Cinque anni di studio da un gruppo di ricerca giapponese
potrebbe cambiare la visione accettata dell’antica civiltà della valle
dell’Indo.
Secondo l’archeologia tradizionale ciò che viene definita civiltà
ebbe inizio in Mesopotamia ed in Egitto, circa 5000 anni fa in
concomitanza con l’avvento della scrittura. Scrittura che corrisponde
anche al passaggio dalla preistoria alla storia.
Nell’interpretazione storiografica ufficiale, studiata sui libri di
scuola e o attraverso documentari e pubblicazioni prima di questa
importante scoperta, l’uomo fu in grado solo di organizzarsi in un
insieme disordinato di tribù o piccoli villaggi neolitici dedicandosi
prevalentemente a caccia e raccolta. L’agricoltura era sconosciuta, la
scrittura era molto al di là da venire e la vita nel villaggio era
estremamente semplice e si ripeteva uguale e costante da decine e decine
di migliaia di anni, immutabile. Immutabile come quel gelido clima che
caratterizzava le latitudini nord del pianeta durante l’ultimo periodo
glaciale.
Durante l’ultima glaciazione, detta del Wurm, che iniziò 75000 anni
fa e conobbe il suo acme intorno a 20000 anni fa, l’Europa era
ricoperta da una coltre di ghiacci spessa 2000-3000 metri che dal polo
Nord scendeva fino alla latitudine di Londra. I ghiacciai rappresentano
una riserva di acqua dolce «fissata» in forma solida, che pertanto viene
sottratta al normale ciclo che lega i mari all’atmosfera e ai
continenti attraverso i processi di evaporazione e di precipitazione. Di
conseguenza durante le glaciazioni i mari regrediscono, mentre il
contrario avviene nei periodi postglaciali. Al culmine dell’ultima
glaciazione l’abbassamento marino arrivò fino a 100 metri, tant’è che 20
000 anni fa laddove oggi troviamo lo stretto di Bering una continuità
di terre collegava l’America settentrionale all’ Asia.
In Italia la pianura padana si estendeva per tutta la parte
settentrionale dell’ Adriatico. Le terre di Doggerland sostituivano il
Mare del Nord, kilometri e kilometri quadrate di terre oggi sommerse
dalle acque del mare erano a disposizione delle popolazioni umane del
tempo, tra cui il mare prospiciente l’isola di Bimini, quella Yonaguni,
del golfo di Khambat… e il Mar Nero era ai tempi un grande lago
circondato da una enorme fertile depressione.
Durante questo lungo periodo di tempo che abbraccia un intervallo
che va dai 75-100000 ai 12000 anni fa l’uomo inizia come nomade
cacciatore/raccoglitore e finisce… ancora come nomade
cacciatore/raccoglitore con uno sviluppo tecnologico e socio-culturale
pressoché infinitesimale limitato a una migliore lavorazione della
pietra di selce o di rudimentali armi per cacciare.
Poi, appunto, 12000 anni fa l’ultima glaciazione finisce, sembra
anche in maniera abbastanza repentina, il clima mondiale cambia e
l’uomo, che per centomila anni ha passato il suo tempo cacciando e
raccogliendo ciò che la natura aveva da offrire, scopre nel giro di
pochi millenni, allevamento, agricoltura, scrittura, astronomia,
matematica, metallurgia, cultura, gerarchia, politica e costruisce la
prime città-stato conosciute dalla storia, in Mesopotamia, nella Valle
dell’Indo e in Cina.
Come in molte altre teorie scientifiche che cercano di gettare luce
sui misteri antichi dell’archeologia o dell’antropologia, osserverete
anche voi che rimangono anche qui diversi dubbi e zone d’ombra. Come è
possibile in primo luogo che quegli stessi uomini che hanno trascorso
gli ultimi centomila anni a cacciare mandrie di animali selvatici o
raccogliere frutta e bacche qua e là, giungano a raggiungere un livello
tecnologico e socio-culturale tale da consentire loro la costruzione di
città e di edifici che nulla hanno a che invidiare alle più moderna
architettura e che anzi, in taluni casi risulterebbero impossibili anche
con la nostra tecnologia.
