mercoledì 4 giugno 2014

VIRUS

Oltre alle coincidenze inspiegate ed agli intenzionali occultamenti dei fatti, un altro tarlo minaccia il nostro attuale metodo scientifico ed anzi probabilmente è il più pericoloso di tutti. Mi riferisco alla cronica incapacità dell’essere umano di trarre le ovvie conclusioni, anche di fronte all’evidenza più sfacciata. Non mi riferisco evidentemente alla percentuale di credibilità delle giustificazioni di mogli e mariti infedeli, ma a nozioni che, pur essendo apparentemente di patrimonio comune, in realtà non sono “arrivate” mai nella conoscenza collettiva.


Visto che l’attualità ci propone le preoccupazioni per un eventuale sviluppo pandemico dell’influenza aviaria, penso che sia arrivato il momento di conoscere un po’ meglio i nostri amici virus.



Dal punto di vista della classificazione i virus hanno sempre presentato un’infinità di problemi. Inseriti a forza tra i Protisti Inferiori, in realtà hanno ben poco a che vedere con le forme di vita più primitive e questo aspetto è ancora più evidente quando si analizzino le parole usate per descriverli in tutti i testi scientifici specializzati. La frase più ricorrente è “I virus non sono né forme di vita né materia inanimata”. L’imbarazzo è evidente, non è proprio ortodosso definire un’entità qualunque dicendo ciò che non è… Ma pesando con attenzione questa frase, che cosa se ne ricava? Che i virus non sono organismi biologici, non si riproducono e non si evolvono autonomamente, ma sono composti di materia, che però è dotata di mobilità.
In parole povere, i virus sono delle macchine.


LA SIRINGA DI DIO
Che i virus non siano una forma di vita è evidente per chiunque: tutti sanno che gli antibiotici sono inefficaci contro di loro, ma spesso il dato viene trascurato ed annega nel quotidiano accumulo di informazioni inutili che ci affligge. Tanti fraintendimenti hanno una ragione semantica precisa: se esiste un’infezione virale, i virus sicuramente si riprodurranno e quindi potremmo anche supporne plausibile un’evoluzione nel tempo, ma le cose non stanno esattamente così.

Ritorniamo invece all’analisi semantica e prendiamo ad esempio un’altra frase, proveniente dal mondo scientifico, ossessivamente ripetuta dagli ignari speakers del sistema radiotelevisivo: “Il timore è che il virus, ricombinandosi, possa infettare anche l’uomo”. La sostituzione di “evoluzione” con “ricombinazione” è tutt’altro che casuale ed attiene a tutti gli effetti all’infausta categoria dell’ipocrisia scientifica. Per chiarire meglio questi concetti prendiamo in esame uno dei primi virus ad essere stato studiato approfonditamente, il batteriofago T4.
 

 
Edizione italiana di Popular Mechanics (1981), rielaborazione di Alessio Feltri - www.foresight.org, rielaborazione di Alessio Feltri www.virology.net

La nostra “macchinetta” T4, di cui a sinistra e a destra vedete due foto al microscopio elettronico, è bene evidenziata nello schema al centro. Abbiamo una “testa” icosaedrica, una “coda” inguainata in una spirale, delle fibre e delle punte alla base, che fanno assomigliare il T4 al modulo lunare della missione Apollo.

La testa o “capside” è un contenitore di DNA costituito da una guaina proteica. La forma, molto frequente anche in altri virus, non è casuale. L’icosaedro (20 facce identiche costituite di triangoli equilateri) è uno dei 5 solidi platonici ed ha la caratteristica di ottimizzare il volume del contenuto in rapporto alla superficie, e quindi alla quantità di materiale necessario per costruirlo.
La coda non è una coda, ma un miracolo di nanotecnologia, in quanto ha la capacità di contrarsi per iniettare nelle cellule il DNA stivato nel capside. Le fibre e le punte servono invece ad agganciare il virus alla parete della cellula, nella cosiddetta fase di “adsorbimento”. 

 Rapp & Melnick, Scientific American (1966), Bogen, rielaborazione di Alessio Feltri

E’ interessante notare (dettaglio C) come le fibre della coda siano ripiegate verso l’alto quando il virus è in latenza, altro mirabile esempio di ottimizzazione spaziale. Dal dettaglio A ricaviamo invece un altro elemento interessante. Il T4 misura complessivamente 2000x650 Angstrom e, se ricordiamo che la maggior parte degli atomi misura da 1 a 3 Angstrom di diametro, dobbiamo rilevare come i virus siano molto più piccoli delle forme di vita più piccole, visto che esistono virus batterici inferiori ai 200 Angstrom di diametro.
Ma torniamo alla spinosa questione della ricombinazione. Se il virus fosse una forma di vita, potremmo definirlo un parassita, visto che per riprodursi ha bisogno di cellule di altri organismi, ma il virus non è una forma di vita, per cui, una volta iniettato il genoma virale nella cellula ospite, il virus non “cresce”, ma “si costruisce”. I suoi elementi costitutivi vengono prodotti in vari punti della cellula e solo in seguito vengono assemblati a costituire il virus vero e proprio, come evidenziato dalla tavola seguente, sempre riferita al virus batterico T4.

