LE QUATTRO NOBILI VERITA'
1. "La sofferenza"
2. "L'origine della sofferenza"
3. "La cessazione della sofferenza"
4. "La via che porta alla cessazione della sofferenza"
2. "L'origine della sofferenza"
3. "La cessazione della sofferenza"
4. "La via che porta alla cessazione della sofferenza"
Le 4 Nobili Verità sono la base di ogni insegnamento buddista.
Esse sono
rappresentate da definizioni apparentemente semplici, che sono tuttavia
fonte di innumerevoli riflessioni, ricerche, meditazioni.
Tale
insegnamento fu proclamato dal principe Siddharta, ovvero Shakyamuni, il
Buddha storico vissuto nel 6° secolo a.C., nel Parco dei Daini a
Sarnath presso Varanasi, in India.
Dice il Buddha: "Solo questo insegno: la sofferenza e la sua cessazione" (su: Majjhima-Nikaya).
Secondo la
tradizione, Shakyamuni giunse a queste fondamentali e illuminanti verità
meditando su nascita, malattia, vecchiaia e morte, eventi
imprescindibili della condizione umana e non solo umana.
Le affermazioni contenute nelle 4 Nobili Verità ci mostrano che il Buddismo non inizia con "c'era una volta..." ma con un "c'è".
E non
racconta favole, ma parla di cause e di effetti, di cose che si
sperimentano e non di cose che, semplicemente, si credono, e men che mai
di cose che si "devono" credere.
La Prima Nobile Verità:
"La sofferenza"
"La sofferenza"
La Prima
Nobile Verità enunciata dal Buddismo, come si vede, a differenza di ciò
che accade nei miti e nelle religioni, non è un dogma, né un racconto
mitologico, né qualche leggenda più o meno favolistica, e tantomeno una
misteriosa rivelazione.
Niente di tutto questo.
La Prima
Nobile Verità si occupa di qualcosa che ogni essere vivente può
facilmente verificare per esperienza: la sofferenza "c'è".
Il Buddismo
non si occupa del Cielo, o di luoghi immaginari e metafisici, come le
religioni comuni, ma parte da TE, dalla tua esperienza. Il Buddismo non
offre spiegazioni preconfezionate: invita semmai ad effettuare una
ricerca personale su esperienze e sensazioni che sono alla portata di
tutti.
E' opportuno
tenere presente che nella lingua utilizzata dal canone buddista, ovvero
la lingua Pali, di derivazione Sanscrita, la sofferenza è chiamata
DUKKHA, che non significa semplicemente "dolore" quanto piuttosto
situazione incongrua, insoddisfacente, incompleta.
Il termine DUKKHA deriva da due parole: DUH e KHA.
DUH è un
prefisso negativo e KHA significa vuoto. Dunque DUKKHA sottintende
qualcosa di inconsistente, insoddisfacente, illusorio.
Il termine
italiano "sofferenza" è letteralmente molto più restrittivo di DUKKHA,
quindi dobbiamo utilizzarlo, in riferimento alle 4 Nobili Verità, in
senso esteso.
Scopriremo
dunque che perfino gli stati considerati di piacere sono DUKKHA, perché
hanno sempre in sé, quantomeno, qualcosa di non completamente appagante,
di non completa realizzazione, di illusorio, di senso di perdita o
altro.
Non stiamo
dicendo che la condizione umana sia insopportabile oppure
inevitabilmente triste e dolorosa. A volte il buddismo è erroneamente
considerato "pessimista" perchè si scambia la comprensione di DUKKHA per
una mera e rassegnata accettazione della sofferenza.
Non è così,
il DHAMMA (l'insegnamento buddista) ci conduce alla cessazione della
sofferenza, non alla rassegnazione, ma prima dobbiamo compenetrare nel
loro vero significato le quattro Nobili Verità, la prima delle quali
consiste appunto nell'imparare a vedere, a sentire, a capire DUKKHA.
DUKKHA è ovunque.