Queste zone d’ombra sono state colmate negli ultimi anni, da altre
teorie le quali considerano l’ipotesi che la nascita delle civiltà sulla
Terra sia molto più antica di quanto storicamente riconosciuto.
Yuri Leveratto nel suo articolo ci ricorda che “… i sostenitori di
queste teorie pensano che prima dell’evento chiamato oggi “diluvio
universale”, quasi universalmente riconosciuto come un periodo di
sconvolgimenti e catastrofi di portata eccezionale, che ebbero luogo dal
12.000 al 9000 a.C., e che coincisero con la fine della glaciazione di
Wisconsin-Wurm, si fossero sviluppate delle civiltà anti-diluviane, in
varie zone del pianeta. Queste civiltà, che forse erano in contatto tra
loro per via marittima, avrebbero conosciuto l’agricoltura e avrebbero
raggiunto importanti risultati nell’astronomia e nella matematica.
Alle basi della teoria delle civiltà anti-diluviane vi sono fonti
scritte e ritrovamenti archeologici. Le fonti scritte sono tante, ma
le più conosciute sono la “lista dei re sumeri”, la Bibbia (Genesi), i
manoscritti del Mar Morto, e la Storia di Babilonia di Berosso. Tutte
queste fonti narrano di re leggendari che governarono durante tempi
lunghissimi. Il primo di questi re dovrebbe essere stato Alulim, re di
Eridu. Secondo Berosso governò a partire da 432.000 anni prima del suo
tempo…”
Il che ci riporta direttamente ai tempi degli Anunnaki portati
all’attenzione del grande pubblico grazie al lavoro di traduzione delle
antiche tavolette sumere svolto da Zacharia Sitchin e dal Kramer. Ai
tempi di Enki e di Enlil, al tempo in cui i primi homo sapiens compaiono
sulla scena del pianeta, circa 300mila anni fa, ai tempi dei biblici
Adamo ed Eva e dei loro figli Abele e Caino e la prima discendenza dei
cosiddetti “uomini famosi”.
Yuri Leveratto di nuovo ci ricorda che “… vi sono poi altre fonti,
come per esempio il papiro di Torino o la pietra di Palermo, dalle quali
si evince che non solo nell’area mesopotamica, ma anche lungo la valle
del Nilo, governarono numerosi re in tempi anti-diluviani.
Naturalmente gli storici tradizionali hanno negato la veridicità e l’accuratezza di questi testi, confinandoli nella leggenda.
Siccome durante il lunghissimo periodo glaciale (da 110 a 11
millenni or sono), il livello dei mari era più basso rispetto
all’attuale fino a 160 metri (secondo alcuni climatologi fino a 200
metri), è possibile ipotizzare che probabili civiltà anti-diluviane si
siano sviluppate in luoghi costieri che oggi sono completamente sommersi
dalle acque marine.
Esistono delle evidenze, o resti archeologici di civiltà scomparse
sotto i mari. Le più importanti sono: i muri di Bimini, le città
sommerse di Canopus e Herakleion nella costa egiziana di Aboukir, i
ritrovamenti archeologici nei fondali antistanti la città di Alessandria
d’Egitto, le evidenze archeologiche trovate nelle coste indiane
prospicenti Khambat e Bet Dwarka, e il monolito di Yonaguni, enigmatico
monumento sommerso scoperto nel 1987 dal subaqueo Kihachiro Aratake.
Il monumento di Yonaguni si trova poco lontano dalle coste
dell’isola di Yonaguni, facente parte delle isole Ryukyu, appartenenti
al Giappone, ma relativamente vicine all’isola di Taiwan.
E’ un parallelepido di roccia lungo circa 150 metri e largo 40
metri. La sua altezza rispetto al fondale è di circa 27 metri. La cima
del monumento si trova a 5 metri al di sotto del livello del mare. I
ricercatori che hanno studiato il monumento, in particolare lo studioso
giapponese Masaaki Kimura, sostengono che l’immensa roccia sommersa sia
stata modificata dall’uomo in tempi remotissimi, per motivi cerimoniali.