  Wood & Edgar, Scientific American (1967), rielaborazione di Alessio Feltri

Ricapitolando, abbiamo per ora delle macchine che iniettano nelle cellule il software necessario per costruire altre macchine, e tutto semplicemente seguendo i dettami della scienza ufficiale, senza nessun volo pindarico particolare. Semmai sono gli scienziati che in taluni casi hanno avanzato ipotesi alquanto improbabili, riguardo ad un aspetto della questione invero molto imbarazzante.

Dato che il DNA (o RNA) dei virus è per così dire “ad personam”, è necessario che all’interno del genoma virale siano presenti delle informazioni compatibili con il DNA dell’organismo ospite, e visto che i virus non sono forme di vita, è abbastanza chiaro che qualcuno o qualcosa li ha costruiti così…



Per superare questo problema metafisico, qualche scienziato ha ipotizzato che i virus siano dei segmenti di DNA che si siano staccati dalla doppia elica per affrontare una vita nomade e poi abbiano cambiato idea, cercando di ritornarvi.
La mia opinione è che costoro da bambini siano stati molto impressionati dalla famosa “Mano” della Famiglia Addams, ma forse sono più rigoroso di quanto i miei lettori non pensino.

I virus iniettano una “dose” che si inserisce perfettamente nel DNA dell’ospite ed ogni sua apparente evoluzione in realtà è un “incidente” in sede di montaggio, ricombinazione o riassortimento genetico che dir si voglia. Ma è davvero sempre un incidente?

I virus non sempre hanno il DNA a doppia elica, ma talora ad elica singola, ed anzi spesso il loro genoma è costituito da RNA. Anche senza approfondire troppo questioni complesse quali per esempio la transcrittasi inversa o l’ipotesi “adaptor”, comunque potremmo semplificare così: il DNA è “la mente”, mentre l’RNA è “il braccio” della sintesi proteica. DNA, RNA e proteine contengono in realtà le stesse istruzioni, codificate in modo diverso, un po’ come se lo stesso romanzo fosse fruibile in linguaggio scritto, in Morse e in Braille. Analogamente non tutti i virus hanno l’aspetto del T4, anzi molti assomigliano di più a mine navali della II° Guerra Mondiale, come desumibile dall’immagine seguente del virus aviario,

  

o da quest’altra, riferita al virus SV40, noto per i suoi effetti oncogeni.   http://pathmicro.med.sc.edu, rielaborazione di Alessio Feltri http://people.cornellcollege.edu, rielaborazione di Alessio Feltri

La scienza si occupa con ottimi risultati di capire e copiare i meccanismi operativi del DNA e del virus, ma ben poco ci ha mai detto sulla loro origine, almeno ufficialmente. Accontentiamoci di estrapolare dal contesto alcuni concetti basilari, che ci saranno utili.


Il primo è che di norma nell’uomo i naturali nemici dei virus sono i linfociti del sistema immunitario, i quali solitamente riescono ad inibire l’azione virale appena due ore prima che sia irreversibile. Il secondo è che i cosiddetti retrovirus, come l’HIV per esempio, agiscono come mine a tempo, usando la latenza per celarsi al sistema immunitario in attesa, per così dire, di tempi migliori, in cui qualche stress psicofisico indebolisca la velocità di risposta dell’organismo.



Anche se volessimo attribuire l’attuale struttura dei virus a ricombinazioni dovute ad una millenaria entrata-uscita dagli organismi ospiti, mi pare molto difficile che i loro “comportamenti” almeno iniziali non siano effetto di un progetto ben preciso, i cui inquietanti contorni possono essere ricostruiti solo con elementari processi di intelligence.
 

FIGLI DELLE STELLE
Recentemente un giornalista scientifico, di cui non farò il nome, ha riportato delle teorie del famoso astrofisico Sir Alfred Hoyle, definendolo uno scienziato eretico. Nella mia ingenuità pensavo che l’accusa di eresia fosse confinata all’ambito religioso, ma evidentemente la nostra società ha prodotto il più politeistico dei monoteismi possibili.

