lunedì 3 febbraio 2014

Perché non si può dire la Verità

24 ottobre 1990. Giulio Andreotti davanti al parlamento italiano e al mondo interno rivela l’esistenza di Gladio, struttura nata da accordi bilaterali con gli Stati Uniti il cui scopo ufficioso era quello di fronteggiare un’eventuale invasione dell’Armata rossa. Così facendo, il 7 volte presidente del Consiglio innesca un meccanismo che entro poco tempo darà in pasto all’opinione pubblica internazionale tutte le reti stay-behind sparse nell’Europa occidentale.

Le reazioni dal vecchio e dal nuovo continente non si fanno attendere. A detta del generale Paolo Inzerilli, capo della rete clandestina italiana dal 1974 al 1986, i cugini francesi erano “incavolati per le nostre rivelazioni” mentre gli statunitensi volevano sapere fino a che punto l'organizzazione Gladio fosse stata “sputtanata”.

E’ forse questo l’inizio della fine dello strapotere di Giulio Andreotti ?

Un dato interessante: tre giorni dopo le rivelazioni di Andreotti (il 27 ottobre 1990) esordisce in Italia una nuova sigla terroristica, la Falange Armata.

Questa sigla (dietro cui hanno operato alcuni elementi mai identificati del nostro servizio segreto militare) si renderà protagonista di una delle più grandi “intuizioni” nella storia della nostra Repubblica.

Il 21 giugno del 1991, quando Cosa Nostra non aveva ancora deciso di attuare un piano d’attacco frontale allo Stato (messo poi in atto qualche mese dopo), in quanto stava ancora aspettando il “buon” esito del Maxiprocesso giunto ormai in Cassazione, la Falange recapitò all’agenzia ANSA di Firenze un comunicato in cui si anticipavano di ben 9 mesi tutti i luoghi delle future azioni terroristiche della mafia e della famigerata "banda della Uno bianca".

Nel comunicato in questione si legge che "città e regioni di particolare significato politico e strategico saranno considerate Milano, Roma, la regione Emilia Romagna e la Sicilia".

Ora, dando per buono che dietro alla Falange ci fossero elementi dei Servizi, ...
... come testimoniano (o quantomeno fanno intuire) persone del calibro di Libero Gualtieri (primo presidente della Commissione stragi), Vincenzo Parisi (storico capo della polizia italiana), Francesco Paolo Fulci (ambasciatore ed ex direttore del Cesis) e Fabio Piselli (ex parà della Folgore), come si spiega questo fatto ?

Come è possibile che prima della delibera di Salvatore Riina alla campagna stragista del 1992-1993 elementi interni al Sismi sapessero?
E’ possibile che Cosa Nostra, indipendentemente dall’esito del Maxiprocesso, avesse deciso di portare avanti le “sue” azioni eclatanti?

Si, è possibile.

Questa possibilità viene corroborata dall’inchiesta palermitana “Sistemi criminali”. Dall’archiviazione del gip Fasciana della procura di Palermo:  
"Il presente procedimento ha avuto per (unico ed esclusivo) oggetto la verifica dell’ipotesi investigativa secondo cui la strategia d’attacco di Cosa Nostra, iniziata a Palermo con l’omicidio dell’on. Salvo Lima nel 1992, ha costituito l’attuazione del programma criminoso di un’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine costituzionale, costituita fra il 1990 ed il 1991, nel quale sono confluiti soggetti diversi e portatori di interessi talvolta eterogenei ma comunque convergenti: e cioè, uomini di vertice di Cosa Nostra (in particolare, appartenenti allo schieramento corleonese e particolarmente vicini a Totò Riina), uomini provenienti dalle fila della massoneria “deviata” e dall’eversione nera, a loro volta legati alla medesima organizzazione mafiosa Cosa Nostra (nelle sue varie articolazioni territoriali) o ad altre mafie nazionali, come la ‘ndrangheta calabrese, risultate anch’esse interessate nel medesimo periodo storico a partecipare attivamente ad un progetto eversivo-criminale."
L’obiettivo di questa operazione era “l’azzeramento del quadro politico-istituzionale nazionale” tramite la creazione di formazioni leghiste nel centro-sud. Creazione accompagnata da vere e proprie operazioni terroristiche volte a destabilizzare quel “quadro politico-istituzionale” da cancellare.

Detto in parole povere, un vero e proprio colpo di Stato.

Tra gli imputati dell’inchiesta, spiccano i nomi di due “big” dell’eversione italiana: Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli; il “venerabile”, fino al marzo del 1981 (giorno in cui vennero scoperti dalla guardia di finanza gli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2), aveva in tasca tutti i vertici degli apparati di sicurezza italiani.

Ma torniamo alla nostra domanda principale…

Un altro motivo per cui elementi interni al Sismi e alle nostre forze armate potevano conoscere con largo anticipo le mosse di Cosa Nostra era perché Gladio, gestita dalla 7° divisione del Servizio, aveva una sua base a Trapani.

Il cosiddetto “Centro Scorpione”, base di Gladio in Sicilia almeno dal 1987, si pone in una realtà (quella di Trapani appunto) riassunta con puntualità dal colonnello del Sismi Paolo Fornaro, che al Centro Scorpione ci ha lavorato:  
"Io dovevo lavorare a Trapani, dove avevamo visto che c’era una specialissima pax mafiosa. In un anno, appena sette scippi. Ma a venti chilometri di distanza era l’inferno. E poi, troppe banche, troppe finanziarie. Mi lasci anche dire, troppe logge massoniche sospette con dentro magistrati e investigatori"(1).
Una “specialissima pax mafiosa” che viene descritta dall’ex boss di Caccamo Antonino Giuffrè:
 "Allo stato attuale Trapani e in particolare il paese di Castellammare del Golfo rappresentano una delle zone più forti della mafia, non solo perché la meno colpita dalle Forze dell'ordine, ma soprattutto perché punto di riferimento non solo di traffici normali, come droga e armi, ma anche luogo dove si incontrano alcune componenti che girano intorno alla mafia. E' un punto di incontro della massoneria, ma anche per i servizi segreti deviati"(2).
Servizi deviati.
Una coincidenza: uno dei due personaggi che hanno diretto il misterioso “Centro Scorpione” (misterioso perché ben due inchieste della magistratura non sono riuscite a stabilire le funzioni della base) è sempre stato sospettato, a torto o ragione, di aver fatto parte della Falange Armata.

Si tratta del maresciallo Vincenzo Li Causi. Nato a Partanna in provincia di Trapani, entra nel servizio segreto militare a soli ventidue anni (siamo nel 1974) e nell'Organizzazione Gladio tre anni più tardi.
Li Causi, esperto in telecomunicazioni, faceva parte degli Operatori Speciali dei Servizi Italiani (la cosiddetta sezione “K”), struttura che poteva usufruire di grande autonomia operativa e gestionale in quanto rigidamente compartimentata. La “K” inoltre, beneficiava di finanziamenti propri; da dove provenissero questi finanziamenti non è dato sapere.

Istituiti dal generale Paolo Inzerilli, gli OSSI si raggruppavano in nuclei di quattro persone chiamati Gos (Gruppi Operazioni Speciali), costituiti da uno specialista explos-sabotaggio e da uno armi e tiro con il compito di condurre sia azioni "dirette" ("condotte direttamente contro il nemico e il suo potenziale bellico con scopi informativi, di sabotaggio, di disturbo") che "indirette" ("attività di promozione e organizzazione della resistenza, supporto a unità della resistenza"). Il reclutamento degli operatori avveniva mediante la selezione di personale di leva delle forze armate.

Indagini riservate della polizia infatti, ritengano che la Falange Armata sia nata a Livorno, proprio all’interno della caserma Vannucci dei paracadutisti della Folgore.

“Pescare” all’interno della caserma era compito del generale Musumeci e del colonnello Belmonte, ambedue condannati in via definitiva per i depistaggi nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 1980.
La sezione “K” salirà alla ribalta delle cronache quando verrà dichiarata dalla seconda Corte d’Assise di Roma (nel 1997), eversiva dell’ordine costituzionale, in quanto reparto militare che operava al di fuori dell’ambito delle Forze armate, che, com'è noto, dipendono dal Capo dello Stato.
Chiusa la parentesi, torniamo a Li Causi.

Come abbiamo visto poco sopra, tra il 1987 e il 1990, il maresciallo dirige il “Centro Scorpione” di Trapani: una delle cinque basi di addestramento di Gladio.

Finita ufficialmente la sua avventura siciliana, Li Causi farà la spola dall’Italia alla Somalia fino al giorno della sua morte, il 12 novembre 1993.

Una morte avvenuta in circostanze mai chiarite. Circostanze mai chiarite perché forse Li Causi sapeva troppo. E quel “troppo”, forse, lo stava raccontando.

Certi dicono che lo stesse raccontando addirittura alla giornalista Ilaria Alpi: anche lei deceduta in Somalia per morte violenta qualche mese dopo il maresciallo. Se questo fosse vero, si aprirebbe una pista che definire allucinante sarebbe estremamente riduttivo.

La Alpi infatti stava indagando su una flotta italo-somala (la Shifco), ufficialmente dedita alla pesca e al commercio di prodotti ittici provenienti dal Corno d’Africa, che in realtà trafficava su scala internazionale in armi.

Lo dice lo stesso Sismi in una nota datata maggio-giugno 1993:[i]“Si è appreso che presso il porto di Livorno avrebbe fatto scalo, per lunghi periodi, un peschereccio battente bandiera somala di colore bianco, di proprietà della Shifco, che sarebbe in realtà stato utilizzato per un traffico internazionale di armi”.
La nave a cui si riferisce l’appunto del Sismi è la 21 Oktobar II, un peschereccio che sta al centro di una delle tragedie (mai raccontate fino in fondo) del nostro paese: la Moby Prince.

La nave infatti, la sera del disastro che costò la vita a centoquaranta innocenti, era nella rada di Livorno: il teatro della sciagura. In rada quella sera (10 aprile 1991), si stava svolgendo un traffico illegale d’armi condotto da apparati militari italiani e statunitensi utilizzando navi militarizzate e civili (alcune di esse mai identificate).

Ed ecco i fatti da shock anafilattico.

Primo. La flotta Shifco, di cui la 21 Oktobar II era l’ammiraglia, era partner di Monzer Al-Kassar, trafficante siriano legato agli americani dai tempi dello scandalo Iran-Contras; un rapporto successivamente consolidato (tramite la CIA) durante la crisi degli ostaggi americani in Iran all’indomani della rivoluzione dell’ayatollah Khomeini. Al-Kassar, inoltre, poteva beneficiare di ottime entrature in Argentina, dove Licio Gelli era una sorta di ministro occulto.

Secondo. Alla fine del 1990, Al Kassar aveva acquistato in Spagna una gigantesca partita di esplosivo militare RDX (T4) per conto di una società di copertura dei servizi segreti polacchi (la Cenrex Trading Corporation di Varsavia). Il WSI (i servizi segreti polacchi), già nel 1990, all’indomani del crollo del muro di Berlino, erano sostanzialmente una succursale della CIA. E’ provato inoltre che il WSI, tramite l'agente “Wolfang Frankl” (nome di copertura), abbia svolto operazioni di riciclaggio insieme alla mafia italiana.