In effetti si notano blocchi squadrati, rampe, scalinate, spazi
destinati ad offerte votive e altre strane formazioni litiche, come la
cosidetta “tartaruga”, “la piscina triangolare”, un muro divisorio di
circa 10 metri di lunghezza, il “totem”, una colonna alta circa 7 metri.
Secondo Masaaki Kimura, coloro che modificarono il monolito di
Yonaguni, rendendolo molto simile a uno ziggurat mesopotamico, devono
averlo fatto prima della fine dell’era glaciale, quando il livello dei
mari era molto più basso rispetto ad oggi. Sempre secondo Kimura, gli
artefici dell’opera potrebbero essere stati i cosidetti “uomini di
Minatogawa” dei quali sono stati trovati dei resti nell’isola di
Yonaguni risalenti a 18.000 anni fa (da notare che i più antichi resti
umani delle isole Ryukyu furono trovati ad Okinawa e risalgono a 32.000
anni or sono).
Anche se il monolito di Yonaguni rimane per molti scettici
solamente una formazione naturale, non c’è dubbio che le sue forme
squadrate e regolari facciano pensare per lo meno ad un’enorme roccia
modificata dall’uomo per motivi cerimoniali, come per esempio lo è
Quenco, l’altare cerimoniale situato non lontano da Sacsayhuaman, presso
Cusco, in Perú.
Solo ulteriori studi e scavi nelle vicinanze del monolito di
Yonaguni potranno fare luce sulla sua vera natura, fino ad ora infatti
non sono stati trovati resti di carbon fossile, ceramica o altri residui
di occupazione umana, che possano essere sottoposti alla prova del
carbonio 14, come invece accadde a Khambat, in India.
Nella descrizione del Diluvio, sia quello biblico che quello delle
altre culture, la violenza e repentinità dell’inondazione furono la
causa della morte della maggior parte degli esseri viventi. Si può
dedurre che lo scioglimento dei ghiacci che avvinghiavano l’emisfero
boreale 10000 anni fa si siano sciolti in breve tempo a causa di un
evento apocalittico che innalzò le temperature di molti gradi nel
circolo polare artico…”
Miliardi di miliardi di metri cubi di acqua si riversarono negli
oceani creando onde anomale immense che fecero il giro del mondo
spazzando via qualsiasi cosa e riversando miliardi di kilometri cubici
di acqua nella vallata del Mar Nero sulle cui sponde vivevano certamente
comunità umane ‘preistoriche’ (o presunti tali).
E’ abbastanza logico ritenere che sulle sponde di un lago d’acqua
dolce così vasto siano fiorite diverse comunità protostoriche. Ma,
appunto a un certo punto, sarebbe ceduta la diga naturale in
corrispondenza dell’attuale Bosforo, che isolava il Mar Nero dal Mar
Mediterraneo salato: un’immensa cascata si sarebbe riversata nel lago,
il cui livello si sarebbe sollevato con estrema rapidità, sommergendo
tutti gli abitati umani.
Le ricerche di Walter Pitman, geofisico del Lamont-Doherty Earth
Observatory a Pasadena, confermano l’evento di una inondazione dell’area
del Mar Nero come evento storico.
Solitamente quando ci riferiamo alle vicende bibliche della Genesi,
le immaginiamo verificarsi in quella stessa area geografica tra la
Palestina e le valli del Tigri e dell’Eufrate, ovvero dove poi si
mossero le storie di Abramo, di Isacco, Giacobbe, e degli altri
protagonisti della storia degli Ebrei. In realtà non vi sono elementi
nel testo biblico originale che lascino intendere che quanto raccontato
relativamente alle storie dei patriarchi, da Adamo a Noè, sia avvenuto
davvero nell’antica mesopotamia, terra di Sumer.
