Esclusiva: mentre Washington dedica molto rumore e furore alle richieste di una guerra più ampia in Siria e la necessità di allontanare i rifugiati siriani, democratici e repubblicani evitano la domanda più difficile: come affrontare l’Arabia Saudita sul suo finanziamento occulto di Stato islamico e al Qaida, scrive Daniel Lazare.
Come
lo SIIL finanzia le sue operazioni? Questa è la questione chiave mente
la guerra all’organizzazione terroristica passa a un nuovo livello dopo
le atrocità di Parigi. Ma la risposta dei media mainstream è parte del
problema. La risposta concessa, da molti capi politici e vari “esperti
del terrorismo”, è che lo SIIL (noto anche come Stato islamico e Daash)
finanzi le proprie attività con attività illecite come contrabbando di
antichità, sequestro di persona a scopo di estorsione, rapine di banche e
traffico di greggio dai giacimenti di petrolio che controlla nel nord
della Siria e d’Iraq.
La linea, doverosamente ripetuta a pappagallo da The New York Times a The Wall Street Journal e The Guardian,
è solo politicamente conveniente. Se lo SIIL fosse veramente
autosufficiente, essenzialmente sarebbe contenuto. Se fosse così, tutte
le potenze occidentali una volta bloccato l’auto-proclamato califfato,
dovrebbero solo inviare F-18 e Mirage 2000 per raderlo al suolo
con le bombe intelligenti. Questa è la filosofia che ispira le
sfortunate osservazioni del presidente Barack Obama del 12 novembre,
quando il conduttore dell’ABC George Stephanopoulos gli chiese se lo
SIIL si stava rafforzano, Obama rispose che semplicemente non era così:
“Ciò che è vero è che, fin dall’inizio, il nostro obiettivo è stato primo contenerlo, e l’abbiamo contenuto. Non è avanzato in Iraq. E in Siria come è entrato, se ne andrà. Ma non si vede questa marcia continua dello SIIL sul campo. Ciò che non possiamo fare ancora è decapitare completamente le loro strutture di comando e controllo. Abbiamo fatto qualche progresso nel tentativo di ridurre il flusso di combattenti stranieri“.
Contenerlo e decapitarlo, ecco l’essenza della
strategia degli Stati Uniti. Quindi, più l’amministrazione Obama cerca
di contenere militarmente lo SIIL, più si dice che è anche
autosufficiente economicamente. Ma cosa succederebbe se non lo fosse? In
realtà, ci sono tutte le ragioni d’essere scettici sulla posizione
degli Stati Uniti, e non solo perché i capi statunitensi sostengono
senza successo da quasi due decenni la lotta al terrorismo islamico, ma
anche perché è passato da alcune cellule sparse a un vasto movimento che
si estende dalla Nigeria al Bangladesh.
Esagerando le cifre
Quindi partiamo dal passato. L’anno scorso, NBC News riferiva col fiato sospeso che lo SIIL gestiva un contrabbando da 7 miliardi di dollari per finanziare le sue operazioni. “Pezzi di storia senza prezzo strappati da scavi illeciti o rubati dai musei sono diventati uno dei quattro beni più comuni, accanto a droga, armi ed esseri umani, trafficati da contrabbandieri“, dichiarava. Ma il totale di 7 miliardi di dollari è dubbio se si considera che il mercato dell’arte contemporanea, naturalmente legale, ammonta a soli 2 miliardi di dollari. I mercati neri ci sono, ma è impossibile misurarli per il semplice motivo che i partecipanti si disperdono come topi non appena le luci si accendono. Il ruolo dello SIIL, inoltre, è doppiamente difficile dato che opera sotto una copertura profonda.