Terzo. Secondo la perizia del dottor Alessandro Massari, ex responsabile a livello nazionale della parte chimica della Polizia Scientifica, in alcuni locali del Moby Prince si sono trovate tracce di RDX (T4) e di altre sostanze esplosive. Curiosamente, l’RDX (T4), è l’unico componente degli ordigni usati nel biennio 1992-1993 di cui non si è riusciti a stabilire con certezza la provenienza.

Quarto. L’avvocato ed ex magistrato Carlo Palermo (legale dei figli del comandante Chessa, morto sul Moby) ha scoperto che la sera della tragedia del traghetto c’era un ingente traffico di materiale bellico in uscita dalla base di Camp Darby. La base NATO situata tra Pisa e Livorno, va ricordato, è una delle principali e più ambigue basi americane in Italia: non sono stati mai del tutto chiariti infatti i suoi rapporti con alcuni militanti di Ordine Nuovo (l’ordinovista Marcello Soffiati ad esempio, disponeva addirittura di una mappa della base) e con la stessa organizzazione Gladio. L’agente della CIA Mark Wyatt, indicherà Camp Darby (dieci anni dopo l’inchiesta “pionieristica” del giudice Felice Casson) come “base responsabile” della stay-behind italiana.

Quinto. Anche Al-Kassar (come il WSI con cui ha collaborato per l’acquisto della gigantesca partita d’esplosivo militare) è in contatto con Cosa Nostra: più precisamente con i catanesi di Nitto Santapaola. Questo è un dato di primaria importanza visto che l’ex procuratore capo di Firenze Pier Luigi Vigna, davanti alla commissione antimafia, ha testimoniato che "un mercato attrattivo, almeno di passaggio, ma anche per insediamento, in Toscana è quello delle armi. Circa un anno prima della strage di Capaci (mi riferisco quindi all'aprile 1991), abbiamo avuto passaggi molto consistenti, effettuati da soggetti di organizzazioni toscane (questa volta imperniate sui catanesi), di esplosivi e congegni per accensione di esplosivi diretti a Catania".

Sesto. Qui la parola passa al collaboratore di giustizia catanese Filippo Malvagna, nipote di Giuseppe Pulvirenti detto 'u Malpassotu (boss appartenente alla commissione regionale di Cosa Nostra):  
“Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti ritengo, nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima, e ritengo pertanto verso la fine del 1991, si era svolta in provincia di Enna [...] una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture. [...] Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace". Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sullo Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla "Falange Armata"”(3).
Per uno strano caso del destino, il 2 febbraio 2009, a Cerveteri (dov'era situata la principale base operativa dell'ormai dissolta sezione “K”), fu ucciso in un incidente stradale proprio Giuseppe Pulvirenti. Di Catania, inoltre, è anche chi ha preparato l’ordigno utilizzato a Capaci per far fuori Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la loro Scorta. Il suo nome è Pietro Rampulla, conosciuto dal comando dall’Arma dei Carabinieri di Caltagirone, dal lontano 1983, come elemento di spicco della “famiglia” catanese facente capo al boss Santapaola.

Un’informativa della Direzione investigativa antimafia del 1994 lo descrive come un  
“esperto manipolatore di esplosivi, noto sotto questa veste fin dal 1988, allorquando [il collaboratore di giustizia] Calderone Antonino in questi termini lo descrive e lo definisce. Oltre che mafioso, il Rampulla vanta pregiudizi di natura politica [...]. Nel corso degli studi presso l'università di Messina collezionò una serie di denunce per occupazione di facoltà ed episodi di violenza nell'ambito di contestazioni studentesche [...]. A tale periodo risale infatti la sua adesione a Ordine Nuovo e la sua conoscenza con Cattafi Rosario, unitamente al quale fu denunciato e successivamente condannato per lesioni. [...] Cattafi [...] anch'egli militante di Ordine Nuovo, nei primi anni Settanta ha vissuto le medesime esperienze del Rampulla venendo più volte denunciato. [...]. Il 30 maggio 1984 fu [...] arrestato in Svizzera perché colpito da ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Milano per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione e traffico di stupefacenti, reati per i quali successivamente fu assolto per insufficienza di prove. [...] Sempre dalle indagini condotte dalla Procura di Milano emergevano, inoltre, non meglio chiariti rapporti tra Cattafi e presunti appartenenti ai Servizi Segreti. Le investigazioni, in effetti, consentirono di accertare la sua veste di mediatore di armi che venivano reperite in Svizzera. [...]. Nella requisitoria del dottor Di Maggio, datata 30 aprile 1986, a confronto di quanto appena detto, si accenna all'esistenza di un documento attestante la mediazione del Cattafi per la cessione di una partita di cannoni della Oerlikon Suisse all'Emirato di Abu Dhabi”.
Cattafi, boss di Barcellona Pozzo di Gotto, si è autoproclamato (nel 2012) intermediatore di un’ennesima trattativa tra stato e mafia. Questa trattativa sarebbe iniziata nel giugno del ’93. I protagonisti furono (sempre a detta di Cattafi): il boss Santapaola e il numero due del Dap (Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) Francesco Di Maggio. Lo scopo dell’apertura di questo ulteriore canale di trattativa era quello di fermare le stragi attraverso l’alleggerimento del regime di 41bis ai detenuti mafiosi.

Di Maggio, insediatosi nello stesso mese in cui avrebbe preso contatto con Cattafi, era stato nominato vicedirettore del Dap nonostante non avesse i titoli richiesti dalla legge.

“Va ricordato”, scrive il gip Morosini nel rinvio a giudizio per l’iniziativa portata avanti dal Ros dei Carabinieri all’indomani della strage di Capaci,  
“che la Falange Armata, il 14 giugno 1993, ebbe modo di manifestare la sua soddisfazione per la nomina del dott. Adalberto Capriotti come direttore del DAP, al posto del dott. Nicolò Amato [inflessibile, a differenza di Capriotti e Di Maggio, sul carcere duro ai mafiosi]”.
Un altro comunicato “chiave” che fa comprendere la profonda conoscenza della Falange di queste trame, è quello fatto recapitare per via informatica all’agenzia di stampa Adnkronos nel dicembre del ’94, in cui il misterioso soggetto destabilizzante si vanterà (sono parole loro) di avere a disposizione “strumenti informatici provenienti da servizi segreti stranieri che ci consentono di effettuare intercettazioni in ogni situazione”.

Per capire in pieno il significato di questo ennesimo enigma che va a comporre il puzzle falangista, bisogna prima raccontare la storia del boss Antonino Gioè: uno dei protagonisti dell’azione di Capaci contro il giudice Falcone.

Nella "biografia non autorizzata" di Gioè si scorge subito un'anomalia: secondo l'ex-parà della Folgore Fabio Piselli, il boss di Altofonte era "un ex sottufficiale dei paracadutisti", e quindi "il ministero [della Difesa] lo conosceva bene"(4).

Impossibile? Forse. O forse no.

Cito dal libro del procuratore Luca Tescaroli (pubblica accusa nel processo per la strage di Capaci) “Obiettivo Falcone”: 
“[Francesco] Di Carlo [altro boss altofontese], nel corso del dibattimento inerente al fallito attentato all'Addaura, ha riferito di aver ricevuto, intorno al 1990, quindi dopo il fallito attentato dell'Addaura, due visite all'interno dell'istituto penitenziario di Full Sutton [situato in Inghilterra], da parte di soggetti appartenenti ai servizi segreti. Di Carlo ha correlato questi colloqui al proposito di eliminazione di Giovanni Falcone. Più in particolare, ha riferito che, nell'istituto penitenziario [...] si è trovato a condividere, dall'86, il regime carcerario con Nezzar Hindawi, soggetto di origine palestinese, che aveva lavorato per i servizi segreti siriani, coinvolto nell'attentato all'aereo di linea caduto in Scozia che provocò la morte di circa 300 persone [la strage di Lockerbie]. [...]. Nezzar Hindawi era riuscito a procurargli un incontro con soggetti provenienti da Roma, uno dei quali verosimilmente di nazionalità italiana, mentre gli altri tre provenienti da altri Paesi, tutti appartenenti o, comunque, in contatto, secondo quanto riferitogli da Hindawi, con i servizi segreti arabi con ruoli di comando. [...]. 
Questi appartenenti alle strutture dei servizi segreti, gli hanno richiesto un supporto per un progetto di eliminazione di Giovanni Falcone al quale, in Italia, alcuni personaggi già stavano lavorando. Gli chiesero se poteva fornire loro un'indicazione di individui in grado di agevolare l'esecuzione di un attentato. Francesco Di Carlo, avendo motivi di rancore personale nei confronti di Falcone, che lo "aveva fatto condannare", forniva loro il nominativo di suo cugino Antonino Gioè, il quale, poi, veniva effettivamente contattato. Lo stesso Di Carlo, successivamente, avvertiva Gioè di essere cauto con tali personaggi. […] Di Carlo ha riferito anche di un secondo incontro, svoltosi a distanza di 4-6 mesi dal primo, una sera intorno alle 20, con quattro personaggi dall'accento americano o inglese, che, mostrando di essere a conoscenza del precedente incontro, lo invitavano a collaborare con la giustizia, chiedendogli informazioni sull'omicidio del banchiere Roberto Calvi e minacciandolo di morte. Di Carlo ha aggiunto, inoltre, di aver fatto avere a Salvatore Riina, tramite suo fratello Giulio [...] e [...] Antonino Gioè, una lettera con la quale spiegava quanto era accaduto e di aver avuto, in seguito, nel corso di un colloquio telefonico, assicurazioni da parte di Riina, che lo ha tranquillizzato con la promessa che si sarebbe occupato della situazione e avrebbe risolto il problema”.
"Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose", dice Gioè al cugino Di Carlo. Che Di Carlo non millanta è provato da due elementi. Il primo, scrive sempre Tescaroli, è l’inspiegabile “riottosa indisponibilità delle autorità della Gran Bretagna a collaborare per l'espletamento della commissione rogatoria richiesta, tesa a verificare le […] indicazioni [del Di Carlo]”.

Il secondo è una consulenza fatta dall’ex direttore della "Zona Telecomunicazioni del Ministero dell'Interno per la Sicilia Occidentale" Gioacchino Genchi.

