Oltre alle
coincidenze inspiegate ed agli intenzionali occultamenti dei fatti, un
altro tarlo minaccia il nostro attuale metodo scientifico ed anzi
probabilmente è il più pericoloso di tutti. Mi riferisco alla cronica
incapacità dell’essere umano di trarre le ovvie conclusioni, anche di
fronte all’evidenza più sfacciata. Non mi riferisco evidentemente alla
percentuale di credibilità delle giustificazioni di mogli e mariti
infedeli, ma a nozioni che, pur essendo apparentemente di patrimonio
comune, in realtà non sono “arrivate” mai nella conoscenza collettiva.
Visto che
l’attualità ci propone le preoccupazioni per un eventuale sviluppo
pandemico dell’influenza aviaria, penso che sia arrivato il momento di
conoscere un po’ meglio i nostri amici virus.
Dal punto di vista
della classificazione i virus hanno sempre presentato un’infinità di
problemi. Inseriti a forza tra i Protisti Inferiori, in realtà hanno ben
poco a che vedere con le forme di vita più primitive e questo aspetto è
ancora più evidente quando si analizzino le parole usate per descriverli
in tutti i testi scientifici specializzati. La frase più ricorrente è “I
virus non sono né forme di vita né materia inanimata”. L’imbarazzo è
evidente, non è proprio ortodosso definire un’entità qualunque dicendo
ciò che non è… Ma pesando con attenzione questa frase, che cosa se ne
ricava? Che i virus non sono organismi biologici, non si riproducono e
non si evolvono autonomamente, ma sono composti di materia, che però è
dotata di mobilità.
In parole povere,
i virus sono delle macchine.
LA SIRINGA
DI DIO
Che i virus non
siano una forma di vita è evidente per chiunque: tutti sanno che gli
antibiotici sono inefficaci contro di loro, ma spesso il dato viene
trascurato ed annega nel quotidiano accumulo di informazioni inutili che
ci affligge. Tanti fraintendimenti hanno una ragione semantica precisa:
se esiste un’infezione virale, i virus sicuramente si riprodurranno e
quindi potremmo anche supporne plausibile un’evoluzione nel tempo, ma le
cose non stanno esattamente così.
Edizione italiana di
Popular Mechanics (1981), rielaborazione di Alessio Feltri -
www.foresight.org,
rielaborazione di Alessio Feltri www.virology.net
La nostra
“macchinetta” T4, di cui a sinistra e a destra vedete due foto al
microscopio elettronico, è bene evidenziata nello schema al centro.
Abbiamo una “testa” icosaedrica, una “coda” inguainata in una spirale,
delle fibre e delle punte alla base, che fanno assomigliare il T4 al
modulo lunare della missione Apollo.
La testa o
“capside” è un contenitore di DNA costituito da una guaina proteica. La
forma, molto frequente anche in altri virus, non è casuale. L’icosaedro
(20 facce identiche costituite di triangoli equilateri) è uno dei 5
solidi platonici ed ha la caratteristica di ottimizzare il volume del
contenuto in rapporto alla superficie, e quindi alla quantità di
materiale necessario per costruirlo.
La coda non è una
coda, ma un miracolo di nanotecnologia, in quanto ha la capacità di
contrarsi per iniettare nelle cellule il DNA stivato nel capside. Le
fibre e le punte servono invece ad agganciare il virus alla parete della
cellula, nella cosiddetta fase di “adsorbimento”.
Rapp
& Melnick, Scientific American (1966), Bogen, rielaborazione di Alessio
Feltri
E’ interessante
notare (dettaglio C) come le fibre della coda siano ripiegate verso
l’alto quando il virus è in latenza, altro mirabile esempio di
ottimizzazione spaziale. Dal dettaglio A ricaviamo invece un altro
elemento interessante. Il T4 misura complessivamente 2000x650 Angstrom
e, se ricordiamo che la maggior parte degli atomi misura da 1 a 3
Angstrom di diametro, dobbiamo rilevare come i virus siano molto più
piccoli delle forme di vita più piccole, visto che esistono virus
batterici inferiori ai 200 Angstrom di diametro.