Quindi partiamo dal passato. L’anno scorso, NBC News riferiva col fiato sospeso che lo SIIL gestiva un contrabbando da 7 miliardi di dollari per finanziare le sue operazioni. “Pezzi di storia senza prezzo strappati da scavi illeciti o rubati dai musei sono diventati uno dei quattro beni più comuni, accanto a droga, armi ed esseri umani, trafficati da contrabbandieri“, dichiarava. Ma il totale di 7 miliardi di dollari è dubbio se si considera che il mercato dell’arte contemporanea, naturalmente legale, ammonta a soli 2 miliardi di dollari. I mercati neri ci sono, ma è impossibile misurarli per il semplice motivo che i partecipanti si disperdono come topi non appena le luci si accendono. Il ruolo dello SIIL, inoltre, è doppiamente difficile dato che opera sotto una copertura profonda.
Ma sappiamo un
po’ di cose, una delle quali è che le antichità non si muovono
facilmente come, ad esempio, il mais o il grano. Al contrario, gli
acquirenti sono relativamente pochi e distanti tra loro, sono necessarie
valutazioni e la contrattazione è standard. Con così tanta polizia a
curiosare in giro, gli acquirenti sono particolarmente cauti per farsi
scoprire a finanziare lo SIIL. Così il ruolo delle antichità sembrerebbe
essere non più che accessorio. Lo stesso vale per le rapine in banca.
Anche se lo SIIL è ampiamente ritenuto aver sottratto 400 milioni quando
occupò Mosul, nel nord dell’Iraq, nel luglio 2014, il Financial Times
parlò della più grande rapina “mai successa”.
“Parliamo alle banche di lì sempre”, citava un funzionario bancario iracheno. “Siamo stati informati che tutte erano custodite dalle loro guardie e che nulla fu tolto dalle locali banche, nemmeno un pezzo di carta“.
Il
rapimento a scopo di estorsione sembra ancor meno redditizio per
l’economia del territorio controllato dallo SIIL che collassa. Idem per
la fiscalità locale. Mentre le vendite illegali di petrolio possono
svolgere un ruolo importante, probabilmente non sono così redditizie
come si crede. Supponendo fossero piani fino all’orlo, le 116
autocisterne che gli aerei statunitensi hanno distrutto il 16 novembre
avrebbero contenuto un centinaio di barili di greggio ognuna, che ai
prezzi attuali, lo SIIL sarebbe stato fortunato a vendere per 30 dollari
al barile.
Pertanto, il danno al “tesoro” dello Stato Islamico è
relativamente minore, 350mila dollari circa. Inoltre, lo SIIL è ormai
un’enorme operazione. Stime indicano il numero di militanti da 20000 a
31500 (secondo la CIA nel settembre 2014) fino a 200000, anche se 100000
sembra più plausibile. Costoro guadagnerebbero comunque da 350 a 800
dollari al mese. Sono numeri molto imprecisi, ma per lo meno
suggeriscono un’organizzazione con un budget mensile di decine di
milioni di dollari. Così i proventi di cento e rotti camion di petrolio
non spiegano come lo SIIL si finanzi. Né la speculazione sulla vendita
di antichità. Quindi, se lo Stato islamico non riceve la maggior parte
dei fondi da tali fonti, da dove proviene il denaro?
La connessione saudita
La
risposta politicamente sconveniente è dall’estero, vale a dire, da
altre parti del Medio Oriente, dove i giacimenti di petrolio non sono
marginali come nel nord della Siria e in Iraq, ma piuttosto ricchi e
produttivi; dove le raffinerie sono avanzate e il petrolio viaggia nelle
tubature anziché in camion. E’ anche un mercato in cui la corruzione è
massiccia, i controlli finanziari scarsi e le simpatie ideologiche per
SIIL e al-Qaida forti. Ciò significa dagli Stati arabi del
Golfo, Quwayt, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita; Paesi dalle
enormi riserve di ricchezza nonostante il crollo del 50 per cento del
prezzo del petrolio. Gli Stati del Golfo sono politicamente autocratici,
sunniti estremisti e, inoltre, bloccati in un brutto vicolo cieco
ideologico. Nel mondo, i sunniti sono quattro volte gli sciiti. Ma nelle
otto nazioni del Golfo Persico, la situazione è invertita, gli sciiti
superano i sunniti di quasi due a uno.