Cito dal libro di Edoardo Montolli “Il caso Genchi”:  
“[Nel novembre del '92] la Procura di Palermo […] ha affidato [a Genchi] una consulenza su un caso molto singolare: in una villetta vicino a Capaci è stato sequestrato un laboratorio clandestino per le clonazioni di cellulari, di certo Claudio Brambilla, originario di Vimercate, nel milanese, uno che si occupa di ponti radio. Una vicenda che racconta più di mille collaboratori di giustizia. [...] Genchi non sa ancora che quella [consulenza] conferitagli da[i magistrati Vittorio] Aliquò, Giuseppe Pignatone e Franco Lo voi, è la madre di tutte le sue consulenze. Ma sa che c'è un modo, da qualche tempo, per comunicare senza lasciare traccia: clonando i telefonini. I primi cellulari, in voga all'epoca, sono i cosiddetti etacs, non hanno schede da inserire all'interno del telefono. L'attivazione funziona solo su contratto ed è quindi legata al numero di casa o dell'ufficio, dell'utente. Per farli funzionare, sui terminali della Sip (l'ex Telecom) devono quindi corrispondere due soli dati: il numero seriale registrato all'interno dell'eprom - la memoria del cellulare - e il numero telefonico che a quel seriale è stato abbinato dalla stessa Sip. Dal Nord Europa sono arrivati però sofisticati software in grado di azzerare le eprom dei cellulari, esponendole ai raggi ultravioletti, e di riprogrammarle con un nuovo numero seriale. Ed è una pratica che funziona soprattutto con i telefonini Nec P300. 
Quindi, se uno vuole clonare l'apparecchio di un altro, è sufficiente che se ne procuri uno qualsiasi. Poi, naturalmente, deve conoscere il numero di telefono e il codice seriale di chi vuole clonare. Per il numero [...] basta farselo dare. Quanto al seriale, serve solo qualche accorgimento. [...] Perché per rubare il numero seriale a qualcuno bisogna fisicamente prendergli il telefonino, aprirlo, leggerselo e appuntarselo. [...]. Altrimenti l'alternativa, più sottile, è una sola: avere una talpa alla Sip, che dal terminale fornisca sia il numero di telefono che il seriale di una vittima qualunque. Con in mano il doppio codice, la gran parte del lavoro è fatta. La gran parte. Perché ora, con i dati sufficienti a fare funzionare un nuovo apparecchio alla Sip, serve chi cancelli la memoria vecchia e la riprogrammi, copiando numero e seriale dell'altro: poi, da un solo cellulare, potranno arrivare anche decine di cloni. [Genchi:]"Siccome a ogni numero corrispondeva esclusivamente un apparecchio telefonico, c'era chi si clonava il proprio per averne un secondo, magari da usare in auto. Ma, naturalmente, era la clonazione per compiere i reati la più diffusa. Per esempio con le linee 144, che guadagnavano direttamente dalle bollette degli utenti. I titolari dei centralini compravano una batteria di telefonini, poi cancellavano le memorie e clonavano quelli di altri: con i telefoni clonati poi chiamavano le proprie linee a spese di ignare persone che si vedevano affibbiare bollette stratosferiche. Che intascavano, in parte le hot line e in parte la Sip".
Ma la clonazione serve soprattutto a criminali più pericolosi. E nella villetta vicino Capaci dove ha fatto irruzione la polizia [...] c'era un vero e proprio laboratorio attrezzato per le operazioni: con i raggi ultravioletti si cancellavano le memorie, si collegava il telefonino al pc, si inserivano i numeri telefonici e i seriali copiati. E tutto era risolto. Si chiama clonazione statica. Volendo, si possono anche ascoltare le chiamate che il clonato riceve: perché ovviamente, quando qualcuno chiama, sono due i cellulari che squillano. E usando accortezza, senza rispondere subito, è così possibile sentire tutto. [Genchi:]"A capo dell'organizzazione della villetta di Capaci, c'era certo Saverio Stendardo, radiato dalla guardia di finanza. E fu da un particolare file sul suo computer che prese corpo l'indagine sui cellulari clonati in mano ai mafiosi". Il file Motorola.log. Ci sono inseriti, in sequenza, numeri telefonici e numeri seriali. Ma quanto importanti è ancora troppo presto saperlo […] [Genchi:]"Grazie alla decodifica del file Motorola.log, si ricostruirono centinaia di clonazioni eseguite in varie parti d'Italia. E furono individuati i referenti esteri presso la Motorola inglese e presso la Nec, in Olanda, da cui erano partiti i programmi per replicare i seriali. Un patrimonio d'informazioni che consentirà, nel giro di pochi anni l'apertura di decine di fascicoli d'indagini con centinaia di arresti in tutta Italia". In via Ughetti [a Palermo], nel frattempo [il 19 marzo 1993], [...] la polizia ha arrestato Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera. [...] Nel covo di via Ughetti vengono […] recuperati dei cellulari. Anche questi clonati. I più importanti.

Purtroppo a Genchi verranno dati soltanto a fine anno. Ma a un mese dall'elogio di Aliquò a Palermo [siamo nel maggio del '93], il commissario capo ha scovato anche i meccanismi della clonazione dinamica messi a punto dai mafiosi. Che è molto, molto più avanzata di quella statica: in sostanza, il laboratorio non serve più. Attraverso nuovi programmi, sempre provenienti dal Nord Europa, è possibile clonare un cellulare più volte, cancellando memorie, inserendo nuovi numeri e seriali direttamente dalla tastiera del telefonino. Nessun rischio che qualche tecnico, beccato in flagrante, confessi. E' molto più rapido. E si può fare anche di meglio, con i telefoni clonati dinamicamente si può spiare. Basta piazzarsi dove la "cella" di zona aggancia il telefono vittima, programmarne il numero. E ascoltarne tutte le conversazioni. Un sistema scanner utilissimo, per esempio, se si vogliono fare attentati. Seguendo la vittima passo passo fino al momento dell'omicidio. Perché il sistema pare una vera e propria rete coperta. Pare non lasciare traccia. [...] [Genchi:]"Le clonazioni investivano addirittura i cellulari di servizio di alte cariche istituzionali palermitane, fra cui l'utenza del prefetto Achille Serra e del dirigente della squadra mobile di Palermo, Salvatore Mulas.

Per quest'ultimo caso, fu arrestato il suo autista di fiducia. Altre, riguardarono in massa i cellulari della Regione e del Comune di Palermo dove all'epoca era sindaco Leoluca Orlando". [...] [Nell'agenda della Camera dei deputati sequestrata nel covo di via Ughetti ai mafiosi di Altofonte Gioè e La Barbera, Gioacchino] Genchi, alla fine del '93, trova sette pagine fitte di nomi poi cancellati. Poi, ha un sussulto. Ci sono infatti appuntati quattro numeri di cellulare e quattro relativi seriali: gli stessi che erano annotati nel file Motorola.log, trovato nel pc di Saverio Stendardo, il militare radiato dalla guardia di finanza a capo della banda di clonatori. E spuntano anche i telefonini sequestrati ai due boss: modello Nec P300. Che iniziano a raccontare storie diverse da quelle ufficiali di sangue che devastano la Sicilia. [...] Il Nec P300 di La Barbera risulta aver clonato un cellulare di Roma, ma con un seriale che la Sip aveva inserito nella black list di quelli rubati, addirittura prima dell'attivazione. E che dunque, non dovrebbe andare, anche se clonato. Invece va. E anzi è visibile a qualsiasi operatore: perché alla Sip ne hanno memorizzato il seriale alla voce "professione". Cioè, anziché mettere, nome, cognome e codice seriale.

Sicchè, un operatore truffaldino, eventualmente, ha la disponibilità di un numero e di un seriale rubato ma che funziona da girare al clonatore. Paradossale, ma non abbastanza. Perché viene pure clonato un Nec P300 di Anna Gioè, sorella di Antonino, che ha attivato ovviamente il suo senza documenti. E la cui utenza appare nel pc di Stendardo. E così vale, in queste grottesche repliche, per il telefonino di Antonino Gioè, in grado pure di intercettare con la funzione scanner. [...]. [...] Poi ci sono i quattro numeri con rispettivi seriali annotati sull'agenda della Camera dei deputati, gli stessi del file Motorola.log di Stendardo. Quelli che evidentemente vengono inseriti sui cloni di Gioè e La Barbera. [...]. Due numeri e due seriali fanno riferimento ad attivazioni di Roma e dintorni [...]. Gli altri due, invece, fanno addirittura "parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata" della Sip, sempre a Roma. Cioè sono due numeri che non esistono. Ma come è possibile che un numero mai esistito chiami ? Perché, per chiamare chiamano. E come è possibile clonarlo ? Le informazioni, tutte provenienti esattamente dalla Filiale di Roma Nord della Sip, risultano completamente sballate.

Scrive Genchi nella sua relazione ai pubblici ministeri di Palermo: 
Non si comprende nemmeno a che titolo e per quali ragioni il Gioè, il La Barbera e lo Stendardo abbiano concordemente e perfettamente annotato nei loro appunti (rubrica della Camera dei Deputati e agende varie) gli abbinati identificativi telefonici e seriali di una utenza asseritamente facente parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata. Non si comprende ancora - se non nella considerazione della assoluta inattendibilità fornita dalla S.I.P. - a che titolo lo Stendardo abbia ripetutamente eseguito la clonazione statica di una utenza cellulare connotata da identificativi telefonici e seriali di un numero telefonico facente parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata."
E bisogna tenere presente che questi erano i numeri in mano a due persone riconosciute poi colpevoli della strage di Capaci. [Genchi:]"E infatti, fu poi accertato che dietro a quella filiale della Sip, c'era una base coperta dei servizi segreti"".

Base sulla quale “nessuno indagò”.

E’ stato provato che questi cellulari “high-tech”, frutto di competenze che, per usare un eufemismo, sono del tutto estranee a Cosa Nostra, sono stati utilizzati da Gioè e dal sopracitato Gioacchino La Barbera (oggi collaboratore di giustizia) per coordinarsi nell'agguato a Falcone. Lo scopo primario di questi cellulari avanguardistici era la dissimulazione dei contatti telefonici.

Una vera e propria rete di protezione interna alla Sip.

Piccola parentesi sulla Sip; dal libro di Stefano Grassi “Il caso Moro”:  
“All'interno della Sip viene creata la struttura segreta siglata Po-Srcs, Personale organizzazione - Segreteria riservata collegamenti speciali, che dispone di un incaricato per la sicurezza designato dall'autorità nazionale della sicurezza, cioè il capo del servizio segreto militare. La Segreteria riservata collegamenti speciali è una struttura formata da civili, tutti muniti di Nos, il Nulla osta di sicurezza Nato, organizzata con i criteri propri dei servizi segreti [...]. Il compito di tale ente è [...] quello di predisporre collegamenti speciali e fornire servizi tecnici alle forze dell'ordine, alle forze armate, alla Nato e ai servizi segreti, in situazioni critiche legate a atti di terrorismo, crisi nazionali o internazionali, eventi bellici. [...] La persona responsabile dei problemi di sicurezza all'interno della Po-Srcs è proposta dal presidente della Sip e nominata direttamente dal Sismi, e la cosiddetta "cellula di risposta" che viene attivata in situazioni di emergenza è diretta da un ex militare”.
Chiusa quest'ultima parentesi, torniamo a Gioè.

Che il boss di Altofonte avesse entrature di un certo tipo, non lo fa intuire solo l’accesso a queste tecnologie, ma anche la sua conoscenza di un tale di nome Bellini. Paolo Bellini, prescritto per omicidio (si, avete capito bene), è un estremista di destra che ha potuto vantare nella sua “carriera eversiva” conoscenze altolocate sia all’interno dell’esercito italiano che nella magistratura.

Bellini conosce Gioè negli anni ’80 nel carcere di Sciacca; le loro vite si rincroceranno dieci anni dopo, nel 1991, quando l’ex Avanguardia Nazionale (al tempo titolare di un’agenzia di riscossione in Sicilia), uscito per l’ennesima volta dal carcere per la ricettazione di alcune opere d’arte, deciderà di mettersi in contatto con Gioè per il recupero di alcuni crediti.