La
sofferenza, in qualche forma, è ovunque, sia nell'uomo che in tutti gli
esseri viventi, e in un certo senso anche nelle cose, negli oggetti, nel
mondo, nell'universo. Tutto si può rovinare, consumare, logorare. Tutto
è soggetto a mancanza-eccesso, a perdita, a morte.
Si badi bene:
"c'è la sofferenza" non è una minaccia, non è una condanna, non è una
sconfitta, non è una considerazione negativa, piuttosto, è come se si
dicesse: "la realtà è esattamente così com'è", perché la vita è
intimamente connaturata con DUKKHA.
Non si sta
nemmeno dicendo che la sofferenza è "cattiva" o che è una cosa
"negativa", il buddismo non si occupa di attribuire valori o giudizi,
semplicemente si sta sostenendo (del tutto serenamente!) che "c'è
qualcosa che accade in ogni manifestazione di vita", e questo qualcosa
che accade incessantemente non può essere espresso meglio di come la
semplice frase "c'è la sofferenza", ovvero "c'è DUKKHA", può aiutarci a
definire.
Si tenga
conto che "c'è la sofferenza" è un punto di partenza, non di arrivo, e
non necessita di una particolare illuminazione per essere compresa,
sebbene anche le menti più illuminate possono continuare a trarre enormi
benefici sulla costante meditazione sulle quattro nobili verità.
Si noti anche
che "c'è la sofferenza" non pretende di descrivere o definire la
realtà! Non si sta dicendo che tutta la realtà è fatta di sofferenza, ma
che la sofferenza "c'è", che è cosa ben diversa.
"C'è la
sofferenza" può produrre un risultato concreto sul piano della nostra
comprensione perché la sofferenza non siamo "noi", e tantomeno essa è
"dentro di noi" (sebbene possa ANCHE esserci) ma semplicemente la
sofferenza "c'è".
DUKKHA non è
dunque una rappresentazione tragica della realtà, al contrario, si
tratta di una comprensione oggettiva, descrittiva ed impersonale. E' una
"presa d'atto" di qualcosa che accade.
Molte persone
combattono la sofferenza cercando illusoriamente di evitarla o di
compensarla. Un po' come succede nei finali delle fiabe: "E vissero
felici e contenti". Che equivale a dire "la sofferenza non c'è", o
almeno che non ci sarà per moltissimo tempo.
Ma così si
impedisce la comprensione di DUKKHA, e quindi anche la sua cessazione,
preferendo il rimanere nell'illusoria ignoranza.
Alcune
filosofie e religioni riconoscono nella sofferenza una imprescindibile
condizione dell'umanità, tuttavia non ci si "arrende" all'evidenza di
DUKKHA, e si cerca di volerla esorcizzare.
Al massimo si compensa: "c'è la sofferenza, ma..."
E' proprio quel MA che impedisce il cammino verso l'illuminazione, in cambio di mere consolazioni illusorie e fuorvianti.
"C'è la sofferenza, ma..."
"...un giorno saremo consolati"
"...se sappiamo sopportare saremo premiati"
"...prima o poi la sofferenza finirà"
"...dobbiamo avere fiducia e speranza"
"...se sappiamo sopportare saremo premiati"
"...prima o poi la sofferenza finirà"
"...dobbiamo avere fiducia e speranza"
e via di
questo passo, di negazione in negazione, di illusione in illusione, fino
ai casi estremi in cui la sofferenza è vista addirittura come
"purificatrice".
Tutto questo significa NEGARE DUKKHA, impedire la comprensione, non vedere DUKKHA per quello che è.
Fare nostra
la prima Nobile Verità del "c'è la sofferenza" ci libera dunque anche
dalle nostre negazioni mentali, dai nostri istinti compensatori, dalle
nostre fughe illusorie, dalla paura della
realtà, e dalla paura di ciò
che non si vuole comprendere.
Ecco allora
che "c'è la sofferenza" ci appare addirittura come un grido liberatorio,
un "rimanere tranquillamente qui" senza scappare e senza nascondersi.
