesorabilmente spinta verso queste strutture, dove si disintegra nelle
immagini-film e i commenti – il “rumore” – che soffondono la
consapevolezza ordinaria.
Ciò che permette all’automatismo del
falso io (che con il tempo diventa sempre più massiccio) di funzionare
in modo incontrollato è, in una parola, l’identificazione. Finché siamo
inconsapevolmente e automaticamente identificati con i mutevoli
contenuti della consapevolezza, non abbiamo mai il sospetto che la
nostra vera natura ci rimanga nascosta. Ma se l’espressione libertà
spirituale vuol dire qualcosa, il suo primo e più importante significato
è la libertà da tale identificazione automatica.
Una volta che l’automatismo e
l’identificazione vengono riconosciuti come i sostegni del falso io,
siamo in grado di comprendere il potere psico-trasformativo
dell’attenzione concentrata e non-reattiva. Infatti, che si tratti di un
musulmano che stia ripetendo i nomi di Dio o di un buddista theravada
che stia esercitando la nuda attenzione, lui (o lei) sta praticando (in
un certo grado) la disidentificazione che conduce alla
de-automatizzazione (nota 5) del falso io.
Il semplice atto di cercare di tenere
ferma la mente su un punto, un atto con cui cominciano forme più elevate
di meditazione, insegna al principiante (in modo radicale ed
esperienziale) che lui o lei non ha alcun controllo sul flusso mentale.
Qualsiasi pratica dell’attenzione comincia con tale fallimento. Questo è
il primo passo importante verso l’oggettivazione del flusso mentale,
cioè verso il vedere quest’ultimo non come qualcosa che “io” sto
facendo, ma come qualcosa che sta semplicemente accadendo. Senza tale
comprensione, nessun progresso è possibile. Infatti, per evadere da una
prigione, occorre prima sapere di essere in prigione.
Così, quando si
chiede al cristiano di concentrare l’attenzione soltanto su Dio; quando
il musulmano tenta di indirizzare la sua attenzione soltanto sui nomi di
Dio; quando il buddista tibetano cerca, con grande attenzione, di
costruire elaborati immagini di Tara sullo schermo della consapevolezza,
la prima lezione che questi praticanti imparano è che non possono
farlo. Si comprende subito che lo stato mentale ordinario è estraneo
alla più profonda realtà del proprio essere. Tanto più regolare si fa
questa percezione, tanto più chiaramente si comprende la distinzione tra
se stessi e i propri pensieri, e tra la consapevolezza in quanto tale e
i suoi contenuti. L’oggettivazione dei contenuti della consapevolezza e
la disidentificazione con essi sono conseguenze naturali.
Gli esercizi di attenzione contemplativa
sono strategie di indebolimento. Ogni istante in cui l’energia
disponibile viene indirizzata verso l’attenzione concentrativa e
non-reattiva, è un istante in cui i processi automatici non hanno
alimento. Nel mondo dinamico della psiche non esiste stasi: se gli
automatismi non si rinforzano, cominciano a indebolirsi e dissolversi.
Quando vengono privati del nutrimento precedentemente fornito loro dagli
stati distratti della mente, i processi automatizzati della mente
cominciano a disintegrarsi.
L’attenzione contemplativa praticata per un
lungo periodo di tempo può dissolvere e sradicare anche le sacche più
resistenti di automatismo psicologico, permettendo alla consapevolezza
di riguadagnare la libertà antica a la chiarezza che sono suoi diritti
di nascita.
La de-automatizzazione, allora,
costituisce un aspetto essenziale della liberazione spirituale,
dell’emancipazione dal falso io. Inoltre, essa designa un processo lungo
e graduale di trasformazione, all’interno del quale si realizzano
distinte esperienze mistiche, e senza il quale queste ultime sono
destinate a svanire nell’oblio.
A ogni modo, dovrebbe essere chiaro che
la funzione del lavoro contemplativo è essenzialmente distruttiva.
L’equipaggiamento di una tradizione spirituale fornisce una cornice
protettiva e costruttiva all’interno della quale questo lavoro
distruttivo può procedere. Più profondamente i fondamenti del falso io
vengono erosi dalla pratica dell’attenzione, più forte si fa l’uragano
di proteste interiori. La “morte” che si verifica durante il lavoro
contemplativo può provocare shock e reazioni interiori tanto profondi
che solo una tradizione religiosa può assorbirli e tramutarli in
qualcosa di creativo. Il sostegno di una tradizione antica di centinaia
di anni – ricca di simbolismo, di mappe metafisiche e psicologiche, e
dell’esperienza di migliaia di pellegrini precedenti – e la guida di un
insegnante esperto sono indispensabili. Un movimento new age che voglia
proporre tecniche contemplative facendo a meno del contesto tradizionale
in cui queste erano originariamente situate, sembra estremamente
superficiale o molto pericoloso, se non entrambe le cose.
Inoltre, la tradizione e una comunità
spirituale pongono molta importanza (cosa che una tecnica da sola non
può fare) al fondamento “sine qua non” della condotta morale, necessario
accompagnamento del lavoro interiore. Senza la rettificazione della
condotta esteriore, il lavoro interiore non può spingersi molto lontano.
È difficilissimo trovare una sola eccezione a questa regola, nelle
grandi tradizioni.
Infine, la trasformazione dell’uomo non
si realizza solo grazie a periodi isolati di intensa pratica
dell’attenzione; tale pratica va collegata alla vita ordinaria tramite
un’intenzionalità che renda ogni aspetto della vita parte del lavoro
spirituale. L’«opus» contemplativa, in altre parole, non si può limitare
a periodi formali di pratica dell’attenzione. L’attività ordinaria e la
pratica contemplativa formale devono rinforzarsi l’un l’altra e
sostenere la continuità della pratica che sola può risvegliare la mente e
aiutarla a realizzare il “telos” adombrato nelle immagini e i concetti
della tradizione cui appartiene.
Gli esercizi dell’attenzione non sono
concepiti per essere praticati in solitudine. Perché siano efficaci, è
richiesta non solo una lunga pratica, ma anche il supporto di una
comunità, la guida di una tradizione, la tranquillità di una
purificazione morale e, infine, la continuità della pratica che permette
al potere della volontà, indispensabile al lavoro della trasformazione,
di formarsi appieno.
Philip Novak
Note:
1. Contemplative Prayer in the Christian Tradition, in “America”, 8 aprile 1978, pp. 278 e segg.
2. Javad Nurbakhsh, In the Paradise of the Sufis (New York: Khaniqahi-Nimatullahi Pubblications, 1979), p. 72.
3. The Supreme Doctrine (New York: Viking Press, 1959), p. 40.
4. 1977, pp. 15-16.
5. Un concetto del quale siamo debitori ad Arthur I. Deikman, in Deautomatization and the Mystic Experience, “Psychiatry”, 29 (1966): 324-338.
Versione ridotta, con il consenso di Philip Novak,
di due suoi precedenti scritti: voce Attention in The Encyclopedia of
Religion, a cura di Mircea Eliade, Vol. I (New York: Macmillan, 1987), e
Dynamics of Attention: Core of the Contemplative Way, in “Journal of
Studies in Formative Spirituality” (Vol. V, No. 1, Febbraio 1984)
pubblicato dalla Dusquesne University, Pittsburgh, Pennsylvania.
gianfrancobertagni.it
http://www.altrogiornale.org/la-pratica-dellattenzione-e-la-falsa-consapevolezza/
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