Più il mondo diventa teocratico, e
la teocrazia è una tendenza non solo nel mondo musulmano, ma in India,
Israele e persino Stati Uniti se certi repubblicani si affermano, più il
settarismo s’intensifica. Nella sua forma più semplice, il conflitto
tra sunniti e sciiti è una guerra di successione tra i seguaci di
Maometto, morto nel settimo secolo. Quando una parte ha sempre più
controllo politico in nome dell’Islam, il più vulnerabile dall’altra
parte viene accusato di avere pretese al potere sempre meno legittime.
La famiglia reale saudita, che si spaccia “custode delle due moschee
sante” di Mecca e Medina, è particolarmente sensibile a tali accuse, se
non altro perché la sua posizione politica sembra sempre più precaria. È
per questo che si è gettata nella crociata anti-sciita dallo Yemen al
Bahrayn e alla Siria.
Mentre Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia
condannano Bashar al-Assad come dittatore, non è il motivo per cui i
ribelli sunniti combattono per rovesciarlo. Lo fanno, invece, perché è
un alawita, una forma di sciismo, ramo dell’Islam che i petro-sceicchi
di Riyadh considerano una sfida alla loro stessa esistenza. La guerra
civile è raramente moderata, e come la lotta contro Assad s’intensifica,
il potere tra i ribelli passa a forze sunnite sempre più militanti,
fino ad al-Qaida e al rivale ancora più aggressivo SIIL. In
altre parole, lo Stato islamico non è interno e autosufficiente, ma
prodotto e beneficiario di forze più grandi, in sostanza un esercito
paramilitare di ascari degli sceicchi del Golfo. La prova dell’ampio
sostegno regionale è abbondante anche se la stampa, come il New York Times, fa di tutto per ignorarlo. Alcuni dei punti salienti della rotta del denaro:
– In una nota diplomatica del 2009 resa pubblica da Wikileaks, l’allora segretaria di Stato Hillary Clinton dichiarò che “i donatori sauditi costituiscono la principale fonte di finanziamento dei gruppi terroristici sunniti nel mondo“. (Al discorso aggressivo presso il Council on Foreign Relations, Clinton, ora la favorita alla nomination presidenziale democratica, concentrava i piani di escalation militare, tra cui l’invasione della Siria per “imporre la no-fly zone” e creare ciò che chiamava “zona di sicurezza”. Ma aggiungeva un breve ed esasperato riferimento alla realtà finanziaria, dicendo: “una volta per tutte, sauditi, qatarioti ed altri devono impedire ai loro cittadini di finanziare direttamente le organizzazioni estremiste come pure scuole e moschee nel mondo che radicalizzano troppi i giovani“).
– Un rapporto dell’agosto 2012 della Defense Intelligence Agency afferma che al-Qaida, salafiti e Fratellanza musulmana dominano il movimento ribelle in Siria e che loro obiettivo è creare un “principato salafita in Siria orientale“, dove ora c’è il califfato dello Stato islamico.
– L’articolo del Times di due mesi prima secondo cui la CIA collabora con i Fratelli musulmani per inviare via canale turco-saudita-qatariota armi ai ribelli sunniti in Siria.
– La notevole ammissione del vicepresidente Joe Biden alla Kennedy School di Harvard nell’ottobre 2014, secondo cui “sauditi, emirati, ecc… erano così decisi ad abbattere Assad ed essenzialmente a scatenare la guerra tra sunniti e sciiti… (che) hanno speso centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi per tutti coloro che combattono contro Assad, tranne che coloro che rifornivano erano al-Nusra e al-Qaida“.
– L’editoriale del Times del mese scorso che lamentava come sauditi, quwaytiani e qatarioti continuino a finanziare lo Stato islamico.
– Infine, in un articolo in prima pagina, il Times tardivamente riconosceva il devastante rapporto della DIA, solo sei mesi dopo essere stato pubblicato dal gruppo di osservazione conservatore Judicial Watch. Ma anche allora, il giornalista Ian Fisher riusciva ad evitare la parte più importante, e cioè che la roccaforte salafita che i sunniti cercano di creare è “esattamente ciò che le potenze che supportano l’opposizione“, cioè occidente, Stati del Golfo e Turchia, “vogliono per isolare il regime siriano“. Asserendo che ci sono “molte filiere colpevoli” della debacle, Fisher riusciva a criticare tutti tranne la propria testata.