Ma torniamo alla
spinosa questione della ricombinazione. Se il virus fosse una forma di
vita, potremmo definirlo un parassita, visto che per riprodursi ha
bisogno di cellule di altri organismi, ma il virus non è
una forma di vita, per cui, una volta iniettato il genoma virale nella
cellula ospite, il virus non “cresce”, ma “si costruisce”. I suoi
elementi costitutivi vengono prodotti in vari punti della cellula e solo
in seguito vengono assemblati a costituire il virus vero e proprio, come
evidenziato dalla tavola seguente, sempre riferita al virus batterico
T4.
Wood
& Edgar, Scientific American (1967), rielaborazione di Alessio Feltri
Ricapitolando,
abbiamo per ora delle macchine che iniettano nelle cellule il software
necessario per costruire altre macchine, e tutto semplicemente seguendo
i dettami della scienza ufficiale, senza nessun volo pindarico
particolare. Semmai sono gli scienziati che in taluni casi hanno
avanzato ipotesi alquanto improbabili, riguardo ad un aspetto della
questione invero molto imbarazzante.
Dato che il DNA (o
RNA) dei virus è per così dire “ad personam”, è necessario che
all’interno del genoma virale siano presenti delle informazioni
compatibili con il DNA dell’organismo ospite, e visto che i virus non
sono forme di vita, è abbastanza chiaro che qualcuno o qualcosa li ha
costruiti così…
Per superare
questo problema metafisico, qualche scienziato ha ipotizzato che i virus
siano dei segmenti di DNA che si siano staccati dalla doppia elica per
affrontare una vita nomade e poi abbiano cambiato idea, cercando di
ritornarvi.
La mia opinione è
che costoro da bambini siano stati molto impressionati dalla famosa
“Mano” della Famiglia Addams, ma forse sono più rigoroso di quanto i
miei lettori non pensino.
I virus iniettano
una “dose” che si inserisce perfettamente nel DNA dell’ospite ed ogni
sua apparente evoluzione in realtà è un “incidente” in sede di
montaggio, ricombinazione o riassortimento genetico che dir si voglia.
Ma è davvero sempre un incidente?
o da quest’altra,
riferita al virus SV40, noto per i suoi effetti oncogeni.
http://pathmicro.med.sc.edu,
rielaborazione di Alessio Feltri
http://people.cornellcollege.edu, rielaborazione di Alessio Feltri
La scienza si
occupa con ottimi risultati di capire e copiare i meccanismi operativi
del DNA e del virus, ma ben poco ci ha mai detto sulla loro origine,
almeno ufficialmente. Accontentiamoci di estrapolare dal contesto alcuni
concetti basilari, che ci saranno utili.
Il primo è che di
norma nell’uomo i naturali nemici dei virus sono i linfociti del sistema
immunitario, i quali solitamente riescono ad inibire l’azione virale
appena due ore prima che sia irreversibile. Il secondo è che i
cosiddetti retrovirus, come l’HIV per esempio, agiscono come mine a
tempo, usando la latenza per celarsi al sistema immunitario in attesa,
per così dire, di tempi migliori, in cui qualche stress psicofisico
indebolisca la velocità di risposta dell’organismo.
Anche se volessimo
attribuire l’attuale struttura dei virus a ricombinazioni dovute ad una
millenaria entrata-uscita dagli organismi ospiti, mi pare molto
difficile che i loro “comportamenti” almeno iniziali non siano effetto
di un progetto ben preciso, i cui inquietanti contorni possono essere
ricostruiti solo con elementari processi di intelligence.
FIGLI DELLE STELLE
Recentemente un
giornalista scientifico, di cui non farò il nome, ha riportato delle
teorie del famoso astrofisico Sir Alfred Hoyle, definendolo uno
scienziato eretico. Nella mia ingenuità pensavo che l’accusa di eresia
fosse confinata all’ambito religioso, ma evidentemente la nostra società
ha prodotto il più politeistico dei monoteismi possibili.
Oggi chiunque si
discosti da enunciazioni politicamente corrette corre concreti rischi di
emarginazione, esattamente come ai tempi della Santa Inquisizione,
perfino quando porti prove concrete a favore della propria tesi e questo
non mi pare davvero un metodo molto efficiente per progredire…
Ma cosa lega Hoyle
ai virus? Un’intuizione che, pur essendo stata confermata dalle
osservazioni, è stata accuratamente occultata ai media.