Oggi chiunque si discosti da enunciazioni politicamente corrette corre concreti rischi di emarginazione, esattamente come ai tempi della Santa Inquisizione, perfino quando porti prove concrete a favore della propria tesi e questo non mi pare davvero un metodo molto efficiente per progredire…

Ma cosa lega Hoyle ai virus? Un’intuizione che, pur essendo stata confermata dalle osservazioni, è stata accuratamente occultata ai media.

Secondo Alfred Hoyle intorno alla Terra “sostano” microorganismi di origine spaziale, forse provenienti da comete, che sono anche i responsabili delle ondate epidemiche che hanno colpito l'umanità nel corso della sua storia, dalla peste ed il vaiolo nel passato all'attuale influenza. L'origine di queste epidemie non è mai stata spiegata esaurientemente. La gente, per esempio, attribuisce al freddo il diffondersi annuale dell'influenza, perché avviene d'inverno: ma nell'emisfero meridionale l'influenza arriva d'estate, col caldo. Qual è dunque la loro meccanica? A 15-50 chilometri di quota, dove i virus sostano, l'aria è immobile e comunque i meccanismi di inversione termica favoriscono le traslazioni orizzontali; ma una volta all'anno, e precisamente nel periodo che va da novembre a febbraio, esattamente come le epidemie delle malattie respiratorie, nella stratosfera si crea una potente circolazione verticale, che trasferisce immense masse d'aria dai livelli superiori a quelli al di sotto dei 12 chilometri.

Solo così, secondo lo scienziato inglese, si può ricostruire la storia, per esempio, del vaiolo, resuscitato dalle recenti minacce bioterroristiche e del cui vaccino potete vedere una fotografia. L’intreccio fibroso liner-radiale forse a qualche mio lettore non risulterà completamente nuovo. 


  www.virology.net, rielaborazione di Alessio Feltri


«Vaiolo» è un termine che risale al latino medioevale e prima di allora era assente sia dai testi classici latini che dai testi ippocratici greci. Eppure molti studiosi sono convinti che le «ulcere» citate dalla Bibbia come una delle «piaghe d'Egitto» non fossero altro che vaiolo; una malattia, dunque, che si presenta e poi scompare a ondate. Hoyle ne concluse che alla base di questo comportamento vi erano variazioni delle condizioni astronomiche. Anche alcune particolarità della diffusione della peste bubbonica, portata in Europa secondo le cronache nel Quattordicesimo secolo, sarebbero cosi spiegabili. Altrimenti, perché il morbo avrebbe colpito villaggi isolati nel cuore dell'Inghilterra, della Francia e della Spagna, e avrebbe invece risparmiato grandi città come Liegi e Norimberga e vasti tratti di costa come le regioni rivierasche di Spagna e Portogallo?


La tesi di Hoyle richiedeva una verifica e cioè che dei palloni sonda rilevassero effettivamente tracce di questa gigantesca sfera virale intorno al nostro pianeta, cosa che puntualmente avvenne (per mano sovietica) nel più assoluto silenzio degli organi ufficiali, tanto che Hoyle scelse di dimettersi dai suoi prestigiosi incarichi e darsi alla coltura delle ortensie.

 Edizione italiana di Popular Mechanics (1980), rielaborazione di Alessio Feltri

In questa rarissima immagine degli anni ’70 potete vedere un minuscolo (un centesimo di millimetro) frammento dello strato di cui sopra, riportato a terra da un pallone sonda. Nell’ingrandimento ho evidenziato uno dei soliti intrecci fibrosi radiali, quelli che definisco convenzionalmente “sinaptici”.


Le malattie sono solo un aspetto dell’enigma virus e nemmeno il più importante. Dallo studio dei virus oncogeni sappiamo che questi ultimi in alcuni casi provocano un’incontrollata proliferazione cellulare, mentre in altre circostanze si limitano ad indurre modificazioni innocue nel DNA. 

 

In altre parole il virus se non ti uccide, ti cambia. Si potrebbe essere anche tentati di considerarli un raffinato espediente per automatizzare il controllo della quantità e del comportamento della biomassa planetaria, un motore occulto dell’evoluzione. Fantascienza? Forse, ma pare che la questione sia proprio questa.

Tutta la faccenda è sempre stata coperta da rigoroso riserbo. Il cancro può sopravvenire per molti motivi, ma, dato che ognuno di noi è un portatore più o meno sano di retrovirus potenzialmente oncogeni, determinate informazioni, se diffuse ufficialmente, potrebbero causare fenomeni di allarme sociale, anche senza scomodare implicazioni teologiche o devianze ipotizzabili sull’onda del “dagli all’untore” di manzoniana memoria. Molto più prudente appellarsi a non precisate cause genetiche. Si dice la verità e contemporaneamente non si dice nulla. Esattamente come quando si dice che sulla Luna o su Marte non sono state ancora individuate forme di vita.