Ma se invece lo scenario corretto ove collocare le storie dei
patriarchi biblici fino a Noè fosse proprio la regione circostante il
Mar Nero? Ciò spiegherebbe l’approdo dell’”Arca di Noè”, qualsiasi cosa
fosse, sulle pendici del monte Ararat e i ritrovamenti archeologici
‘fuori dal tempo’ delle città di Gobekli Tepe e Kisiltepe.
E’ possibile forse che l’uomo durante l’ultima Glaciazione non
fosse una bestia stupida, nè scarsamente evoluta tecnologicamente.
L’uomo antidiluviano possedeva invece tecnologie e strutture sociali
avanzatissime ed aveva eretto imperi nelle fasce tropicali ed
equatoriali del pianeta dove il clima rendeva prospera e fertile Terra.
In Egitto, in Indonesia, in India ed in America Centrale (e forse anche
in qualche continente, adesso, sommerso) grandi nazioni vivevano un
epoca d’oro.
Molte di queste civiltà dell’epoca avevano fondato città immense
dove adesso ci sono mari ed oceani. La civiltà della Valle dell’Indo è
un esempio lampante. Con il diluvio il genere umano perse tutta la
tecnologia e le conoscenze accumulate fino a quel momento, per vivere,
nei seguenti millenni, un oscuro e lunghissimo neolitico.
Un sito archeologico al largo delle coste occidentali dell’India
indica che la civiltà indiana potrebbe risalire ad addirittura 9000 anni
fa, diventando di diritto una delle più antiche del mondo.
Quasi cinquemila anni fa, la Civiltà della Valle dell’Indo viveva
il suo massimo splendore. Estesa su una superficie di oltre un milione
di chilometri quadrati nei territori che oggi appartengono al Pakistan,
all’India nord-occidentale e all’Afghanistan orientale, fu una delle
prime e più importanti culture urbane dell’antichità.
Gli scavi iniziati a partire dagli anni Venti del Novecento
portarono alla luce migliaia di reperti di rotte commerciali, edifici,
manufatti e un sistema di scrittura ancora da decifrare. Poi, tra i 3900
e i 3000 anni fa iniziò il suo declino, per motivi tutt’altro che
chiari.
Si pensa che il progressivo diminuire delle piogge frenò lo
straripamento dei fiumi. Alla lunga, la poca acqua rese impossibile
coltivare la terra e spinse la popolazione a spostarsi altrove.
è questo lo scenario ricostruito da un gruppo di ricerca coordinato
da Liviu Giosan della Woods Hole Oceanographic Institution, negli Usa,
in uno studio pubblicato su Pnas.
“Abbiamo ritenuto fosse finalmente ora
di contribuire al dibattito sulla misteriosa fine di questo popolo”,
afferma Giosan.
La sua équipe ha lavorato in Pakistan dal 2003 al 2008 mettendo
assieme dati archeologici e geologici. Per prima cosa, i ricercatori
hanno elaborato mappe digitali del territorio utilizzando foto
satellitari e dati topografici collezionati dalla Shuttle Radar
Topography Mission, la missione congiunta NASA-NGA (National
Geospatial-Intelligence Agency) che ha permesso di mappare in tre
dimensioni la superficie del globo terrestre con un livello di dettaglio
mai raggiunto prima.
Poi sono passati alla raccolta e all’analisi di campioni del
terreno per risalire all’origine dei sedimenti e per capire come furono
modificati nel tempo dall’azione di fiumi e vento. Combinando queste
informazioni con i dati archeologici, hanno infine ricostruito lo
scenario che vide l’ascesa, e il declino, della civiltà.
Il destino della popolazione di Harappa, dal nome del primo
insediamento scoperto nel 1857, fu affidato ai monsoni. All’inizio, le
piogge abbondanti alimentavano l’Indo e gli altri fiumi provenienti
dall’Himalaya provocando inondazioni che lasciavano le pianure
circostanti molto fertili.
Poi i monsoni iniziarono a diminuire, i fiumi smisero di straripare
e la popolazione fu libera di costruire i suoi insediamenti lungo i
corsi d’acqua, dove la fertilità del terreno rese fiorente
l’agricoltura. Alla fine però, la scarsità di precipitazioni diede il
colpo di grazia alle pratiche agricole e costrinse la popolazione a
spostarsi verso est nella piana del Gange, dove le piogge continuavano.