Entro poco tempo, siamo all’incirca nel marzo del ’92 (quindi prima della strage di Capaci), comincerà a nascere, proprio grazie all’intermediazione tra Bellini e Gioè, la prima delle tre trattative intavolate dallo Stato con la mafia, avente come protagonista il Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri.

La finalità di questa trattativa era il recupero di alcune opere d’arte rubate in cambio di benefici carcerari per alcuni boss “storici”.

Ennesima coincidenza: il 6 marzo del 1992, un amico di Paolo Bellini di nome Elio Ciolini (anche lui militante della destra extraparlamentare), scriverà al giudice Leonardo Grassi la seguente lettera:
"Nuova strategia [della] tensione in Italia - periodo: marzo-luglio 1992.
Nel periodo marzo-luglio di quest'anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l'ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone "comuni" in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale "omicidio" di esponente politico Psi, Pci, Dc, sequestro ed eventuale "omicidio" del futuro presidente della Repubblica. Tutto questo è stato deciso a Zagabria - Yu[goslavia] - (settembre '91) nel quadro di un "riordinamento politico" della destra europea e in Italia è inteso ad un nuovo ordine "generale" con i relativi vantaggi economico finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine deviato massonico politico culturale, attualmente basato sulla commercializzazione degli stupefacenti. La "storia" si ripete: dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno alle strategie omicide per conseguire i loro intenti falliti."
Scrive il giornalista Torrealta nel suo libro “La Trattativa”:  
“Letto con gli occhi di oggi il contenuto di questa lettera è impressionante. Il periodo di attuazione della strategia (marzo-luglio) copre esattamente lo stesso arco di tempo nel quale furono uccisi il senatore Lima (il 12 marzo), il dottor Falcone e la sua scorta (23 maggio) e il dottor Borsellino e la sua scorta (19 luglio). Gli obiettivi della strategia individuati negli esponenti politici della Dc e del Psi e nel futuro presidente della Repubblica trovano oggi conferma nelle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia secondo i quali l'onorevole Lima [ex sindaco della città di Palermo], rappresentante in Sicilia della corrente del senatore Giulio Andreotti (all'epoca ritenuto il "futuro presidente della Repubblica") venne ucciso anche per ostacolare la candidatura di Andreotti alla presidenza della Repubblica”.
Escludendo la palla di cristallo come fonte, è ipotizzabile che le informazioni rivelate da Ciolini provengano del tutto, o almeno in parte, dallo stesso Bellini (tutti e due hanno vantato un’appartenenza a Servizi esteri) ?

In attesa di un’improbabile risposta, passiamo avanti. Passiamo all’ennesimo comunicato della Falange Armata. E’ l’11 luglio 1992: l’Italia è sull’orlo del baratro, la Lira è sotto il feroce attacco speculativo dei mercati e il governo Amato ha cominciato ad adottare misure drastiche per far si che l’Italia non esca dal Sistema monetario europeo (come poi invece fece nel settembre di quello stesso anno). E’ l’11 luglio 1992, e la Falange Armata chiama l’agenzia di stampa Adnkronos:  
"Preso atto delle reiterate azioni di disturbo e di delegittimazione, quando non di basso e vile sciacallaggio a nome della Falange Armata, nonché dell’uso falso, spregiudicato e strumentale che della nostra organizzazione trovano spesso gioco, scopo, tornaconto di fare; posto che gravi e drammatiche iniziative strategiche l’organizzazione si accinge nuovamente a intraprendere, riteniamo essere cosa utile e prudente quella di fornirvi di un codice di riconoscimento dal quale, al fine di accertare l’autenticità di eventuali azioni o rivendicazioni, saranno da oggi in avanti immancabilmente preceduti. Il codice è il seguente: Falange armata 763321".
Ennesimo dato curioso. Il 22 aprile del 1992, viene presentata al parlamento la relazione finale della Commissione stragi: documento in cui si parlerà di Gladio come una struttura “illegittima”. E’ questo il “vile sciacallaggio” a cui si riferisce la Falange?

Forse.

L’unica certezza è che il 19 luglio alle ore 18:15, arriva una nuova telefonata, questa volta all’agenzia Ansa di Torino: "Buona sera, qui Falange armata, codice di riconoscimento 763321, confermiamo il testo breve di poco fa alla sede palermitana dell’Ansa riguardante l’azione di questo pomeriggio in via Autonomia siciliana ai danni del giudice Borsellino".

“Via Autonomia siciliana”.

La grossolana “imprecisione” relativa al luogo dell’attentato in realtà non è altro che un abile mascheramento di un messaggio ad un ignoto destinatario: via d’Amelio infatti è una strada secondaria proprio di via dell’Autonomia Siciliana, indicata tra l’altro da molte agenzie di stampa, nei minuti immediatamente successivi all’attentato, come luogo dell’esplosione dell’infame autobomba. Il messaggio invece è una chiara allusione ai piani secessionisti coltivati da Cosa Nostra e soci.

Piani secessionisti che Cosa Nostra ha sempre mantenuto vivi fin dai tempi immediatamente successivi allo sbarco degli alleati in Sicilia; uno sbarco, riuscito anche grazie all’appoggio e alle preziose “consulenze” di Cosa Nostra.

Come segno di gratitudine, l’OSS (il vecchio acronimo della CIA) chiamerà il suo gruppo di agenti in Sicilia “il cerchio della mafia”.

Tornando alla nascita dei piani secessionisti coltivati da Cosa Nostra e dalle leghe centro-meridionali, non si può non sottolineare un dato di primaria importanza: il progetto separatista indicato dall’inchiesta “Sistemi criminali”, nasce in realtà al di fuori dei confini nazionali.

Estratto dal libro “1994” dei giornalisti Grimaldi e Scalettari:  
“Queste aspirazioni separatiste non nascono dal nulla. [...] Nel 1989, all'indomani della caduta del muro di Berlino, il Club 1001 - il "comitato centrale" dell'oligarchia mondiale [costituito dal cofondatore del gruppo Bilderberg Bernardo dei Paesi Bassi e] presieduto da Filippo d'Edimburgo - affidò a uno dei suoi membri, l'industriale olandese Alfred H. Heineken (il magnate della birra), uno "studio di fattibilità" del progetto di smembramento degli Stati nazionali europei. Nel progetto, noto come Eurotopia, frutto di anni intensi di studio e discussioni con lo storico e agente del Sis (servizio segreto britannico) Cyril Northcote Parkinson, oggi scomparso, Heineken suddivideva l'Europa in 75 mini-Stati. In questa topografia non esistono più paesi come Francia, Germania, Italia. Li sostituiscono territori con un minimo di cinque e un massimo di dieci milioni di abitanti: "il fatto è che la gente si vuole identificare di più con il proprio paese e i governi si devono avvicinare alle esigenze della società reale. E com'è possibile farlo in Stati di cinquanta o sessanta milioni di abitanti? Guardate cosa sta succedendo in Iugoslavia" sottolinea il magnate della birra ancora nel 1992. E infatti il suo progetto prevede, tra gli altri, alcuni fatti che puntualmente si avverano: l'Albania guadagnerebbe il Kosovo (processo in fase avanzata di realizzazione); Croazia, Serbia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina diventerebbero nazioni indipendenti (fatto che si è realizzato). Secondo lo studio di Heineken, l'Italia andava divisa in otto staterelli. Insomma, in Eurotopia il Nord Italia avrebbe dovuto far parte della galassia degli staterelli dell'Europa centrale e il Sud Italia essere risucchiato nel terzo mondo. Un progetto ridicolo? Forse. Fatto sta che a Heineken i potenti del momento hanno espresso un interessato apprezzamento: il presidente [Herbert Walker] Bush ha risposto che Eurotopia è un'idea "innovativa e intrigante" mentre Bill Clinton e Henry Kissinger gli hanno fatto i complimenti. Per quanto riguarda l'Italia si può parlare di un progetto forse delirante, ma che in molti hanno preso sul serio”.
Scrive l’ex magistrato Carlo Palermo nel suo libro “Il quarto livello”:  
“A cinque anni di distanza [dall’ideazione di Eurotopia], il progetto in questione veniva in sostanza recepito nel progetto del leghista Speroni, nel 1994 ministro delle Riforme istituzionali. Le differenze erano minime: il progetto Speroni aggiungeva un nono stato, formato dalla capitale e modificava i due stati nel Sud aggiungendo la Basilicata nello Stato composto da Puglia e Molise. […]. Heineken non solo è il proprietario dell'omonima multinazionale produttrice di birra, ma è anche membro del consiglio d'amministrazione della ABN, una delle più grandi banche olandesi”.
E’ questo il motivo per cui Via D’Amelio, come del resto Capaci, si può tranquillamente definire una vera e propria “strage di stati” e lobbies collegati ad essi.

Partiamo da Capaci.

Che la strage del 23 maggio 1992 avesse "trasceso i confini nazionali", ne era convinto perfino il ministro degli Interni del tempo Vincenzo Scotti. Il 18 giugno di quell’anno dirà infatti che  
"il tipo di delitto, il modo in cui è stato preparato, le tecniche che sono state usate […] tutto punta verso una matrice non esclusivamente siciliana"(5).
Un’ipotesi che sembra trovare conferme anche all’interno di Cosa Nostra. Sempre secondo le preziose ricostruzioni del boss Giuffrè,  
"Falcone era diventato un nemico non solo della Cupola italiana, ma anche di quella americana"(6).
Ci sono anche alcuni riscontri oggettivi. Scrive il giornalista Salvo Palazzolo nel suo libro “I pezzi mancanti”:  
"Il 23 maggio, il giorno della strage Falcone, [una delle utenze telefoniche nelle disponibilità del boss altofontese Gioè] [...] chiama più volte un'utenza americana, del Minnesota, 001-612-777469**: alle 15.17, per 40 secondi; alle 15.38, per 23 secondi; alle 15.43, per 522 secondi. Le indagini non sono mai riuscite ad accertare il reale destinatario e il perché di quelle chiamate negli Stati Uniti".
La vicinanza tra CIA e la cupola americana è testimoniata dalla famigerata “Operazione Mangusta”: una mostruosità nata nei primi anni ’60 che metteva sotto lo stesso "tetto" estremisti, mafiosi, ed esuli cubani pronti a qualsiasi tipo d'azione per rovesciare il regime di Fidel Castro a Cuba.

Quella CIA che a detta del generale Gerardo Serravalle è stata la principale fonte di finanziamento di Gladio. Gladio, per inciso, è stata l’ultima inchiesta “formale” di Giovanni Falcone.

Il giudice palermitano, prima di approdare a Roma (nel marzo del ’91) come Direttore Generale degli Affari Penali al ministero di Grazia e Giustizia, si era interessato ai risvolti siciliani della struttura clandestina gestita dai Servizi; il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco prima (come testimonia lo stesso diario di Falcone) e Cosa Nostra con i suoi progetti mortali poi, gli impediranno di portare avanti l’inchiesta.