Forse vi sembrerà che io mi sia spinto un po’ troppo oltre, ma c’è chi ha fatto di peggio e non era una persona qualsiasi, era il massimo esperto mondiale di DNA, premio Nobel insieme a Watson per la scoperta della doppia elica, Francis Harry Compton Crick (1916-2004).
 
DATEMI UN CRICK E VI SOLLEVERO’ IL MONDO
Per comprendere meglio la genesi del pensiero di Crick è utile ripercorrere per sommi capi la sua carriera. Il primo elemento significativo è che, dopo la scoperta della doppia elica del 1953 ed il Nobel conquistato a 46 anni insieme a Watson e Wilkins, Crick iniziò a studiare approfonditamente i virus. Ora, se il maggior esperto mondiale di DNA ha pensato che i virus rappresentassero un passaggio obbligato per la comprensione del meccanismo genetico, perché mai non dovremmo essere d’accordo con lui?

Le conclusioni di Crick apparvero nella seconda metà degli anni ’70 e furono talmente rivoluzionarie da creargli un’opposizione micidiale da parte dell’establishment scientifico. Gli unici a condividerne i principi fondamentali furono proprio Hoyle ed imprevedibilmente Carl Sagan, cioè colui che da molti si ritiene essere stato il principale artefice ideologico del cover-up sui risultati conseguiti nell’esplorazione spaziale. Crick non si limitò a confermare il ruolo giocato dai virus nel “controllare” le forme di vita terrestri, ma si spinse fino ad attribuire loro la responsabilità diretta dell’esistenza di organismi evoluti sul nostro pianeta.

L'ipotesi della direst panspermia, la «panspermia guidata», fu discussa la prima volta nel corso della Conferenza Internazionale sull'Intelligenza Extraterrestre che ebbe luogo presso l'Osservatorio Astrofisico di Gyurakam nella città di Yeravan (Armenia) nel settembre 1971, i cui atti furono raccolti da Carl Sagan nel volume Communications with Extraterrestrial Intelligence. Crick riprese poi l'argomento in un saggio scritto insieme a Leslie Orgel e pubblicato nel 1973 su Icarus, una rivista di scienze planetarie. Un ampliamento delle sue tesi si ebbe infine con l'articolo Selfish DNA: the Ultimate Parasite pubblicato su Nature dell'aprile 1980.

In questo intervento Crick partì da alcune sue conclusioni raggiunte dopo quasi trent'anni di studi sulla molecola dell'acido desossiribonucleico e le utilizzò per avallare la tesi della «panspermia guidata». Ormai si era raggiunta la certezza che non tutti i geni contenuti nei cromosomi di cui è composta la doppia elica del DNA contenevano la codificazione necessaria per le proteine, cioè per la formazione del corpo. Nel caso dell'organismo umano, soltanto l'1,7% del DNA serve a dare gli schemi costitutivi delle proteine: il resto del DNA contiene la replica per milioni di volte delle stesse unità genetiche.

Perché vi sono e che scopo hanno tanti doppioni? Secondo Francis Crick la risposta è che, come dice il titolo del suo articolo su Nature, il DNA è “egoista”, anzi è “il parassita definitivo”. Questo in quanto, a suo giudizio, non sono né gli individui singoli né le specie nel loro complesso i soggetti dell'evoluzione, ma quei complessi molecolari che sono stati definiti geni, i quali contengono le informazioni genetiche. Di conseguenza gli organismi viventi alla fine debbono essere considerati nient'altro che dei semplici e temporanei contenitori di questi geni egoisti. Il DNA si può quindi paradossalmente definire un parassita.

Al suo interno i geni hanno moltiplicato se stessi oltre il necessario, creando repliche su repliche come si è detto prima, allo scopo di rendere sicura la sopravvivenza dei loro “contenitori”. Essi, afferma Crick, «hanno trovato il modo di produrre una maggiore quantità di se stessi, prima ancora che la propria discendenza».

La conseguenza è logica. L'evoluzione che si può riscontrare sia a livello individuale che di specie è l'effetto esteriore dell'evoluzione “personale” della molecola di DNA, la quale si comporta come fosse un “parassita intelligente”, non nemico dell'organismo ospite, ma al contrario capace di fornirgli la spinta necessaria a progredire.