DUKKHA
diviene nostra maestra: ci aiuta a capire la condizione umana e
universale, ci fa vedere la realtà delle cose, l'essenza di tutti i
fenomeni.
Chi giunge a questa esperienza, è incamminato verso la cessazione della sofferenza.
La Seconda Nobile Verità:"L'origine della sofferenza"
La parola "origine" ci fa venire in mente una vastità di speculazioni filosofiche, mitologiche e religiose.
Ogni
religione che si rispetti ha il suo bravo mito primordiale che si
propone di spiegare, generalmente con storie semplici, adatte alla
trasmissione orale, l'origine del mondo, delle stelle, del sole e della
luna, dell'umanità, a volte perfino dei monti, laghi, mari, piante,
fiori, ecc.
In questa
seconda Nobile Verità il DHAMMA ci sorprende ancora per la disincantata
noncuranza con cui evita qualsiasi pretesa di spiegare l'origine di
Terra e Cieli, di uomini e animali, di fenomeni e misteri, per giungere
piuttosto a scavare DENTRO DI NOI alla ricerca delle origini di DUKKHA,
la sofferenza.
Ciò che
interessa, nel buddismo, è l'interiorità: il mondo esterno ci riguarda,
tutto sommato, solo nella misura in cui esso si riflette dentro di noi.
Non è disinteresse: è consapevolezza dei propri limiti percettivi.
Se la
sofferenza è spesso considerata, dalle leggende religiose e profane, una
"punizione" del fato o di un dio, la sua origine è conseguentemente
attribuita ad una qualche "colpa" primordiale.
Vedi ad
esempio la biblica interpretazione della sofferenza umana come risultato
della cacciata dall'Eden, a sua volta provocata dalla colpevole
intenzione di avere desideri proibiti, o anche il mito di Prometeo e di
come egli abbia sfidato gli dei con la scoperta del fuoco, ricevendo una
sofferta punizione, e così via.
Nel buddismo non si parla mai in termini di colpe e di punizioni, semmai si parla semplicemente di cause e di effetti.
Se DUKKHA è dunque, come tutte le cose, l' effetto di una causa, qual'è mai questa causa?
La seconda
Nobile Verità ci avverte che la causa di tutte le esperienze di
sofferenza è l'avidità. L'attaccamento al desiderio, e non il desiderio
in sé stesso, è la causa primaria di ogni sofferenza.
Perché questo
attaccamento ai desideri? Perchè rappresentano la più comoda illusione
di sconfiggere DUKKHA. Ciò è un paradosso, perché alimentando i desideri
non solo non si elimina la sofferenza, ma si pongono le basi per
rafforzarla.
Nel racconto
greco del Vaso di Pandora leggiamo che oltre ai mali che affliggono
l'umanità, dal mitico vaso uscì anche la Speranza, affinché gli uomini
si potessero quantomeno ILLUDERE evitando così un suicidio di massa!
Ma se
l'origine di DUKKHA è l'attaccamento al desiderio, sarà rinunciando ad
esso che potremo farla cessare, senza l'inutile illusione basata su
generiche speranze.
Va detto che
come DUKKHA non è facilmente traducibile, anche il concetto di
"desiderio" inteso come ORIGINE di DUKKHA è molto più esteso nella
lingua Pali che in italiano.
Nei testi
buddisti del canone in lingua Pali, ciò che solitamente si traduce con
"desiderio" corrisponde a TANHA. Ma la miglior traduzione è "avidità",
perché TANHA sottintende sempre una valenza egoistica, mentre un
desiderio potrebbe anche essere del tutto nobile, come ad esempio il
desiderio di incamminarsi sul sentiero dell'illuminazione (a patto di
non farne un obiettivo da perseguire con bramosia, cosa paradossalmente
possibile!)