Va ricordato inoltre che nei mesi precedenti alla strage di Capaci per Falcone si stava prospettando la nomina di Procuratore Nazionale Antimafia alla neonata “Superprocura” (la Direzione Nazionale Antimafia). Addirittura, in certi ambienti s’ipotizzava un’improbabile candidatura del giudice come Ministro degli Interni. La sinistra DC (composta dai politici del calibro di Nicola Mancino e Calogero Mannino), come testimonia il libro scritto dalla giornalista Sandra Bonsanti “Il grande gioco del potere”, non aveva preso bene quest’ultimo scenario in quanto vedeva dietro al giudice una mossa politica del PSI il cui unico scopo era quello di appropriarsi di un ministero che storicamente, dal dopo guerra in poi, era sempre stato sotto la guida della DC; e se l’ambizione separatista di Cosa Nostra è la principale chiave di lettura per intravedere la matrice straniera nelle stragi di mafia, l’arrivo di Falcone nei palazzi ministeriali è quella che ci permette di scorgere quella italiana. “Manine” e “manone” distinte che forse (dato il nemico comune fronteggiato durante la Guerra Fredda), in un apparente paradosso, si sono incrociate anche in queste vicende di sangue.

Un esempio che chiarifica questa contraddizione, che in realtà contraddizione non è, viene fornito da Giovanni Galloni (deputato DC ed ex vicepresidente del CSM) ai microfoni di Rai News 24 nel luglio del 2005:  
“I servizi deviati italiani non sono servizi deviati, sono servizi di persone, che in buona fede, ritenevano che stante la stretta alleanza che avevamo con l’America, su alcune questioni delicate, dovevano rispondere prima ai loro colleghi americani della CIA e non al governo italiano”.
Non è un caso infatti che alcuni politici democristiani, come ad esempio Vittorio Sbardella (intimo della corrente andreottiana della destra DC), fossero a conoscenza di strane manovre a livello internazionale.

Intervistato il 19 marzo del ‘92 da Augusto Minzolini per "La Stampa", “lo squalo” ebbe modo di argomentare la sua tesi riguardo al progetto di destabilizzazione e ai suoi presunti mandanti.

[Minzolini:]On. Sbardella ci crede davvero a questa storia del piano di destabilizzazione?

[Sbardella:]Qui dovrebbero finirla di essere tutti ciechi. Bisogna partire da un fatto: in Italia non c'è, non esiste, per ora, un'alternativa alla Dc. Eppure c'è un attacco concentrico a questo partito che ha come risultato la frantumazione della geografia politica di questo paese in tanti piccoli partitini, o, peggio, una sempre maggiore astensione dal voto. Così si creano le condizioni peggiori per governare e quando non si governa qualcuno può sostituirsi ai partiti e tentare la svolta autoritaria. Chi potrebbe volerla? Ad esempio chi non vuole l'Europa: gli americani insieme ad alcuni gruppi industriali, che non si sentono preparati a questo passo. Ecco a cosa serve la destabilizzazione.
[Minzolini:]Dice che dietro alla destabilizzazione ci sono gli Usa e alcuni gruppi economici?
[Sbardella:]Gli americani non nascondono questa loro ostilità verso l'unità europea, specie dopo la fine del comunismo. Del resto quel documento del Pentagono che vuole impedire la nascita di una nuova superpotenza che faccia ombra agli Usa, mi pare abbastanza eloquente.
Sbardella si riferisce al "Defense Planning Guidance": un progetto del Pentagono reso noto dal "New York Times" l’8 marzo del 1992. Il testo, scritto principalmente da due dei massimi esponenti del mondo neoconservatore americano,  ovvero Paul Wolfowitz e Lewis Libby (stretto collaboratore di Dick Cheney), sosteneva che il primo obiettivo della politica estera statunitense doveva essere quello di prevenire il riemergere di un nuovo rivale, impedendo a qualunque potenza straniera di dominare una regione le cui risorse sarebbero state sufficienti a generare un potere di portata globale.

Lo stesso Andreotti dalle pagine del "Corriere della Sera" si lascerà andare a qualche insolito commento: "Ora che non temono più il comunismo pensano di poterci mettere all'angolo".

“Complottismo”? Manco per sogno.

Sbardella, tanto per fare un esempio, 48 e 24 ore prima della strage di Capaci, da una testata giornalistica in odore di Servizi, aveva scritto i due seguenti articoli. Dall'articolo "Impasse nell'elezione del presidente della Repubblica: metodo Forlani o metodo De Mita?":  
"C'è da temere, a questo punto, che qualcuno rispolveri la tentazione tipicamente nazionale al colpo grosso. Le strategie della tensione costituiscono in questo Paese una metodologia d'uso corrente in certe congiunture di blocco politico. Quando venne meno "la solidarietà nazionale" e il sistema apparve anche allora bloccato, ci ritrovammo davanti il rapimento di Moro e la strage della sua scorta. Non vorremmo che ci riprovassero: non certo per farci trovare un Andreotti a gestire ancora l’immobilismo del sistema (visto che i tempi sono mutati e Andreotti è politicamente deceduto) ma magari uno Spadolini o uno Scalfaro quirinalizzati."
"Forlani dimissionario. Il burattinaio non è iscritto alla Dc":
"Avremo dunque la candidatura obbligata e vincente di Giovanni Spadolini? Manca ancora, perché passi in modo indolore questa candidatura del "partito trasversale", qualcosa di drammaticamente straordinario. I partiti cioè, senza una strategia della tensione che piazzi un bel botto esterno - come ai tempi di Moro - a giustificazione di un voto d'emergenza, non potrebbero accettare d'autodelegittimarsi. Per fortuna, le Brigate rosse e nere oggi sono roba da museo. E, comunque, i poteri dello Stato hanno accumulato esperienza e professionalità."
Sempre da questa testata giornalistica, legata secondo alcuni articoli di stampa del ’93 al Sisde, venne pubblicato il 19 marzo (lo stesso giorno dell’intervista di Sbardella a Minzolini) un articolo intitolato “Un'Ira per Lima? Sicilia come Singapore del Mediterraneo”. Secondo l’anonimo articolo l’omicidio dell’europarlamentare andreottiano farebbe parte di un piano diretto: a) ad attaccare i centri nevralgici di mediazione del sistema dei partiti popolari; b) a determinare il collasso del vecchio sistema e a regionalizzare il voto all'interno di un progetto federalista che consegnerebbe il Nord e il Sud dell'Italia a forze interessate a spartirsi il Paese; c) a fare della Sicilia la "Singapore del Mediterraneo", paradiso fiscale e crocevia di tutti i traffici e impieghi produttivi illeciti e leciti.

Il Sisde, il cosiddetto servizio segreto “civile”, operava alle dirette dipendenze del Ministero dell'Interno.

Lo stesso Sisde che già il 5 febbraio del ‘92, ancora prima delle rivelazioni del “premonitore” Ciolini, aveva inviato la seguente nota al gabinetto del ministro degli Interni: “Non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive stipulino con la criminalità organizzata accordi di collaborazione ai fini operativi per la destabilizzazione del paese”.

Lo stesso Sisde che il 23 maggio di quello stesso anno, con un volo segreto e non registrato, porterà con un jet Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo ad incontrare il loro tragico destino.
Perfino sul teatro della strage vengono rinvenuti alcuni indizi che ci riportano direttamente al Sisde: spunta infatti, tre giorni dopo la strage, un criptico bigliettino dove c’è appuntato il numero di cellulare dell’allora vice capo centro della struttura informativa di Palermo, Lorenzo Narracci.

Narracci è il braccio destro di Bruno Contrada, al tempo delle stragi numero tre del servizio con delega all’antimafia. Contrada verrà condannato nel maggio del 2007 dalla Corte di Cassazione a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Sempre Contrada, a detta della sua stessa agenda, nel periodo immediatamente precedente alla strage di Capaci si era tenuto in stretto contatto con il generale dei Carabinieri Subranni (diretto superiore dell’allora colonnello Mario Mori) e con il deputato della sinistra DC Calogero Mannino.

Subranni, Mori e Mannino sono stati tutti rinviati a giudizio nel processo relativo alla cosiddetta “trattativa” fra Stato e mafia: una trattativa portata avanti dal Ros dei Carabinieri con Cosa Nostra tramite gli ufficiali Mori e De Donno e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Calogero Ciancimino (presunto agente di Gladio in Sicilia).

Una trattativa che a detta del boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca (l’uomo che aziono l’ordigno di Capaci), sarà la principale causa di morte di Paolo Borsellino.

Secondo Bursca infatti, “Paolo Borsellino muore per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato, dopo la strage di Capaci, ne era venuto a conoscenza e qualcuno gli aveva detto di starsene in silenzio, ma lui si era rifiutato.

A Borsellino era stato proposto di non opporsi alla revisione del maxiprocesso e di chiudere un occhio su altre vicende. Il suo rifiuto ha portato venti giorni dopo a progettare ed eseguire l'attentato in via D'Amelio”(7).

Ma andiamo con ordine. Secondo le indagini del gip Morosini, il “padrino” di questa sciagurata trattativa sarebbe proprio Calogero Mannino. Mannino, il mese stesso della conferma in Cassazione della sentenza che ha condannato in via definitiva i vertici di Cosa Nostra (febbraio ’92), confiderà al maresciallo dei Carabinieri Guazzelli che “o ammazzano me, o ammazzano Lima”.

Assolto nel 2010 dalla corte di Cassazione dopo diciassette anni di processi per concorso esterno in associazione mafiosa, Mannino, vicino a realtà emblematiche come quella del Centro Scontrino di Trapani (punto d’incontro tra mafia e massoneria), fino al 28 giugno del 1992 (a 21 giorni di distanza dalla strage di via D’Amelio) era a capo del Ministero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno.

Un dato insignificante se Mannino non fosse ritenuto l’ispiratore della trattativa o semplicemente non avesse intrattenuto rapporti con Bruno Contrada, in quanto (udite udite) il famigerato Cerisdi situato all’interno del magnifico Castello Utveggio che domina Palermo dal Monte Pellegrino, luogo in cui una cellula del Sisde ha dato il suo appoggio logistico all’infame strage di via D’Amelio, ricadeva proprio sotto l’egida del dicastero presieduto fino a qualche giorno prima dal deputato DC.

Il commando che ha operato in via Mariano D’Amelio (identificato solo in parte), è quello dei boss di Brancaccio Giuseppe e Fillippo Graviano. Quei Graviano che si ritrovano anche nelle motivazioni della condanna in primo grado a Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa:  
"Nell’ambito degli accertati rapporti e contatti, diretti o mediati da terze persone, tra Marcello Dell’Utri ed esponenti di primo piano di alcune potenti “famiglie” mafiose palermitane, un posto particolare meritano i fratelli Graviano Giuseppe e Graviano Filippo, responsabili della consorteria mafiosa operante in Brancaccio, quartiere alla periferia di Palermo."
Quei Graviano che quando furono arrestati, nel gennaio del ’94, non facevano i latitanti nel loro “mandamento” (che era una sorte di roccaforte inespugnabile), ma a Milano, ad un tiro di schioppo da Villa Certosa.

Via D’Amelio quindi, si può tranquillamente definire un vero e proprio punto d’incontro tra prima e seconda Repubblica, in quanto, mentre “qualcuno” barattava la vita di altri per salvare la propria (vedi Mannino), e mentre “qualcuno” s’impadroniva dell’agenda rossa di Paolo Borsellino (al cui interno c’era la prova scritta della trattativa) per garantisti una vera e propria assicurazione sulla vita a livello istituzionale, si poteva già cominciare a scorgere il “nuovo” che avanza.
Quel “nuovo” è Forza Italia.