Ma ciò cambiò radicalmente la cultura: le grandi città lasciarono
il posto a piccole comunità agricole, segnando la fine della civiltà
urbana della Valle dell’Indo.
Oltre a questo mistero, i ricercatori statunitensi credono di aver
risolto anche quello del mitico Sarasvati, uno dei sette fiumi che,
secondo gli antichi testi indiani Veda, attraversava la regione a ovest
del Gange e veniva alimentato dai ghiacciai perenni dell’Himalaya.
Oggi si pensa che il Sarasvati corrisponda al Ghaggar, un fiume
intermittente che scorre solo nella stagione monsonica per poi
dissiparsi nel deserto lungo la valle di Hakra. Se ciò fosse vero, i
dati geologici non confermerebbero l’origine himalayana del Sarasvati.
Sembra invece che il fiume sia stato sempre alimentato dai monsoni e
che la desertificazione lo abbia infine ridotto a un corso d’acqua
stagionale.
Questa scoperta è il risultato di circa otto mesi di ripresa di
immagini sonar del fondo marino, dove sono state osservate strutture che
somigliano a quelle costruite dall’antica civiltà Harappa.
Anche se sono stati individuati alcuni siti paleolitici risalenti a
circa 20 mila anni fa nello stato indiano di Gujarata, si tratta della
prima scoperta di strutture tanto antiche sotto la superficie del mare.
La zona della scoperta, il golfo di Cambay, è stata oggetto di grande
interesse da parte degli archeologi, per la sua vicinanza a un altro
sito sottomarino, Dwarka, nel vicino golfo di Kutch.
Gli studi del nuovo sito sono però stati resi difficili dalla
presenza di forti correnti di marea, con velocità fino a tre metri al
secondo. Proprio per l’impossibilità di compiere vere e proprie
immersioni, gli archeologi del National Institute of Ocean Technology
indiano sono ricorsi alle immagini sonar.
Le immagini non mostrano solo le simmetriche strutture attribuite
all’uomo, ma anche il letto di un antico fiume, sulle cui sponde fiorì
la civiltà. La datazione del sito è stata fatta recuperando un frammento
di legno da una delle strutture, che è risultata risalire all’anno 7600
avanti Cristo.
Città come quelle sopraccitate a cui voglio aggiungere la
misteriosa città di Caral in Sudamerica, insieme ai ritrovamenti di
manufatti umani se non addirittura veri e propri edifici sottomarini,
testimoniano l’esistenza di una civiltà prima della storia. è difficile
dire quali siano state le prime città del mondo. La distinzione fra
città e grandi villaggi spesso è sottile.
Çatalhöyük (in Turchia), per esempio, è stata considerata la prima
città dell’umanità: venne abitata a partire da 7500 a.C. (quindi solo
duemila anni circa dopo la fine della glaciazione di wurm) e aveva un
popolazione considerevole, fra i 5000 e i 10000 abitanti anche se il
prof. Douglas Baird dice che “la maggior parte degli archeologi ora lo
vede più come un grande villaggio. Il mio lavoro d’indagine intorno al
sito suggerisce che questo non potrebbe aver agito come un centro
politico o di scambio per dei circostanti villaggi contemporanei dato
che non ce ne sono nelle vicinanze”.
Altri grandi insediamenti del 5500 a.C. e del 2750 a.C. sono stati
trovati in Romania e Ucraina, ma anche questi sarebbero più delle
proto-città senza peculiari caratteristiche di urbanizzazione. Altri
siti antichi, invece, hanno sperimentato l’urbanizzazione solo millenni
dopo: Gerico, per esempio, venne abitata a partire dal 9000 a.C.
(praticamente subito dopo la fine del Wurm), anche se le mura vennero
costruite successivamente.
