Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia”
e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai.
Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più
foschi della sua storia
(nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di
fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu
promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato,
scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso –
si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci
fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto,
ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”.
Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio
che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni
conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono
generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra
civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre
l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti,
elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto,
da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché
non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial,
che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe
come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini
fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori
della nuova Repubblica.
Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra”
che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato
dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica
dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania,
avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei
genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah
sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni
storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più
tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.
Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla
Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette
contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra
contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare
un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin
e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata
insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione
impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di
piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole,
nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone
e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della
Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le
banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea
di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro
parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e
lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i
temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per
primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico
fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).
La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti
insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto
torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna
verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante:
venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler
usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da
D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero
eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la
commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla
parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un
provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu
inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna
cicuta, l’isotopo Polonio 210.
La legge
di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per
fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma
questa è un’altra storia.
E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi
e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è
possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e
modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a
causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica.
Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più
di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche
recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono
granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata
costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari
dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di
urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti
patrioti italiani.
Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra,
compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il
momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo,
antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in
ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri,
che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio.
Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato
uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della
Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un
democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista
continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani,
come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti
“da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui
«mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?
Si può davvero scrivere la storia
con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può
capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il
cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano
l’opportunità di modificare il corso della storia
come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di
pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il
ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi
da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del
centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al
2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli
storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e
organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il
“politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi
con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a
baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’
come la Procura di Milano punta a Berlusconi.
Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la
tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America,
dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu
fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si
servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che
praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i
bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati
africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo
schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il
libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.
Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna
Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi
per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del
grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento
italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi
vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato
sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza
che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia
che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando
Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore
Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est.
L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo
scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di
rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di
Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.
E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non
hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che
non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano
un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi
mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con
Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli
americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti
a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte
geneticamente mafioso? I conti con la storia
non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se
vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini
futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.
(Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).
http://www.libreidee.org/2014/01/la-grande-truffa-della-storia-scritta-dai-vincitori/
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