Secondo Alfred
Hoyle intorno alla Terra “sostano” microorganismi di origine spaziale,
forse provenienti da comete, che sono anche i responsabili delle ondate
epidemiche che hanno colpito l'umanità nel corso della sua storia, dalla
peste ed il vaiolo nel passato all'attuale influenza. L'origine di
queste epidemie non è mai stata spiegata esaurientemente. La gente, per
esempio, attribuisce al freddo il diffondersi annuale dell'influenza,
perché avviene d'inverno: ma nell'emisfero meridionale l'influenza
arriva d'estate, col caldo. Qual è dunque la loro meccanica? A 15-50
chilometri di quota, dove i virus sostano, l'aria è immobile e comunque
i meccanismi di inversione termica favoriscono le traslazioni
orizzontali; ma una volta all'anno, e precisamente nel periodo che va da
novembre a febbraio, esattamente come le epidemie delle malattie
respiratorie, nella stratosfera si crea una potente circolazione
verticale, che trasferisce immense masse d'aria dai livelli superiori a
quelli al di sotto dei 12 chilometri.
«Vaiolo» è un
termine che risale al latino medioevale e prima di allora era assente
sia dai testi classici latini che dai testi ippocratici greci. Eppure
molti studiosi sono convinti che le «ulcere» citate dalla Bibbia come
una delle «piaghe d'Egitto» non fossero altro che vaiolo; una malattia,
dunque, che si presenta e poi scompare a ondate. Hoyle ne concluse che
alla base di questo comportamento vi erano variazioni delle condizioni
astronomiche. Anche alcune particolarità della diffusione della peste
bubbonica, portata in Europa secondo le cronache nel Quattordicesimo
secolo, sarebbero cosi spiegabili. Altrimenti, perché il morbo avrebbe
colpito villaggi isolati nel cuore dell'Inghilterra, della Francia e
della Spagna, e avrebbe invece risparmiato grandi città come Liegi e
Norimberga e vasti tratti di costa come le regioni rivierasche di Spagna
e Portogallo?
La tesi di Hoyle
richiedeva una verifica e cioè che dei palloni sonda rilevassero
effettivamente tracce di questa gigantesca sfera virale intorno al
nostro pianeta, cosa che puntualmente avvenne (per mano sovietica) nel
più assoluto silenzio degli organi ufficiali, tanto che Hoyle scelse di
dimettersi dai suoi prestigiosi incarichi e darsi alla coltura delle
ortensie.
Edizione italiana di
Popular Mechanics (1980), rielaborazione di Alessio Feltri
In questa
rarissima immagine degli anni ’70 potete vedere un minuscolo (un
centesimo di millimetro) frammento dello strato di cui sopra, riportato
a terra da un pallone sonda. Nell’ingrandimento ho evidenziato uno dei
soliti intrecci fibrosi radiali, quelli che definisco convenzionalmente
“sinaptici”.
Le malattie sono
solo un aspetto dell’enigma virus e nemmeno il più importante. Dallo
studio dei virus oncogeni sappiamo che questi ultimi in alcuni casi
provocano un’incontrollata proliferazione cellulare, mentre in altre
circostanze si limitano ad indurre modificazioni innocue nel DNA.
In altre parole il
virus se non ti uccide, ti cambia. Si potrebbe essere anche tentati di
considerarli un raffinato espediente per automatizzare il controllo
della quantità e del comportamento della biomassa planetaria, un motore
occulto dell’evoluzione. Fantascienza? Forse, ma pare che la questione
sia proprio questa.
Tutta la faccenda
è sempre stata coperta da rigoroso riserbo. Il cancro può sopravvenire
per molti motivi, ma, dato che ognuno di noi è un portatore più o meno
sano di retrovirus potenzialmente oncogeni, determinate informazioni, se
diffuse ufficialmente, potrebbero causare fenomeni di allarme sociale,
anche senza scomodare implicazioni teologiche o devianze ipotizzabili
sull’onda del “dagli all’untore” di manzoniana memoria. Molto più
prudente appellarsi a non precisate cause genetiche. Si dice la verità e
contemporaneamente non si dice nulla. Esattamente come quando si dice
che sulla Luna o su Marte non sono state ancora individuate forme di
vita.
Forse vi sembrerà
che io mi sia spinto un po’ troppo oltre, ma c’è chi ha fatto di peggio
e non era una persona qualsiasi, era il massimo esperto mondiale di DNA,
premio Nobel insieme a Watson per la scoperta della doppia elica,
Francis Harry Compton Crick (1916-2004).