Possibile che l’uomo post-diluviano sia stato in grado in così poco
tempo città così ben strutturate? E se invece avessero per così dire
‘riciclato’ edifici e città pre-diluviane già esistenti prima di Noè?
D’altronde è pur vero che esistono prove concrete, anche se
bistrattate dall’archeologia ufficiale, dell’esistenza di edifici già
prima dell’avvento della civiltà umana storicamente riconosciuta. La più
nota è forse la “Stele dell’Inventario”. Verso la fine del XIX secolo,
l’egittologo Auguste Mariette, scavando nei pressi della Grande Piramide
in un tempietto detto la “Casa di Iside”, ha trovato una stele che
venne indicata appunto come la Stele dell’Inventario.
La traduzione di quel documento riservò una sorpresa perché nella
stele Iside veniva indicata come “la Signora della Piramide” e vi si
affermava che al tempo di Cheope, una piramide, la Sfinge, il Tempio a
valle della Seconda piramide ed altre strutture erano già presenti sulla
piana di Giza.
Per determinare di quanto fossero già presenti ai tempi di Cheope ci viene in aiuto la geologia.
Il geologo Robert Schoch notò un’evidenza sperimentale che è sempre
stata sotto gli occhi di tutti: il corpo della Sfinge e l’adiacente
Tempio della valle di Chefren sono stati erosi dalla pioggia.
La famosa statua metà uomo metà leone fu scolpita approfondendo una
cava nell’altopiano di Giza, che è una stratificazione sedimentaria di
diversi calcari. Tutti gli edifici in pietra della civiltà egizia
presentano i consueti segni dell’erosione eolica: la sabbia portata dal
vento incide più profondamente le rocce più tenere, in modo uniforme.
Il risultato è uno schema orizzontale: ad esempio un fronte di
roccia stratificato diventa una successione di sporgenze (roccia
compatta) e incavi (roccia tenera).
I fianchi e le pareti della fossa della Sfinge sono gli unici
monumenti egizi che presentano anche un modello di erosione verticale,
con forme arrotondate e profondamente incise (fino a 2 m), tipico
dell’azione continua di intense precipitazioni che si rovesciano a
cascata giù per i fianchi.
Le osservazioni di West destano scalpore perché degli ultimi 4500
anni la Sfinge ne ha trascorsi 3000 sepolta sotto la sabbia, quindi
protetta dagli agenti atmosferici usuali in un clima desertico. Invece
per trovare delle piogge di intensità tale da giustificare il forte
degrado del corpo, bisogna risalire al periodo pluviale che caratterizzò
il Nord Africa tra il 7000 a.C. e l’11000 a.C., al termine dell’ultima
glaciazione.
Senza contare quanto riportato nella Pietra di Palermo scolpita su
diorite (che ci riporta direttamente a Puma Punku), sulla Lista di
Abydos, o ancora nel Papiro Regio di Torino, un documento su papiro
risalente almeno alla XVII dinastia egizia o, forse, al regno di Ramesse
II (1290 a.C. – 1224 a.C.), scritto in ieratico, che riporta, oltre
all’elenco dei sovrani dall’unificazione dell’Alto e Basso Egitto fino
al momento della compilazione, insieme al numero dei loro anni di regno
una introduzione sui re semidivini del Periodo Predinastico dell’Egitto
che inizia con Ptah e che prosegue con Horo (Horus) in modo molto simile
allo schema presentato nella lista di sovrani sumeri vista in
precedenza.
Re semidivini che regnarono in Egitto in un tempo remoto, oserei
dire prediluviano.
Mitologici re che regnarono prima che la storia
dell’uomo avesse inizio. E su cosa regnavano se non esistevano città né
un minimo di società culturalmente sviluppate? Possibile che venissero
ricordati come semidei dei re o faraoni che regnarono su sparuti gruppi
tribali neolitici dell’età della pietra durante la nostra preistoria?
Inoltre, se ci atteniamo alle parole della Bibbia in Genesi 4
leggiamo la nota storia di Abele e Caino, i primi due figli di Adamo ed
Eva. Abele, pastore di greggi e Caino, agricoltore, che offrono a Dio i
frutti delle loro fatiche il quale dio apprezzava con gradimento
maggiore quelli di Abele e meno quelli di Caino.
