Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente
dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo
con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si
sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen.
Quando parla all’Onu o nei
congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che
ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla
sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando,
divorando il futuro
delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano
stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile.
Stili di vita
che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un
solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di
una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato
non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono
l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma
puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro
discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante,
il tutto con toni dimessi, senza astio.
Ha detto nei suoi discorsi più famosi, primo fra tutti quello davanti
alla platea dell’Onu: «Si parla di sviluppo sostenibile, ma che cosa ci
frulla in testa? Il modello
di sviluppo e di consumo è quello attuale delle società ricche? Di
nuovo mi sono chiesto cosa succederebbe a questo pianeta se gli indiani
avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi.
Quanto ossigeno ci resterebbe da respirare? Il mondo ha forse oggi
risorse sufficienti per far sì che 7-8 miliardi di persone possano avere
lo stesso livello di consumo e spreco che hanno le più opulente società
occidentali?
O dovremo forse fare un altro tipo di ragionamento?
Abbiamo creato una civiltà figlia del mercato, della concorrenza che ha
portato a un progresso materiale esplosivo. Siamo in una società di
mercato e questo ci ha portato alla globalizzazione cui assistiamo. Ma
noi stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione a
governarci? E’ possibile parlare di solidarietà in una società basata
sulla concorrenza spietata? Fin dove arriva la nostra fratellanza?».
«La sfida che abbiamo davanti è grandissima, colossale, e la grande crisi non è ecologica, è politica.
L’essere umano non governa oggi; sono le forze che l’uomo ha scatenato a
governarlo. Non veniamo al mondo per svilupparci in termini generali;
veniamo al mondo per cercare di essere felici, perché la vita è breve e
ci sfugge. E nessun bene vale quanto la vita, è elementare. Ma se
consumo la mia vita lavorando senza sosta per consumare sempre di più,
aggredisco il pianeta e per mantenere quel consumo dovrò produrre sempre
di più cose che durano sempre meno. Siamo in un circolo vizioso, ci
sentiamo costretti a mantenere una civiltà usa e getta. Questi sono
problemi di carattere politico e ci stanno dicendo che bisogna iniziare a
lottare per un’altra cultura».
Mujica profeta, dunque, ma anche leader, più di moltissimi altri.
Ultima sua mossa, ai primi di dicembre, quella di spiazzare i cartelli
della droga legalizzando e nazionalizzando in Uruguay la coltivazione e
la vendita della marjuana. Qualcosa di eclatante che forse può
rinvigorire altre e decisive azioni volte a erodere il mito perverso del
consumo senza freni e l’utilizzo senza limiti delle sempre più scarse
riserve del pianeta. L’Uruguay non è certo l’America, ha tre milioni di
abitanti, è uno dei paesi sudamericani con storie di dittature, di
persecuzioni. E prima ancora una storia
ancor più tragica, quella della colonizzazione ispanica, di vessazioni,
di massacri. Una piccola nazione, dunque, ma ciò che sta facendo Mujica
è grande, così grande e potente che i media convenzionali ne parlano pochissimo, perché questo agire fa tremare certuni nelle altissime sfere.
Pepe Mujica era, da giovane, un convinto oppositore della dittatura;
si era convertito ai Tupamaros, il movimento armato che si rifaceva al
leggendario Tupac Amaru, un cacique che aveva capeggiato una lunga e
sanguinosa lotta contro i conquistadores spagnoli. Mujica ha pagato,
assieme a molti compagni, la sua ribellione con quattordici anni di
carcere e torture. Oggi Il suo vivere spartanamente da presidente della
sua nazione gli appare cosa scontata: «Yo no soy pobre, Yo soy sobrio»,
usa dire d’abitudine. Una formidabile coerenza con lo stato del mondo
costituito più di poveri che di ricchi.
I fasti della sua carica altrove
dispiegati (basti pensare all’enormità delle spese per la presidenza
della Repubblica che Napolitano si ostina a voler mantenere) Mujica li
ritiene un semplice e incongruo retaggio del Medio Evo. Filosofo di
formazione, cita volentieri Seneca, Diogene – colui che ricevette
Alessandro Magno e i suoi dignitari sulla soglia del suo poverissimo
ricovero, pare fosse una botte. Alessandro che gli veniva promettendo
tutto e di più, una personalità così grande. Al gentile rifiuto di
Diogene sul presupposto che nessuno fa niente per niente, per cui lui
non si sarebbe più sentito libero, Alessandro deluso rispose: «Ma allora
non possiamo proprio fare niente per te». «Certamente, Alessandro, ero
qui seduto al sole per scaldarmi un poco dal freddo della notte, basta
che vi facciate un poco più in là».
(Carlo Carlucci, “Io non sono povero, sono sobrio – quindi felice”, da “Il Cambiamento” del 17 dicembre 2013).
http://www.libreidee.org/2014/01/mujica-non-sono-povero-sono-sobrio-quindi-felice/
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