Molte persone
pensano erroneamente che la via buddista sia una via rinunciataria, al
contrario non v'è nulla di più ambizioso che illuminare la propria mente
per vedere e vivere la realtà così come essa è, senza illusioni e senza
cieca ignoranza.
Tale equivoco è però alimentato dalle inadeguate traduzioni della parola TANHA.
L'avidità da
cui ci si deve liberare sottintende una profonda paura dell'uomo circa
la sua condizione esistenziale. Essa è un istintivo attaccamento a
tutto, nella illusione che tale istinto compulsivo possa aiutarci ad
essere più attaccati alla vita stessa.
E' come la
disperata lotta di chi sta affogando: l'illusione di potersi afferrare
all'acqua in realtà peggiora la situazione con un drammatico quanto
inutile dimenarsi. E' una avidità di vivere che però porta alla morte.
Il "lasciarsi
andare" nell'acqua per poter galleggiare, illustra efficacemente il
tipo di atteggiamento di cui abbiamo bisogno per liberarci da TANHA.
La Terza Nobile Verità:"La cessazione della sofferenza"
Arriviamo
così alla terza Nobile Verità: la sofferenza può CESSARE. L'onnipresente
DUKKHA si puo' sconfiggere, a patto di riuscire a rinunciare a TAHNA,
ovvero al nostro istinto a rimanere attaccati ai nostri desideri.
Questo passo può sembrare difficile, e dal punto di vista della mentalità comune lo è certamente.
Ma tale
difficoltà non ha nulla a che fare con sforzi mentali, impegni
volontari, esercitazioni del pensiero. Al contrario, si tratta di
LASCIAR ANDARE.
Il punto è:
COSA lasciar andare, e COME? Le parole sono particolarmente inadeguate
quando ci addentriamo in questa terza Nobile Verità, perché si tratta di
realizzare un'ESPERIENZA che ci porta a vedere "improvvisamente" tutte
le cose in modo DIVERSO.
La cessazione
della sofferenza è un RISVEGLIO, una RINASCITA, una ILLUMINAZIONE....
finalmente ci accorgiamo che tutto è IMPERMANENTE e che non ha senso
correre o stare fermi, capire o non capire, definire o rimanere nel
mistero.
Non siamo più
schiavi del desiderio perché ci liberiamo DALLA SUA LOGICA di continua
ricerca di nuove sazietà, che sembrano rincorrere una infinita serie di
apparenze vuote.
La cessazione
della sofferenza ci rende immutabili anche di fronte all'esperienza
della morte: se non c'e' attaccamento, non c'e' sofferenza. Se si muore,
CHI è che muore? CHI è che nasce? CHI è che vive? Non fa differenza: le
cose accadono perché mosse dalla Legge Causa-Effetto. Tutto è
impermanente e tutto muta. Tutto si modifica e tutto si ripresenta.
Quando si
realizza la terza Nobile Verità si può avere la sensazione che il
sentiero del Buddha ci consenta di raggiungere un potere straordinario e
inatteso: chi si aspetterebbe che il buddismo, oltre ai corsi di
meditazione, oltre alla recitazione dei mantra, oltre a quelle che molti
ritengono delle semplici tecniche di autocontrollo psicofisico, potesse
realizzare una INESPRIMIBILE condizione di totale LIBERTA' dalle
angosce umane e dai bisogni illusori?
Eppure il
"segreto" di questa trasformazione in grado di ridefinire il nostro modo
di vedere e di sentire è tutto racchiuso nella semplice formula: "C'è
la cessazione della sofferenza".
Più
dettagliatamente, per realizzare il corretto atteggiamento mentale in
grado di condurci sul sentiero dell'illuminazione, abbiamo bisogno della
quarta ed ultima Nobile Verità. "C'è la via che porta alla cessazione della sofferenza", ovvero l'ottuplice sentiero.