DATEMI UN CRICK E VI SOLLEVERO’ IL MONDO
Per comprendere
meglio la genesi del pensiero di Crick è utile ripercorrere per sommi
capi la sua carriera. Il primo elemento significativo è che, dopo la
scoperta della doppia elica del 1953 ed il Nobel conquistato a 46 anni
insieme a Watson e Wilkins, Crick iniziò a studiare approfonditamente i
virus. Ora, se il maggior esperto mondiale di DNA ha pensato che i virus
rappresentassero un passaggio obbligato per la comprensione del
meccanismo genetico, perché mai non dovremmo essere d’accordo con lui?
Le conclusioni di
Crick apparvero nella seconda metà degli anni ’70 e furono talmente
rivoluzionarie da creargli un’opposizione micidiale da parte
dell’establishment scientifico. Gli unici a condividerne i principi
fondamentali furono proprio Hoyle ed imprevedibilmente Carl Sagan, cioè
colui che da molti si ritiene essere stato il principale artefice
ideologico del cover-up sui risultati conseguiti nell’esplorazione
spaziale. Crick non si limitò a confermare il ruolo giocato dai virus
nel “controllare” le forme di vita terrestri, ma si spinse fino ad
attribuire loro la responsabilità diretta dell’esistenza di organismi
evoluti sul nostro pianeta.
L'ipotesi della
direst panspermia, la «panspermia guidata», fu discussa la
prima volta nel corso della Conferenza Internazionale
sull'Intelligenza Extraterrestre che ebbe luogo presso
l'Osservatorio Astrofisico di Gyurakam nella città di Yeravan (Armenia)
nel settembre 1971, i cui atti furono raccolti da Carl Sagan nel volume
Communications with Extraterrestrial Intelligence. Crick riprese
poi l'argomento in un saggio scritto insieme a Leslie Orgel e pubblicato
nel 1973 su Icarus, una rivista di scienze planetarie. Un
ampliamento delle sue tesi si ebbe infine con l'articolo Selfish DNA:
the Ultimate Parasite pubblicato su Nature dell'aprile 1980.
In questo
intervento Crick partì da alcune sue conclusioni raggiunte dopo quasi
trent'anni di studi sulla molecola dell'acido desossiribonucleico e le
utilizzò per avallare la tesi della «panspermia guidata». Ormai si era
raggiunta la certezza che non tutti i geni contenuti nei cromosomi di
cui è composta la doppia elica del DNA contenevano la codificazione
necessaria per le proteine, cioè per la formazione del corpo. Nel
caso dell'organismo umano, soltanto l'1,7% del DNA serve a dare gli
schemi costitutivi delle proteine: il resto del DNA contiene la replica
per milioni di volte delle stesse unità genetiche.
Perché vi sono e
che scopo hanno tanti doppioni? Secondo Francis Crick la risposta è che,
come dice il titolo del suo articolo su Nature, il DNA è “egoista”, anzi
è “il parassita definitivo”. Questo in quanto, a suo giudizio, non sono
né gli individui singoli né le specie nel loro complesso i soggetti
dell'evoluzione, ma quei complessi molecolari che sono stati definiti
geni, i quali contengono le informazioni genetiche. Di conseguenza gli
organismi viventi alla fine debbono essere considerati nient'altro che
dei semplici e temporanei contenitori di questi geni egoisti. Il DNA si
può quindi paradossalmente definire un parassita.
Al suo interno i
geni hanno moltiplicato se stessi oltre il necessario, creando repliche
su repliche come si è detto prima, allo scopo di rendere sicura la
sopravvivenza dei loro “contenitori”. Essi, afferma Crick, «hanno
trovato il modo di produrre una maggiore quantità di se stessi, prima
ancora che la propria discendenza».
La conseguenza è
logica. L'evoluzione che si può riscontrare sia a livello individuale
che di specie è l'effetto esteriore dell'evoluzione “personale” della
molecola di DNA, la quale si comporta come fosse un “parassita
intelligente”, non nemico dell'organismo ospite, ma al contrario capace
di fornirgli la spinta necessaria a progredire.
Penso che non sia
sfuggito al lettore il fatto che definire il DNA un “parassita” sia un
modo indiretto per assegnarne l’origine proprio all’operato dei virus,
cioè le perfide macchinette parcheggiate in quell’area della stratosfera
terrestre di cui parlava Hoyle. Ma come avrebbero agito per ottenere il
loro scopo?