Il progetto che porterà alla nascita del partito-azienda di Berlusconi (la cosiddetta “Operazione Botticelli”) secondo la preziosa testimonianza dell’ex democristiano Ezio Cartotto, che a quel progetto ci ha lavorato, comincia a svilupparsi clandestinamente all’interno della Fininvest per volere di Marcello Dell’Utri proprio nel periodo tra la strage di Capaci e l’inizio della trattativa portata avanti dal Ros con Ciancimino.

Ennesima curiosità: i fratelli di Silvio Berlusconi e Mario Mori, Alberto Mori e Paolo Berlusconi, proprio in Sicilia, e proprio ad inizio anni ’90, erano soci nella ditta Co.Ge, una ditta sospettata dalla Direzione investigativa antimafia di aver fatto parte del cosiddetto “tavolino degli appalti”: “tavolino” che garantisce i legami con la grande imprenditoria per la realizzazione dei lavori, il controllo su di essi di Cosa nostra, il recupero delle somme da corrispondere all’organizzazione e ai politici che assicuravano gli appalti.

Gli imprenditori con i quali la Co.Ge. di Paolo Berlusconi e Alberto Mori tratta sono Filippo Salamone e Giovanni Bini: ambedue condannati in via definitiva nel maggio del 2008 per concorso in associazione mafiosa.

Lo stesso discorso vale per Vito Ciancimino, anche lui legato economicamente al Cavaliere da alcuni assegni databili tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, consegnati dalla moglie dell’ex sindaco mafioso di Palermo ai pm Guido e Di Matteo nel luglio del 2010.

Ma torniamo a Cartotto. Racconta l’ex DC in una deposizione resa al pm di Palermo Domenico Gozzo:  
“Nel maggio-giugno 1992 sono stato contattato da Marcello Dell'Utri perché lo stesso voleva coinvolgermi in un progetto da lui caldeggiato. In particolare Dell'Utri sosteneva la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo Fininvest, il gruppo stesso "entrasse in politica" per evitare che un'affermazione delle sinistre potesse portare prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà per il gruppo Berlusconi. Immediatamente Dell'Utri mi fece presente che questo suo progetto incontrava molte difficoltà nello stesso gruppo Berlusconi e, utilizzando una metafora, mi disse che dovevamo operare come sotto il servizio militare e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità, eseguendo in tale ultimo caso ciascuno la propria parte”.
Scrive il giornalista Maurizio Torrealta nel suo saggio “La Trattativa”:  
“Il ruolo di cui veniva investito Cartotto era quello di tenere delle conferenze politiche ai dirigenti e ai funzionari della Fininvest e di seguire la crescita delle centinaia di persone coinvolte nel caso in cui qualcuna avesse avuto intenzione di cambiare lavoro e di impegnarsi nell'avventura di una nuova forza politica. [...]. Gli incontri sarebbero iniziati fin dalla tarda primavera del 1992; poi, nel settembre di quell'anno ci fu una cena alla convention di Publitalia [concessionaria di pubblicità delle reti televisive del gruppo Fininvest], a Montecarlo. In quell'occasione Silvio Berlusconi e Ezio Cartotto discussero della situazione politica e di come sviluppare quell'attività, fino ad allora condotta da Cartotto come soggetto esterno all'azienda, affinché restasse per il momento riservata. L'incontro finale e decisivo per l'entrata in politica si tenne, infatti, il 4 aprile 1993, e vi partecipò anche Bettino Craxi”.
Inizia così la scalata al potere del piduista Berlusconi. Una scalata forzata dai suoi legami economici con Cosa Nostra, dal crollo dei referenti politici tradizionali (come ha spiegato precedentemente Cartotto) e dai debiti colossali della Fininvest.

Uno scenario che si può semplificare nella famosa frase del suo amico Fedele Confalonieri:  
“La verità è che se [Silvio Berlusconi] non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l'accusa di mafia”(8).
Stando a Tullio Cannella, imprenditore vicino al boss Leoluca Bagarella (cognato di Riina): 
“L'appoggio a Forza Italia non determina l'abbandono della strategia separatista che continua ad essere coltivata perché questa strategia costituiva il punto di arrivo e la soluzione finale dei problemi di Cosa Nostra e dei suoi alleati esterni. [...] Quando nell'ottobre 1993, su incarico di Bagarella, costituii a Palermo il movimento Sicilia libera, le due strategie già coesistevano, e lo stesso Bagarella sapeva della prossima "discesa in campo" di Silvio Berlusconi. Bagarella, tuttavia, non intendeva rinunciare al programma separatista, perché non voleva ripetere "l'errore" di Riina, cioè dare troppa fiducia ai politici, e voleva, quindi, conservarsi la carta di un movimento politico in cui cosa nostra fosse presente in prima persona. Inoltre, va detto che vi era un'ampia convergenza tra i progetti, per come si andavano delineando, del nuovo movimento politico capeggiato da Berlusconi e quelli dei movimenti separatisti. Si pensi al progetto di fare della Sicilia un porto franco, che era un impegno dei movimenti separatisti ed un impegno dei siciliani aderenti a Forza Italia. [...] Questo era per noi un primo obiettivo immediato di non scarsa rilevanza nell'ambito del nostro progetto separatista”(9).
Nonostante tutto, Berlusconi resta il punto cardine di quel “rinnovamento” che per stessa ammissione dell’ambasciatore statunitense Reginald Bartholomew doveva essere sostenuto per cercare di dare all’Italia un nuovo equilibro.

Un equilibrio evidentemente più proficuo per paesi come gli Stati Uniti, i quali non avevamo mai visto di buon occhio un certo tipo di filo arabismo portato avanti dall’Italia, come, ad esempio, la vicinanza dell'establishment italiano al leader libico Gheddafi, salvato almeno in un’occasione da un tentativo d'assassinio americano da Bettino Craxi in collaborazione con Giulio Andreotti. Una collaborazione che negli anni ottanta mirava ad intensificare ulteriormente i rapporti tra l’Italia ed il leader palestinese Yasser Arafat (considerato al tempo da Stati Uniti e Israele un terrorista), fino al punto di rischiare uno scontro a fuoco nella base aerea di Sigonella tra la Delta Force (reparto dell’esercito statunitense) e le forze di sicurezza italiane (vigilanza dell’aeronautica militare e carabinieri).

Insomma, con il crollo del muro di Berlino si era presentata l'opportunità di regolare i conti e sbarazzarsi dei vecchi garanti dello status quo italiano, oramai divenuti solo dei pedoni che avevano esaurito il loro scopo originale (la lotta al comunismo appunto), e vista la situazione che si era venuta a creare con lo scandalo di Tangentopoli da una parte e lo stragismo di mafia dall'altra, la tentazione di creare un nuovo e più proficuo equilibrio, era troppa. Bastava solo soffiare sul fuoco.

Ad alcuni esponenti della prima Repubblica però, questo nuovo equilibrio (per motivi più o meno leciti) non andava molto a genio. Una delle riprove più esplicite di questo è da ricercarsi nell’operazione gestita dal Viminale e dal ministero della Difesa (datata 9 novembre del ’93) denominata “Ditex Superga Sette”.

L’Italia, travolta dagli scandali di Tangentopoli e da quello dei fondi neri del Sisde (che arriverà a sfiorare addirittura l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro), stava fronteggiando un periodo drammatico sia sul piano internazionale (con i mercati finanziari) sia sul piano della politica interna (con la Lega Nord che invocava a gran voce la secessione).

Quella secessione a cui ambivano anche Cosa Nostra e i suoi referenti politici esterni. Da un articolo di "Repubblica" del 5 dicembre ‘93 firmato da Sandra Bonsanti: 
“Una normale esercitazione di difesa civile e di cooperazione civile-militare", dice il Ministero dell' Interno. "Predisposizioni attuate in tempo di pace, da sempre, per la verifica, di volta in volta, della rispondenza delle misure preventive", dicono al Ministero della Difesa. Vigilia di ballottaggio, ore rese inquiete dalla novità di un durissimo scontro politico: Progressisti contro Lega al Nord; Progressisti contro Msi al Centro-Sud. E in questo scenario di Italia divisa "Il Corriere della Sera" pubblica la notizia dell'esercitazione che tenne impegnati tra il 9 e l'11 novembre scorso prefetture e questure di Lombardia, Piemonte e Liguria e il comando della Regione militare di Nord Ovest. Poco più di un mese fa, in un clima politico arroventato, nei giorni in cui la Lega predicava ipotesi di secessione, qualcuno fra il Viminale e via XX Settembre pensò di mettere alla prova, non sul campo, ma a tavolino, una ipotesi di guerra civile. 
Col Nord regione ricca e stabile, attaccata dal Sud, coacervo di forze instabili e povere. Il Nord resiste all'attacco, i cattivi sono respinti oltre "confine". Miglio parlava di generali leghisti. E' la prima volta in assoluto, a quanto risulta, che forze dell'ordine e militari si preoccupano di risolvere a tavolino una situazione da rivoluzione interna: si immagina di combattere fra italiani, non contro un nemico esterno, e non contro terroristi del tipo Br. Può davvero essere utile, una tale esercitazione? E come mai una ipotesi del genere è stata studiata? A chi è saltata in mente? Dopo ore e ore di attesa, mentre Bossi già chiede le dimissioni dei responsabili, i vertici del Viminale mettono insieme una smentita che smentita non è. Poche righe per spiegare che l'esercitazione si è chiamata "Superga", che si è svolta proprio tra il 9 e l'11 novembre, e che "operazioni del genere vengono ripetute periodicamente, interessando di volta in volta parti diverse del territorio nazionale; si tratta, in pratica, di verificare la tenuta delle strutture poste a salvaguardia della vita civile del Paese in caso di emergenze esterne o interne". Il Viminale si meraviglia che all'esercitazione "Superga" "possa esser stato attribuito un significato diverso da quello di mera simulazione, non collegata ad alcuna contingenza concreta. Essa ha ricalcato nel suo svolgimento le modalità sempre osservate nelle esercitazioni che l'hanno preceduta a partire dalla fine degli anni Settanta". Tutto regolare, allora? 
Dal Ministero della Difesa chiariscono che l'operazione si chiamava "Ditex Superga Sette", ed era una delle tante esercitazioni di difesa del territorio e di eventuali obiettivi sensibili "da ipotetici attacchi e/o da sabotaggi". Tutto sulla carta, senza spiegamento di forze. E tutto per verificare "la pianificazione operativa". Esercitazioni programmate con molto anticipo "un anno per l'altro". Ogni anno tocca a turno a una delle cinque regioni militari. Spiegano ancora alla Difesa che quando c' era la contrapposizione fra Est e Ovest sulle cartine le forze amiche erano indicate con l'azzurro e quelle nemiche con l'arancione. Adesso invece gli amici sono verdi, e marroni i nemici. Poco più di un gioco, dunque, a sentire le fonti ufficiali. Un "war game" innocuo, innocente, forse persino inutile. E sarebbe davvero inutile continuare ad occuparsene se non fosse per un paio di "singolarità" che val la pena di sottolineare e che riguardano essenzialmente i momenti politici in cui il giochino viene giocato e in cui il giochino viene reso pubblico da misteriose fonti anche all'interno del Viminale. La prima singolarità riguarda quei giorni di autunno in cui si svolse "Superga". Era stato un crescendo: in ottobre, Gianfranco Miglio aveva vantato il controllo della Lega sulle Forze Armate. Il 9 ottobre il generale Goffredo Canino, capo di Stato maggiore dell'Esercito, risponde che "sarebbe il colmo se l'Esercito stesse con la Lega". L'11 ottobre il ministro della Difesa, Fabio Fabbri attacca Bossi: "Il suo federalismo che, in vista della fondazione della Repubblica del Nord persegue la divisione dell'Italia in tre Stati, è obiettivamente una minaccia per l'unità nazionale". Passano dieci giorni e Canino se ne va, sulla scia delle polemiche nate per la rimozione del generale Biagio Rizzo che aveva sottovalutato il caso Monticone-Di Rosa. Ed eccoci al nove novembre, data di inizio di "Superga". 
Ciampi sta rispondendo alla Camera sul caso [dei fondi neri del] Sisde, annuncia lo scioglimento di Gladio e si schiera con il presidente della Repubblica. Bossi interviene a Montecitorio e annuncia che siccome la classe politica non intende andare alle elezioni anticipate, si assisterà al "ritiro della delegazione parlamentare della Lega e alla nascita di un governo provvisorio contro questo Parlamento. Questo governo provvisorio" dice il leader della Lega "farà una costituente federalista, naturalmente dove la Lega è presente, è chiaro che partirà dal Nord". Nelle stesse ore, a Milano, il presidente del Senato Spadolini avverte: "Nessuno creda di aver vinto gli spettri del nazionalismo, che si riproduce nell'ombra cupa del nazionalismo. Questi sono i veri pericoli sui quali occorre tenere ben aperti gli occhi e non è neppure estranea la prospettiva traumatica di una balcanizzazione dell'Europa". […]. Alla fine della giornata parla anche [l’esponente Dc Mino] Martinazzoli: "La proposta della Lega è antistorica e quando la storia va indietro la parola va alle armi". […] Mentre Viminale e Difesa "giocano" la "Superga", le forze politiche si attaccano al suon di secessioni minacciate e di accuse di voler rompere l'unità nazionale. Scalfaro riceve Ciampi. […]. Finisce l' esercitazione. La Lega si dedica alla campagna elettorale e usa toni meno allarmanti."
E’ difficile dare una lettura non banale di questa esercitazione.
Forse, "Ditex Superga Sette", non era altro che il colpo di coda della prima Repubblica: la teorizzazione di una sorta di ultima difesa delle istituzioni concepita da quella parte di classe dirigente italiana ancora "integra" (più sul piano giudiziario che su quello politico), desiderosa di mantenere a tutti i costi (per necessità o virtù) il traballante ma pur sempre vigente sistema di potere.