La Quarta Nobile Verità:"La via che porta alla cessazione della sofferenza"
Qual'è la Nobile Verità del Sentiero che conduce alla cessazione di DUKKHA
La Quarta Nobile Verità afferma:
"C'è la via che porta alla cessazione della sofferenza"
"C'è la via che porta alla cessazione della sofferenza"
Qual'è la Nobile Verità del Sentiero che conduce alla cessazione di DUKKHA?
E' il Nobile Ottuplice Sentiero
e cioè:
Retta Comprensione (samma ditthi)
Retta Motivazione (samma sankappa)
Retta Parola (samma vaca)
Retta Azione (samma kammanta)
Retta Vita (samma ajiva)
Retto Sforzo (samma vayama)
Retta Consapevolezza (samma sati)
Retta Concentrazione (samma samadhi)
Questi otto
fattori costituiscono l'essenza dell'ideale di vita buddhista. Sono un
programma attentamente considerato di purificazione del pensiero, della
parola e delle azioni che ha come risultato finale la totale cessazione
dell'avidità e il conseguente sorgere dell'Illuminazione, la Perfetta
Saggezza.
Gli otto
fattori non sono tappe da percorrere in sequenza, una dopo l'altra,
bensì rappresentano una sinergia di elementi paragonabili ai fili
attorcigliati che formano un'unica fune.
E' tuttavia
inevitabile presentarli in sequenza, sebbene praticare l'Ottuplice
Sentiero non deve essere confuso con il semplice apprendimento teorico
del medesimo.
Retta Comprensione (samma ditthi)
La Retta
Comprensione ci accompagna per tutto il cammino dell'Ottuplice Sentiero.
Le convinzioni condizionano le azioni, ma anche il modo di percepire.
Comprendere rettamente è molto di più di un semplice sapere.
Comprendere
significa che dobbiamo lasciar andare il nostro istintivo attaccamento a
noi stessi, alle cose e alle persone, la passato, al presente e al
futuro, al desiderio e a tutti i nostri presunti bisogni.
Comprendere significa capire che l'avidità è sofferenza, l'attaccamento è sofferenza, il desiderio egoistico è sofferenza.
Il Buddha disse: "Che
cos'è la Retta Comprensione? La comprensione della sofferenza, la
comprensione dell'origine della sofferenza, la comprensione della
cessazione della sofferenza, la comprensione della via che conduce alla
cessazione della sofferenza".
Comprendere
significa dunque abbracciare le quattro Nobili Verità e fare di loro lo
strumento del nostro risveglio interiore, che ci consentirà di vedere in
modo completamente diverso tutte le cose, e cioè "semplicemente come
esse sono", senza il velo delle nostre illusorie percezioni.
Retta Motivazione (samma sankappa)
Questo fattore è anche tradotto con "Retto Pensiero".
Si tratta degli aspetti intenzionali e decisionali della mente, fermo restando che quelli cognitivi appartengono al primo fattore, cioè alla Retta Comprensione.
Si tratta degli aspetti intenzionali e decisionali della mente, fermo restando che quelli cognitivi appartengono al primo fattore, cioè alla Retta Comprensione.
La
diversificazione, come detto, è puramente concettuale, perché non si dà
intenzione senza una chiara visione. Tuttavia se la comprensione non è
"retta", nessun pensiero decisionale potrà essere efficace.
L'insegnamento
buddista precisa che la motivazione è "retta" quando realizza spinte
positive consistenti nel non-attaccamento, nell'amorevolezza e alla non
violenza.
Analogamente, bramosia, inimicizia e violenza impediranno lo sviluppo del Retto Pensiero.
Chi abbia
compreso la giustizia distributiva del KARMA, ovvero l'armoniosa Legge
di causa-effetto, perseguirà scopi in accordo con tale Legge, e le sue
motivazioni diverranno "rette" proprio perché scaturiranno da una mente
rinnovata, che spontaneamente tenderà sempre più a sviluppare
atteggiamenti benevoli verso tutto e tutti.