Penso che non sia sfuggito al lettore il fatto che definire il DNA un “parassita” sia un modo indiretto per assegnarne l’origine proprio all’operato dei virus, cioè le perfide macchinette parcheggiate in quell’area della stratosfera terrestre di cui parlava Hoyle. Ma come avrebbero agito per ottenere il loro scopo?

C'è un punto in comune nel ragionamento scientifico che sta alla base delle tesi di Hoyle e Crick, ed è questo: entrambi gli scienziati hanno considerato improponibile il periodo di tre miliardi di anni che comunemente si indica come data di inizio della vita sul nostro pianeta.

Per passare darwinianamente dal meno complesso al più complesso, dall'ameba all'uomo come si suol dire anche sui testi scolastici, tre miliardi di anni sono troppo pochi, così come lo sono anche i quattro e mezzo con i quali si indica l'età della Terra.

Crick concordava con Hoyle sulla panspermia, ma ne ipotizzava una versione “guidata”, non dispersa indiscriminatamente nell'etere secondo una conseguenza della teoria dell'”universo stazionario”, ma sviluppatasi su un unico pianeta da cui erano partite sonde interplanetarie che l'avevano volutamente diffusa attraverso la galassia sotto forma di virus, spore e batteri.

Negli ultimi 25 anni, pur tra mille reticenze, nuovi mattoni hanno in parte modificato l’edificio di Crick. In particolare si è ipotizzato che l’intervento dei virus si sia concretizzato 570 milioni di anni fa, quando, dopo due miliardi e mezzo di forme di vita estremamente primitive, si era verificata sul nostro pianeta una vera e propria esplosione di forme di vita complesse. I virus in sostanza sarebbero intervenuti su un substrato biologico preesistente, stimolandone l’evoluzione.

Di fatto comunque l’intuizione di Crick venne un po’ offuscata dal suo saltare alle conclusioni. Crick, come Hoyle del resto, non era un creazionista, ma questo attribuire la vita sul nostro pianeta ad un’ipotetica cultura extraterrestre, che aveva cercato la salvezza da qualche disastro propagando il suo patrimonio genetico nello spazio, assomigliava più alla vita di Superman che ad una teoria seria. Quello che però possiamo considerare scontato è l’effettivo rapporto tra i virus ed il DNA.

Personalmente opterei per un’altra spiegazione delle innumerevoli copie di unità genetiche apparentemente uguali. In natura non esistono casi di ridondanza inutile. In caso di danneggiamento le unità biologiche normalmente dispongono di un software che tenta di effettuare le riparazioni necessarie (cellule staminali e simili), per cui se il DNA fosse un parassita intelligente non dovrebbe far altro, per proteggersi, che dotarsi delle istruzioni necessarie, come nel caso dell’amputazione della coda nelle lucertole.

All’inizio degli anni ’80 Colin Blakemore aveva fatto notare che per dare un senso all’evoluzione era necessario individuare una localizzazione per la memorizzazione delle esperienze accumulate da ogni forma di vita e, dato che il DNA era l’unico luogo “stabile” dove tali esperienze potessero essere memorizzate, era proprio al suo interno che andavano cercate. La verifica sperimentale si è avuta nelle ultime settimane, con l’individuazione dei meccanismi di sintesi proteica relativi alla formazione di ogni singolo ricordo. In base a queste premesse la mia ipotesi è quindi che le aree inspiegate del nostro DNA siano in parte deputate alla memorizzazione delle nostre esperienze sotto forma di meccanismi di sintesi e trasmesse alla prole al momento del concepimento. Nel nostro DNA sarebbero quindi presenti codificati tutti i ricordi accumulati dai nostri predecessori genetici ed ogni nostro contributo all’evoluzione della specie sarebbe codificato e memorizzato come la sintesi proteica necessaria per “formare” un ricordo imprevisto o impensato. Del resto dai movimenti oculari dell’embrione durante le fasi di sonno REM sappiamo che sogna: e cosa mai potrebbe sognare se non quanto immagazzinato nella propria memoria genetica?  
Non è un caso che sia stata verificato sperimentalmente che l’interazione ambientale del neonato subito dopo la nascita è enormemente superiore a quella che ha dopo una settimana di vita…

A molti non sfuggiranno le analogie con l’innatismo di Platone, in base al quale tutto ciò che ci può succedere è già dentro di noi, ma chi ci dice che Platone avesse torto?

Quando (e se) i fatti daranno ragione alla mia “estensione” della teoria di Blakemore, io sarò morto da un pezzo, ma mi consolo pensando che in quella eventualità anche il concetto di “morte” avrà dovuto subire una revisione alquanto radicale.




ALESSIO FELTRI


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