Probabilmente Dio non era vegetariano… Ma al di là di quanto questo
episodio dimostri ancora una volta la non trascendenza del dio biblico,
sempre più palesemente un essere carnale, materiale, con vizi e virtù
del tutto umani, torniamo alla storia di Caino e Abele.
Caino, il maggiore, non potendo riversare su Dio la sua
irritazione, se la prese con il fratello e lo uccise, ma Dio lo preservò
dalla vendetta degli altri uomini e Caino divenne costruttore di una
città nella terra di Nod, città che chiamò con il nome del figlio, Enoc,
da non confondersi con l’antenato di Noè.
E siccome Caino visse molto, ma molto tempo prima del Diluvio
Universale questa città non è nient’altro che una delle città
prediluviane di cui le leggende parlano quando si approcciano alle
civiltà perdute governate da quegli Anunnaki, da quegli Elohim di cui i
miti di tutti i popoli del mondo, di qua e di là dell’Atlantico parlano
quando ricordano la meravigliosa Età dell’Oro.
Città, che nel caso di Caino, ardite teorie ritengono possa essere
Tenochtitlan, uno dei più antichi stanziamenti nel centro america, che
alcuni traducono proprio come ‘città di Enoch’ (T = genitivo + Enoch +
tlan = città).
Personalmente ritengo più valida e affascinante l’idea presentata
nell’estratto del seguente articolo intitolato “L’Eden riscoperto:
geografia, questioni numeriche ed altre storie” di Emilio Spedicato, ove
si ricorda che “… Genesi afferma che dopo l’uccisione di Abele, Caino
dovette migrare verso la terra di Nod, ad est dell’Eden.
Sul suo corpo aveva un segno speciale, che fu presumibilmente
trasmesso ai discendenti, i quali, nei tempi prima del diluvio,
svilupparono per primi la costruzione di città, la metallurgia, e
l’agricoltura.
La terra di Nod è interpretata nei testi talmudici come “la terra
di vagabondaggio, di nomadismo”. Ora, ad est dell’Eden, o più
precisamente a nord-est, abbiamo gli immensi pascoli dell’altopiano
tibetano, della Mongolia e del Xinjang. E’ quindi una interessante
supposizione che Caino sia entrato nel bacino del Tarim e che i suoi
discendenti si spargessero attorno a questa vasta area. La maggior parte
di loro diventarono allevatori di pecore, addomesticando yaks e cavalli
e cammelli oltre alle pecore, altri praticarono l’agricultura,
avvantaggiandosi della presenza molto probabile di un grande lago dolce
nel Takla Makan e nella depressione del Lob Nor, la cui esistenza,
abbiamo prima accennato, è stata scoperta assai di recente. Il fatto che
questo lago fosse soggetto ad un processo di evaporazione, quindi ad
una diminuzione della sua superficie, molto probabilmente si rivelò uno
stimolo all’innovazione tecnologica, portando a quella civiltà avanzata
di cui parla la Bibbia, le cui tracce cominciano solo ora ad apparire in
quel deserto tuttora sostanzialmente inesplorato.
Se possiamo considerare i mongoli i più vicini discendenti di
Caino, allora forse il “segno” dato a Caino può essere identificato con
la cosiddetta macchia mongolica con la quale molti dei mongoli nascono.
E’ una macchia blu collocata sulla schiena, di solito alla base della
colonna vertebrale, e che scompare dopo pochi mesi ma che Gengis Khan la
ebbe sulla mano e la portò per tutta la vita.
Fonti:
Di Paolo Brega
Fonte:http://www.progettoatlanticus.net/2013/12/le-citta-degli-elohim.html
Condiviso da: http://risvegliodiunadea.altervista.org/?p=7562
http://pianetablunews.wordpress.com/2013/12/31/le-citta-degli-elohim-i-ricercatori-giapponesi-stano-svelando-il-mistero-della-civilta-dellindo/
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