Attraverso le
pratiche meditative, viene facilitata l'acquisizione del giusto
atteggiamento mentale che, indipendentemente dalla nostra volontà
cosciente, potrà ribaltare la nostra istintiva avidità, trasformandola
in tranquilla rinuncia, in non-desiderio, in non-azione. Al tempo
stesso, anche la nostra istintiva avversione, o fuga dalla realtà,
troverà un opportuno "antidoto" nell'atteggiamento di benevolenza
universale, che sostituirà alla paura un "andare verso" le cose senza
alcun timore.
Retta Parola (samma vaca)
Retta Azione (samma kammanta)
Retta Vita (samma ajiva)
Retta Azione (samma kammanta)
Retta Vita (samma ajiva)
Unifichiamo
in una sola trattazione i tre fattori suddetti perché essi nel loro
insieme formano la prima ripartizione dell'Ottuplice Sentiero, ovvero la
disciplina morale (Silakkhandha).
Nel Buddismo
non esistono norme vere e proprie, fini a sé stesse o che impongono
obbedienza. E allora perché si parla di disciplina morale? Le intenzioni
non sono etiche, ma puramente spirituali, sebbene indirettamente
producano ANCHE un notevole risultato etico.
Il Dharma si
occupa molto di benessere sociale e di compassione per tutti gli esseri
viventi, tuttavia nell'ottuplice Sentiero le intenzioni sono interamente
dedicate alla liberazione individuale ed interiore da DUKKHA.
Il termine
pali SILA, tradotto con "etica", implica una sovrapposizione di
significati: una condotta conforme ai principi morali, i principi
stessi, le virtù che scaturiscono dalla "retta vita".
A differenza
delle religioni monoteistiche, che concettualizzando un dio
paternalistico sono costrette a sviluppare etiche di obbedienza, magari
all'insegna del timore, il Buddismo punta piuttosto ad una idea di
ARMONIA fra tutti gli esseri viventi e tutte le cose.
Quindi
nessuna indicazione andrà vissuta come rigidamente normativa, perché si
tratta di fattori che ci aiutano a liberarci da DUKKHA. Ecco perché non
ci interessa la semplice osservanza formale o l'applicazione troppo
letterale: piuttosto dobbiamo scavare con la mente dentro questi
principi per assaporarne il piacevole e benefico apporto.
Detto questo,
passiamo a commentare i tre passi che caratterizzano Silakkhandha.
Retta Parola: sia la forma verbale che scritta della comunicazione
possono avere enormi conseguenze. La parola può spezzare vite, creare
nemici, ma anche infondere saggezza e fondare la pace
Il Budda
espone quattro tipi di retta parola: astensione da parola falsa, da
parola che calunnia, da parola aspra e da parola oziosa.
Con Retta
Azione si intende, in generale, un uso appropriato di noi stessi e del
nostro corpo. Ovviamente l'aspetto principale della retta azione
riguarda il non nuocere agli altri, ma anche non prendere ciò che non è
dato. Si noti che non ci si limita all'astensione dal furto, ma anche da
un possesso troppo bramoso. Nella retta azione va considerato anche un
sano atteggiamento nei confronti della sessualità, rispettoso delle
esigenze, dei ruoli e degli impegni di ciascuno.
Con Retta
Vita si intende infine il guadagnare appropriatamente i mezzi di
sussistenza. Questo fattore è anche detto "Retti Mezzi". Tra i mezzi di
sussistenza nocivi a sé e agli altri, il Budda ne elenca almeno cinque:
commercio di armi, di esseri umani (ovviamente all'epoca del Budda
esisteva lo schiavismo), di carne, di veleni e di sostanze comunque
nocive alla salute.
In generale,
qualsiasi mezzo di sussistenza che dovesse implicare danno o sofferenza
negli altri va evitato. Questo è il corretto atteggiamento buddista,
indipendentemente dalla mera osservanza formale di regole.
Retto Sforzo (samma vayama)
La
purificazione della condotta attraverso i 3 precedenti fattori prepara
alla seconda partizione del sentiero: quella della Concentrazione
(Samadhikkhanda).