Chiacchiere sui soldi
Perché dire la verità è così difficile? Grande parte della risposta è il denaro. Perché Stati Uniti, Francia e le altre potenze occidentali dipendono dagli Stati del Golfo per il petrolio e li vedono g come un mercato sempre più importante per le armi ad alta tecnologia. Proprio il mese scorso, il Pentagono ha annunciato di vendere ai sauditi 4 navi da combattimento litoranee realizzate dalla Lockheed per 11,25 miliardi di dollari, mentre la scorsa settimana appariva la notizia che vendeva ai sauditi 1,29 miliardi di bombe intelligenti prodotte da Boeing e Raytheon in sostituzione di quelle sganciate sullo Yemen nella crociata contro gli sciiti huthi. Gli USA riforniscono quindi i sauditi di bombe con cui radono al suolo quartieri yemeniti, creando rifugiati e, nel frattempo, rafforzando “al-Qaida nella Penisola Araba” in modo che gli Stati Uniti possano inviarvi droni per eliminare un paio di alqaidisti. Ognuno ci guadagna, fabbricanti d’armi, politici del Pentagono e di Washington, i Clinton che beneficiano della generosità saudita, ed anche al-Qaida che, mentre può perdere qualcuno, vede il proprio potere crescere.
Perché dire la verità è così difficile? Grande parte della risposta è il denaro. Perché Stati Uniti, Francia e le altre potenze occidentali dipendono dagli Stati del Golfo per il petrolio e li vedono g come un mercato sempre più importante per le armi ad alta tecnologia. Proprio il mese scorso, il Pentagono ha annunciato di vendere ai sauditi 4 navi da combattimento litoranee realizzate dalla Lockheed per 11,25 miliardi di dollari, mentre la scorsa settimana appariva la notizia che vendeva ai sauditi 1,29 miliardi di bombe intelligenti prodotte da Boeing e Raytheon in sostituzione di quelle sganciate sullo Yemen nella crociata contro gli sciiti huthi. Gli USA riforniscono quindi i sauditi di bombe con cui radono al suolo quartieri yemeniti, creando rifugiati e, nel frattempo, rafforzando “al-Qaida nella Penisola Araba” in modo che gli Stati Uniti possano inviarvi droni per eliminare un paio di alqaidisti. Ognuno ci guadagna, fabbricanti d’armi, politici del Pentagono e di Washington, i Clinton che beneficiano della generosità saudita, ed anche al-Qaida che, mentre può perdere qualcuno, vede il proprio potere crescere.
Far notare i soldi che da Arabia Saudita e altri Stati
del Golfo finiscono ai gruppi responsabili della carneficina a Parigi,
metterebbe a rischio tale mutuo rapporto vantaggioso. Mettere a
repentaglio tale redditizio ciclo del denaro è una cosa che Washington
non può sopportare, motivo per cui l’amministrazione Obama preferisce
fare credere che lo SIIL sia autosufficiente e che possa essere
paralizzato da azioni militari come bombardare un convoglio di
autocisterne di petrolio. Mentre in Europa esplode la xenofobia, il vero
problema non sono gli arabi o l’Islam, ma lo “speciale” rapporto
Usa-Arabia Saudita, che sarebbe ancora più sacro del rapporto con
Israele. È un’alleanza che pretende che gli Stati Uniti non vedano,
sentano o parlino male del principale partner arabo. Quindi, Washington
copre la vera causa degli orrori che vanno dal World Trade Center al Bataclan e alla guerra civile siriana.
Finché tale rapporto “speciale” USA-Arabia Saudita Saudita continua, i cadaveri continueranno ad accumularsi.
Daniel Lazare, Consortium News, 20 novembre 2015
Daniel Lazare è autore di diversi libri tra cui La Repubblica congelata: come la Costituzione paralizza la democrazia (Harcourt Brace).
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
https://aurorasito.wordpress.com/2015/11/23/i-legami-dei-sauditi-con-il-terrorismo/
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