C'è un punto in
comune nel ragionamento scientifico che sta alla base delle tesi di
Hoyle e Crick, ed è questo: entrambi gli scienziati hanno considerato
improponibile il periodo di tre miliardi di anni che comunemente si
indica come data di inizio della vita sul nostro pianeta.
Per passare
darwinianamente dal meno complesso al più complesso, dall'ameba all'uomo
come si suol dire anche sui testi scolastici, tre miliardi di anni sono
troppo pochi, così come lo sono anche i quattro e mezzo con i quali si
indica l'età della Terra.
Crick concordava
con Hoyle sulla panspermia, ma ne ipotizzava una versione “guidata”, non
dispersa indiscriminatamente nell'etere secondo una conseguenza della
teoria dell'”universo stazionario”, ma sviluppatasi su un unico pianeta
da cui erano partite sonde interplanetarie che l'avevano volutamente
diffusa attraverso la galassia sotto forma di virus, spore e batteri.
Negli ultimi 25
anni, pur tra mille reticenze, nuovi mattoni hanno in parte modificato
l’edificio di Crick. In particolare si è ipotizzato che l’intervento
dei virus si sia concretizzato 570 milioni di anni fa, quando, dopo
due miliardi e mezzo di forme di vita estremamente primitive, si era
verificata sul nostro pianeta una vera e propria esplosione di forme di
vita complesse. I virus in sostanza sarebbero intervenuti su un
substrato biologico preesistente, stimolandone l’evoluzione.
Di fatto comunque
l’intuizione di Crick venne un po’ offuscata dal suo saltare alle
conclusioni. Crick, come Hoyle del resto, non era un creazionista, ma
questo attribuire la vita sul nostro pianeta ad un’ipotetica cultura
extraterrestre, che aveva cercato la salvezza da qualche disastro
propagando il suo patrimonio genetico nello spazio, assomigliava più
alla vita di Superman che ad una teoria seria. Quello che però possiamo
considerare scontato è l’effettivo rapporto tra i virus ed il DNA.
Personalmente
opterei per un’altra spiegazione delle innumerevoli copie di unità
genetiche apparentemente uguali. In natura non esistono casi di
ridondanza inutile. In caso di danneggiamento le unità biologiche
normalmente dispongono di un software che tenta di effettuare le
riparazioni necessarie (cellule staminali e simili), per cui se il DNA
fosse un parassita intelligente non dovrebbe far altro, per proteggersi,
che dotarsi delle istruzioni necessarie, come nel caso dell’amputazione
della coda nelle lucertole.
All’inizio degli
anni ’80 Colin Blakemore aveva fatto notare che per dare un senso
all’evoluzione era necessario individuare una localizzazione per la
memorizzazione delle esperienze accumulate da ogni forma di vita e, dato
che il DNA era l’unico luogo “stabile” dove tali esperienze potessero
essere memorizzate, era proprio al suo interno che andavano cercate. La
verifica sperimentale si è avuta nelle ultime settimane, con
l’individuazione dei meccanismi di sintesi proteica relativi alla
formazione di ogni singolo ricordo. In base a queste premesse la mia
ipotesi è quindi che le aree inspiegate del nostro DNA siano in parte
deputate alla memorizzazione delle nostre esperienze sotto forma di
meccanismi di sintesi e trasmesse alla prole al momento del
concepimento. Nel nostro DNA sarebbero quindi presenti codificati
tutti i ricordi accumulati dai nostri predecessori genetici ed ogni
nostro contributo all’evoluzione della specie sarebbe codificato e
memorizzato come la sintesi proteica necessaria per “formare” un ricordo
imprevisto o impensato. Del resto dai movimenti oculari dell’embrione
durante le fasi di sonno REM sappiamo che sogna:
e cosa mai
potrebbe sognare se non quanto immagazzinato nella propria memoria
genetica?
Non è un caso che sia stata verificato sperimentalmente che
l’interazione ambientale del neonato subito dopo la nascita è
enormemente superiore a quella che ha dopo una settimana di vita…
A molti non
sfuggiranno le analogie con l’innatismo di Platone, in base al
quale tutto ciò che ci può succedere è già dentro di noi, ma chi ci dice
che Platone avesse torto?
ALESSIO FELTRI
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