Attraverso
l'atteggiamento mentale etico di Silakkhandha (Parola - Azione - Mezzi
di vita) giungiamo cosi all'educazione mentale vera e propria,
costituita da: Retto Sforzo, Retta Consapevolezza, e Retta
Concentrazione.
Lo scopo
ultimo dell'ottuplice Sentiero è quello di produrre lo stato di visione
profonda (saggezza) che sarà lo strumento principale della liberazione
da DUKKHA.
Questo non
vuol dire che coloro che praticano l'ottuplice sentiero non possano
provare stati di dolore sia fisico che morale, ma certamente
l'atteggiamento con cui potranno affrontare tutte le cose sarà sempre
immune da illusioni, angosce, timori, preoccupazioni, a patto che si
realizzi correttamente la giusta visione di saggezza.
Tornando a
Samadhikkhanda (ovvero Sforzo - Consapevolezza - Concentrazione) un
esempio molto semplice illustra l'interazione di questi 3 fattori, e di
come essi concorrano insieme nel realizzare la Concentrazione.
Tre bambini
giocano in giardino, e decidono di cogliere i fiori di un albero, che
però è troppo alto. Allora, il primo bambino piega la schiena per far
salire il secondo, che però in una simile posizione precaria barcolla,
quindi il terzo bambino gli offre come appoggio la propria spalla.
Finalmente, grazie allo sforzo del primo bambino e all'appoggio del
terzo, il secondo bambino riesce a raggiungere i fiori.
Il bambino
che, sollevato, arriva ai fiori rappresenta la Concentrazione, la cui
funzione è quella di unificare la mente. Per farlo, ha bisogno delle
energie del retto sforzo (simboleggiato dal bambino che lo regge sulla
schiena) ma anche della stabile consapevolezza fornita dall'attenzione,
simboleggiata dal terzo bambino.
Il termine
"sforzo" non deve indurre a pensare che debba trattarsi di una fatica
mentale, in realtà si tratta di lasciar fluire la nostra energia che
richiede indubbiamente costanza e applicazione, tuttavia senza eccedere.
Si può pensare ad uno "sforzo senza sforzo". O anche, con le dovute
distinzioni, alla "forza della non-azione".
Resta il
fatto che ognuno è direttamente responsabile della propria liberazione.
Che il Buddismo produca personalità passive come vorrebbero alcuni
pregiudizi è totalmente inesatto, al contrario il cammino buddista non
aspetta miracoli dal Cielo, ma punta sull'educazione della mente, chiave
di volta dell'intero Sentiero.
L'inizio del
cammino dell'ottuplice Sentiero è infatti una mente inquinata,
contaminata e confusa; la realizzazione è la mente liberata, purificata e
illuminata dalla saggezza.
Questo stato,
oltre ad una corretta visione, crea una condizione particolarmente
favorevole a modificare il proprio karma, ottenendo facilmente dei
benefici di ogni tipo che ogni persona anche semplicemente incamminata
su questo Sentiero sperimenta innumerevoli volte, attraverso la
realizzazione di obiettivi, la significatività delle sincronicità
temporali, l'elevazione del proprio stato vitale.
Le tecniche
di meditazione e la recitazione dei mantra sono la "palestra mentale"
che facilita il raggiungimento di questi risultati e costituisce un
ottimo metodo per realizzare correttamente il Retto Sforzo.
Retta Consapevolezza (samma sati)
Il Buddha
afferma che il DHAMMA (Darma in sanscrito), la vera natura delle cose, è
direttamente conoscibile, senza tempo, e chiede di essere toccato e
visto, sebbene tale esperienza sia inesprimibile.
La verità
ultima è dunque dentro di noi, ma affinché divenga liberante, deve
essere vissuta. Non serve accettarla per fede, in virtù dell'autorità
dei testi o del maestro, né comprenderla intellettualmente.
La si deve
conoscere personalmente attraverso la visione profonda, la si deve
interiorizzare e fare propria, perché è un conoscere ma allo stesso
tempo un immediato vedere.