Forse, "Ditex Superga Sette", era l’ultima carta da giocare per provare a bloccare gli effetti più devastanti del piano di destabilizzazione politico-mafioso e quelli del travolgente vento di rinnovamento che stava scuotendo l’Italia. Un rinnovamento che per stessa ammissione dell’ambasciatore americano Bartholomew veniva spronato e alimentato proprio dagli statunitensi; un piano di destabilizzazione (riscontri giudiziari alla mano) che veniva sponsorizzato da ambienti transnazionali riconducibili a certi settori della politica USA e Britannica (vedi il coinvolgimento del “patron” della P2 Licio Gelli e la stesura del progetto “Eurotopia” fatta dell’agente britannico Cyril Northcote Parkinson).

Curiose in tal senso, le parole pronunciate dall’ex Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso:  
"Nel 1993 a Cosa Nostra fu affidata in subappalto una vera e propria strategia della tensione che ebbe nelle bombe di Roma, Milano e Firenze soltanto il suo momento più drammatico, ma ci sono tanti altri episodi da ritirare fuori e rileggere tutti insieme". 
Le stragi, spiega, furono compiute per spianare la strada a "nuove entità politiche. Con una duplice finalità: orientare la situazione in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, sempre balzata fuori nei momenti critici della storia"; e, contemporaneamente, offrire la possibilità a "un’entità esterna" di "riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica e sociale" di un paese sotto le "macerie di Tangentopoli"(10).

"L’entità esterna" a cui si riferisce consciamente o meno Grasso, entità che si è sempre nascosta dietro ai vari Andreotti, Berlusconi o qualsiasi altro burattino dall’influenza più o meno elevata, è quella tecnocrazia che per decenni si è celata, e si cela tutt’ora, dietro alle varie realtà istituzionali: ovvero quei gruppi di potenti (in stile Bilderberg Group) che spaziano dalla finanza speculativa, ad un controllo personalistico delle risorse come il petrolio, passando per la massoneria cosiddetta deviata e l’uso criminoso degli apparati d’intelligence. Vere e proprie lobby criminali che all’indomani della strage di Capaci erano già pronte a spartirsi la torta italiana.

Estratto da un documento diffuso dall'Executive Intelligence Review e dal Movimento Solidarietà il 14 gennaio 1993:
"Il 2 giugno 1992, a pochi giorni dall'assassinio del giudice Giovanni Falcone, si verificava in tutta riservatezza un altro avvenimento che avrebbe avuto conseguenze molto profonde sul futuro del Paese. Il "Britannia", lo yacht della corona inglese, gettava l'ancora presso le nostre coste con a bordo alcuni nomi illustri del mondo finanziario e bancario inglese: dai rappresentanti della BZW, la ditta di brockeraggio della Barclay's, a quelli della Baring & Co. e della S.G. Warburg. A fare gli onori di casa era la stessa regina Elisabetta II d'Inghilterra. Erano venuti per ricevere alcuni esponenti di maggior conto del mondo imprenditoriale e bancario italiano: rappresentanti dell'ENI, dell'AGIP, Mario Draghi del ministero del Tesoro, Riccardo Gallo dell'IRI, Giovanni Bazoli dell'Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop, alti funzionari della Banca Commerciale e delle Generali, ed altri della Società Autostrade.
Si trattava di discutere i preparativi per liquidare, cedere a interessi privati multinazionali, alcuni dei patrimoni industriali e bancari più prestigiosi del nostro paese. […]. Da parte loro gli inglesi hanno assicurato che la City di Londra era pronta a svolgere un ruolo, ma le dimensioni del mercato borsistico italiano sono troppo minuscole per poter assorbire le grandi somme provenienti da queste privatizzazioni. Ergo: dovete venire a Londra, dove c'è il capitale necessario. Fu poi affidato ai mass media, ed al nuovo governo Amato, il compito di trovare gli argomenti, parlare dell'urgente necessità di privatizzare per ridurre l'enorme deficit del bilancio. […]. L'obiettivo è semplicemente quello di prendere il controllo di ogni aspetto della vita economica italiana sfruttando le numerose scuse di ingovernabilità, corruzione, partitocrazia, inefficienza, ecc. […] A questo punto occorre dedicare qualche riga alle finanziarie di Wall Street che svolgono un ruolo decisivo nella “privatizzazione” delle imprese pubbliche italiane. Sono tre le ditte impiegate all'uopo come “consulenti” del governo Amato: Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers. Lo stesso ministro dell'Industria Giuseppe Guarino, contrario a una “svendita” del patrimonio industriale raccolto nelle ex Partecipazioni Statali, sembra riporre fiducia in queste tre finanziarie, i cui dirigenti incontrò il 17 settembre scorso nel corso di un viaggio a New York.
Sono molti attualmente a ritenere la Goldman Sachs la più potente finanziaria di Wall Street, posizione conquistata almeno a partire dal 1991, quando scoppiarono gli scandali di “insider trading” che la coinvolgevano assieme alla Salomon Brothers. Il presidente della Goldman Sachs, Robert Rubin, sarà il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale del Presidente Clinton. Quel posto dovrà essere un “ufficio di guerra economica” in stile britannico, per fronteggiare quelli che l'ex capo della CIA William Webster chiamò “gli alleati politici e militari dell'America che sono i suoi rivali economici”. Rubin non è il primo dirigente della Goldman Sachs che ricopre una carica nel governo americano. Prima di lui l'attuale vicepresidente, Robert Hormats, fu consigliere di Henry Kissinger al Dipartimento di Stato e un altro “senior partner”, John Whitehead, fu sottosegretario di Stato con Ronald Reagan. La Goldman Sachs é uno dei più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore delle monete, che determina tramite la sussidiaria J. Aron & CO., che opera sul mercato delle merci e dei “futures”. La Goldman Sachs ha rafforzato la sua presenza in Italia aprendo nel 1992 un “ufficio operativo” a Milano. […].

La Salomon Brothers domina, assieme alla Goldman Sachs, il commercio di greggio mondiale. La Salomon possiede anche la svizzera Phibro (Philipp Brothers), che opera nel settore delle materie prime. Nel 1989 la Phibro fu coinvolta in un caso di riciclaggio di milioni di dollari ricavati dalla vendita di cocaina negli Stati Uniti. I soldi venivano riciclati dalla banda chiamata “La Mina”, che lavorava per il cartello della coca colombiano, nella Phibro Precious Metal Certificates. Dopo gli scandali di “insider trading” e speculazione su Buoni del Tesoro USA scoppiati nel 1991, a cui abbiamo accennato sopra, ci fu un completo rinnovo dei vertici della finanziaria. Il nuovo presidente, attuale azionista di maggioranza, è Warren Buffett, originario di Omaha, Nebraska. Buffett, oltre ad essere amico intimo di George Bush, è anche il principale azionista del Washington Post e della rete televisiva ABC. Egli possiede vasti interessi anche nell'American Express (del cui consiglio di amministrazione fa parte Henry Kissinger) e nella Wells Fargo Bank. […] La Merrill Lynch è famosa per il ruolo che svolse in una sensazionale operazione di riciclaggio del denaro tra l'Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano. Si tratta della “Pizza connection”, che portò al processo in cui la famiglia mafiosa newyorchese dei Bonanno fu accusata di aver riciclato circa 3,5 miliardi di dollari fino a quando fu arrestata, nel 1984. I Bonanno avevano usato, per i loro traffici, la sede centrale di New York e gli uffici di Lugano della Merrill Lynch. L'aspetto più sconcertante del processo sulla “Pizza connection” in Svizzera e a New York è che essi ignorarono completamente la complicità dei vertici della Merrill Lynch. All'epoca del processo il ministro del Tesoro americano, responsabile per le ispezioni sul riciclaggio del denaro, era l'ex presidente della Merrill Lynch Donald Regan. Il processo si concluse con alcune multe nei confronti di funzionari minori della sede luganese della finanziaria americana, e la storia finì lì. Come è noto, la Merrill Lynch é stata incaricata dall'IRI, il 9 ottobre scorso, di preparare la privatizzazione del Credito Italiano.
Abbiamo fin qui identificato alcuni fatti poco noti che riguardano le tre finanziarie di Wall Street chiamate a svolgere un ruolo decisivo nella valutazione e nella stessa privatizzazione delle imprese pubbliche italiane. Queste finanziarie accedono a dati di grande importanza e delicatezza che riguardano alcune delle più valide imprese europee e si posizionano in assoluto vantaggio come “consiglieri per la privatizzazione”. Naturalmente, tutto secondo una rigida etica professionale e senza conflitti di interesse!"