La parola in
lingua pali SATI viene tradotta con "consapevolezza", tuttavia un
significato più completo è "facoltà mentale che consente una visione
profonda e panoramica, centrata sul presente, emotivamente neutra e
distaccata".
La retta
Consapevolezza non è dunque il semplice "stato cosciente" bensì è una
coscienza portata ad un'intensità particolare in cui la mente è
mantenuta in uno stato di nuda attenzione, ovvero osservazione
distaccata di quanto sta accadendo dentro di noi e attorno a noi "qui ed
ora".
Consapevolezza
"senza scelta e senza giudizi", che osserva senza selezionare e senza
afferrare, e che non cede nella rete dei pensieri discriminanti.
nella pratica
della retta Consapevolezza, la mente viene educata a rimnanere nel
momento presente, aperta, calma e sollecita, tutta intesa all'esperienza
dell'evento attuale.
Giudizi e interpretazioni sono sospesi o, se si presentano, vengono registrati e subito abbandonati.
L'obiettivo è
la pura osservazione di tutto ciò che si produce nel momento in cui si
produce, cavalcando l'incalzare degli eventi come un abile surfista
cavalca le onde dell'oceano.
Ecco perché
molti maestri, specialmente nello Zen, istruiscono i loro discepoli con
affermazioni apparentemente enigmatiche del tipo: "quando mangi, mangia;
quando cammini, cammina..."
La mente
consapevole non oscilla tra passato e futuro ma resta ancorata nel
presente. Tale forza mentale può essere efficacemente utilizzata sia in
modo indirizzato sull'oggetto (obiettivo) che per produrre la visione
profonda di saggezza.
La retta
Consapevolezza viene anche coltivata mediante una pratica insegnata dal
BUDDHA stesso, chiamata "le quattro basi della presenza mentale", che
consiste nella contemplazione consapevole delle quattro sfere della
percezione: il corpo, le sensazioni, gli stati mentali e i fenomeni.
Retta Concentrazione (samma samadhi)
Lo stato di SAMADHI (tradotto con Concentrazione) è il risultato di una costante PRATICA MEDITATIVA.
Esso è
caratterizzato da un atteggiamento mentale "unificante", ovvero che
indirizza le energie mentali in una chiara direzione, senza dispersioni o
confusione.
Il SAMADHI non è realizzabile in presenza di contenuti distruttivi, come ad esempio l'aggressività.
La mente
concentrata ha due caratteristiche specifiche: l'incrollabile attenzione
verso un oggetto e la conseguente calma delle funzioni mentali. Qualità
che la differenziano nettamente dalla mente non concentrata, la quale
produce fatica mentale nel caso dell'attenzione, che sarà poi
inevitabilmente discontinua e inefficace.
SAGGEZZA o ILLUMINAZIONE
Benché la
Retta Concentrazione occupi l'ultimo posto fra i fattori del Nobile
Ottuplice Sentiero, non rappresenta il culmine del cammino. La
Concentrazione rende la mente salda e ferma, ne unifica i componenti,
spalanca paesaggi di beatitudine, forza e serenità. Ma, da sola, non
basta a raggiungere il fine più alto: la liberazione dalle catene di
DUKKHA per mezzo della saggezza, ovvero della mente finalmente
illuminata.
Per mettere
fine a DUKKHA occorre fare dell'Ottuplice Sentiero uno strumento di
elevazione spirituale e utilizzarlo per sviluppare la visione profonda
capace di svelare la verità ultima delle cose che, come detto
precedentemente, può realizzarsi solo attraverso l'esperienza personale,
secondo modalità particolari che sono specifiche di ognuno.
Fonte
http://www.fiorediloto.org/ottuplice.htm
http://divinetools-raja.blogspot.it/2014/06/buddha-solo-questo-insegno-la.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed:+RInteriore+%28R%C3%A8+Interiore%29
La Via del Ritorno... a Casa
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