Una lettura pienamente condivisa anche dall’ex dirigente ENI Benito Livigni:  
“[Negli anni 90] avevamo una crisi economica ed eravamo usciti dal Sistema Monetario Europeo, ma questo non giustificava l’abolizione del sistema che aveva garantito il Miracolo Economico. Quindi vi fu un attacco allo Stato imprenditore organizzato dalle grandi banche d’affari, che convinsero Ciampi e Amato a liberalizzare il settore pubblico. Mario Draghi, allora direttore generale del Ministero del Tesoro, spinse verso la privatizzazione. Venne distrutto lo Stato imprenditore, l’Eni da 130 mila dipendenti si ridusse a 30 mila, scaricando ai cittadini il costo di questa operazione. Operazione veramente indegna, perché si sono chiuse attività che portavano profitti allo Stato come la Nuovo Pignone, la Lebole, la chimica di base. Si distrusse l’Eni. Il patrimonio immobiliare dell’Eni, che valeva mille miliardi di lire, è stato venduto a Goldman Sachs per una lira. Si è commesso un crimine che secondo me doveva essere perseguito per legge, invece si è andato avanti: si è distrutto l’Iri, l’Imi, il sistema bancario italiano e financo la Banca d’Italia che non esiste più ed ora non abbiamo più un sistema di controllo finanziario. Naturalmente Draghi fu premiato e divenne presidente della Goldman Sachs Europa… Io non so se in un paese sia possibile un conflitto di interesse di questo genere”.
Sempre dal documento diffuso dall'Executive Intelligence Review e dal Movimento Solidarietà il 14 gennaio 1993:
"Un capitolo a parte merita il ruolo svolto dalla Lega Nord nella strategia anglo-americana di saccheggio dell'economia italiana. La Lega Nord, infatti, con la sua politica liberista radicale, è lo strumento politico ideale per realizzare gli obiettivi angloamericani. La Lega propone la privatizzazione di ogni attività economica in mano allo stato, dall'energia ai trasporti, dalle industrie di difesa alla Rai. Se si realizzasse la politica della Lega, non occorrerebbe sancire la secessione del Nord dal Sud (e infatti Bossi ha abbandonato il progetto di “Repubblica del Nord”, definendola una “provocazione”), in quanto la Repubblica italiana si frantumerebbe da sé. Allo stato centrale, infatti, secondo i leghisti, resterebbero solo i poteri di battere moneta, di difesa e di politica estera. Ma, poichè il primo è saldamente nelle mani della Banca d'Italia e il secondo, come gli stessi leghisti affermano, sarà delegato a strutture sovrannazionali nell'ambito dei nuovi scenari di guerre Nord-Sud, lo stato nazionale italiano sará una vuota carcassa. Ecco perché la Lega è stata appoggiata dai media che fanno capo alla City di Londra (Economist, Financial Times) e da Wall Street (Wall Street Journal, Time). E' difficile scoprire diretti legami tra questi centri finanziari internazionali e la Lega, anche se si può ipotizzare l'esistenza di contatti nell'ambito di canali massonici. 
 Certamente si nota una straordinaria coincidenza tra l'ideologia leghista e i programmi sviluppati da certi centri studi. Un esempio: la trasformazione dell'Italia in “macroregioni” è una politica ufficialmente promossa dalla Fondazione Agnelli, che alla fine del 1990 avviò un progetto chiamato “Padania”, poi presentato in un convegno tenutosi a Torino l'11 e il 12 giugno 1992, con la partecipazione dell'ideologo della Lega, Gianfranco Miglio. Scopo del convegno fu quello di discutere “soluzioni specifiche, procedurali e/o istituzionali” per l'autonomia amministrativa della “macroregione” Padania, allo scopo di valorizzarne le risorse con “opportune competenze di governo”. Al di là del linguaggio formale, è chiaro che la Fondazione Agnelli promuove il progetto leghista. La Fondazione Agnelli, come è noto, fa capo alla famiglia Agnelli, legata a Enrico Cuccia, il “garante” degli equilibri economico-finanziari tra le grandi famiglie italiane e i centri di potere internazionali, ai quali è collegato tramite la banca Lazard. Checché ne dica Bossi, egli si sta muovendo esattamente verso la distruzione dello stato nazionale, obiettivo ben chiaro nelle strategie dei suoi sponsor internazionali. Lo stesso organo della Lega, Repubblica del Nord, ha pubblicato il 21 ottobre 1992 uno studio promosso dalla “Associazione Americana di Geografia” […] la quale prevede entro sei anni la divisione dell'Italia in cinque repubbliche, Nord, Centro, Sud e le isole. Un progetto coerente col disegno leghista, tanto che l'organo del partito di Bossi se ne compiace, e con quello attribuito alla Mafia di cui ha parlato, in una udienza presso la Commissione Parlamentare Antimafia, il pentito Leonardo Messina."

E’ questa la vera motivazione dietro al piano di smembramento degli stati europei pubblicizzato da Heineken: l’acquisto (tramite le grandi banche anglo-americane) delle principali infrastrutture del paese per provare ad eterodirigerne la politica, limitando così le mire geostrategiche italiane (soprattutto nell’area mediterranea) per favorire quei paesi che da sempre, per motivi geopolitici, sono stati alleati, ma allo stesso tempo avversari del nostro paese. Uno degli esempi più lampanti è la Gran Bretagna; la stessa Gran Bretagna che negò al procuratore Tescaroli una rogatoria per accertare le dichiarazioni rese dal boss Di Carlo riguardo i suoi incontri con esponenti dei servizi segreti di più nazioni al fine di eliminare Falcone.

Finito dunque il periodo di “chaos organizzato” a suon di bombe e scandali veri o presunti, arriva il momento in cui i burattinai della realtà italiana si trovano costretti a scegliere dei personaggi politici locali, il cui scopo sarà quello di garantire quel nuovo equilibrio che renderà possibile il disegno sopradescritto: un piano eversivo che punta ad un ricambio della classe dirigente del nostro paese per dare vita a quel "nuovo ordine deviato massonico politico culturale" descritto a tempo debito dal "premonitore" Ciolini.

Un piano eversivo in cui s’inserisce opportunisticamente anche Cosa Nostra, la quale, analogamente ai burattinai internazionali, voleva fare piazza pulita dei vecchi riferenti politici che avevano “tradito” l’organizzazione. E’ forse questo il motivo per cui gruppi esterni all’organizzazione criminale ritennero utile stabilire, o semplicemente rinnovare, un’alleanza con la mafia siciliana al fine di strumentalizzarla per raggiungere obiettivi sconosciuti o semplicemente ignorati (per motivi prevalentemente culturali) dai picciotti di Cosa Nostra; il processo che crea, come in questo caso, una sorta d’unione d’intenti tra mafia e altri interessi, venne battezzato all’indomani del fallito attentato all’Addaura da Giovanni Falcone come “la saldatura”.

Tra le persone che rientrano in questo concetto di “saldatura”, dati alla mano, c’è sicuramente Silvio Berlusconi: personaggio indubbiamente potente ma allo stesso tempo ricattabile (e quindi nei limiti del possibile controllabile) per i suoi vecchi legami di natura economica con Bettino Craxi, Licio Gelli e Cosa Nostra.

Sarà lui il principale addetto al mantenimento del nuovo equilibrio italiano.

Estratto dall’articolo “Più poveri ma brutti” di Sergio Ferrari e Roberto Romani:  
"La Relazione sulle privatizzazioni del ministero dell'Economia e delle finanze del luglio 2004 ha fotografato lo stato dell'arte delle privatizzazioni in Italia e come queste hanno contribuito in misura significativa alla riduzione del peso economico pubblico nel consesso internazionale. L'Italia si colloca al secondo posto, tra i paesi di area Ocse, per valore di introiti, e al primo a livello europeo, nella cessione ai privati delle imprese pubbliche. Dal 1994 al 31 dicembre 2003 lo Stato ha ceduto quote di proprietà pubblica per un ammontare di quasi 90 miliardi di euro. Inoltre, se all'inizio della legislatura l'attuale compagine governativa [il secondo governo Berlusconi] aveva una certa difficoltà a mettere all'ordine del giorno la cessione di ulteriori attività pubbliche, con il 2003 il paese riconquista un ruolo di rilievo a livello internazionale. Infatti, l'Italia rappresenta il 34% delle privatizzazioni mondiali nel 2003, cioè molto al di sopra dei picchi, già alti, del 1997 (14%), 1999 (15%) e del 2001 (15%). Nonostante il 2003 sia stato un anno significativamente modesto per le privatizzazioni mondiali, soprattutto se comparate al periodo 1996-2000; nonostante la modesta crescita economica e la profonda crisi della governance finanziaria delle imprese nazionali; nonostante una sostanziale stagnazione degli scambi mobiliari; il governo di centro-destra è riuscito a realizzare operazioni per un controvalore di 16.600.300.500,00 euro".

Scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera:  
“Con la conclusione della vendita Telecom [25 ottobre 1997] (ventiseimila miliardi incassati dal Tesoro, l'operazione più grossa mai conclusa in Europa), l'Italia conquista il record mondiale delle privatizzazioni: sui 460 miliardi di dollari del giro d'affari planetario di questo business negli anni '90, gli incassi complessivi realizzati da imprese italiane e dal Tesoro ammontano a circa 100 miliardi di dollari. Nel solo 1997 al Tesoro sono arrivati 32 miliardi di dollari, mentre nello stesso periodo le privatizzazioni spagnole hanno raggiunto i 10 miliardi e quelle francesi i 7,5. La Germania si è fermata a due e mezzo. Nulla di miracoloso, visto che l'Italia partiva da una presenza dello Stato in economia di un'estensione che non ha pari in Occidente. Ma anche un risultato che solo cinque anni fa [nel ‘92], quando il governo Amato aprì la strada delle privatizzazioni con la trasformazione degli enti come Iri, Eni ed Enel in società per azioni, sembrava un traguardo irraggiungibile”.

Ecco, perché non si può dire la verità.

 
Massimiliano Paoli (M4X)

Note

1 - Grignetti Francesco, Gladio spiava Cosa Nostra, La Stampa.
2 - Palazzolo Salvo, Trapani, tra mafia e servizi deviati, Limes.
3 - Dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria il 9 maggio 1994.
4 - http://www.youtube.com/watch?v=ia5DlqSWeeQ
5 - Lo Bianco Giuseppe; Rizza Sandra, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere.
6 - Torrealta Maurizio; Mottola Giorgio, Processo allo Stato, Biblioteca Universitaria Rizzoli.
7 - Dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria nel 1998 e riprese successivamente dal giornale “la Repubblica” nel 2001.
8 - Maltese Curzio, Sinistra, giudici, Rai ora basta con le guerre, la Repubblica.
9 - Dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria il 28 maggio 1997.
10 - Ziniti Alessandra, Grasso: "Le stragi mafiose del ’93 volevano favorire un’entità politica", la Repubblica.

fonte: http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=4409
http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=4410

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