La medicalizzazione dell’apprendimento scolastico affrontata in un articolo della dottoranda di ricerca Martina Riccio dell’Università di Bologna.
Sul sito della casa editrice Edizioni Junior è stato pubblicato un intervento della dottoranda di ricerca Martina Riccio dell’Università di Bologna, dal titolo “La medicalizzazione della pedagogia“,
si tratta di un interessantissimo articolo che affronta il tema della
medicalizzazione dell’apprendimento e dell’educazione, un fenomeno in
espansione e che merita la dovuta attenzione.
Prima di entrare nel merito premettiamo che per poter parlare della presenza di una malattia è
necessario avere dei mezzi di diagnosi in grado di rilevarla, nel caso
in questione quel che deve essere rilevata è la presenza di DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), tale strumento è attualmente costituito dal test WISC “Wechsler Intelligence Scale for Children” che è impiegato per stabilire il livello di “intelligenza”.
Qui sorge il primo problema, come viene insegnato ad ogni studente,
misurare è un’operazione possibile solo dopo aver stabilito l’unità di
misura da impiegare, ma nel caso dell’intelligenza qual è tale unità di misura?
La
domanda è retorica in quanto un’unità di misura per l’intelligenza non
esiste, né è immaginabile quale potrebbe essere. Ma allora cosa misurano
i test d’intelligenza?
L’unica cosa che i test d’intelligenza (tutti) misurano è
la corrispondenza delle risposte date al percorso mentale di chi ha
formulato le domande, in poche parole un test d’intelligenza prende come
metro per valutare l’intelligenza i processi mentali di colui che ha
pensato il test. Appare dunque chiaro che invece di misurare
l’intelligenza (qualunque cosa essa sia) i test valutano la
corrispondenza di un soggetto ad un modello prefissato e apoditticamente
definito come ideale di riferimento.
Tornando dunque ai test WISC, qual è il modello di riferimento a cui
essi si ispirano per valutare l’intelligenza di uno studente? Stando a
quanto è possibile leggere su Wikipedia il WISC è un test che non fa
riferimento alle nozioni apprese a scuola, ma se invece andiamo a
leggere l’articolo della dott. Riccio troviamo qualcosa di molto
diverso:
“In ambulatorio, i test, altamente standardizzati, che vengono somministrati per la valutazione delle capacità cognitive non sono molto diversi per forma e contenuto dalle verifiche di lettura, di comprensione e di calcolo utilizzate nelle prove INVALSI e nei test di screening. Uno sguardo alla Scala di Intelligenza Wechsler (WISC-III), una delle più diffuse, è sufficiente per notare come la maggior parte dei subtest facciano riferimento nozioni e abilità apprese a scuola.”
Il problema non è di poco conto, perché
se il test per valutare l’intelligenza (ma il problema
dell’apprendimento è legato solo all’intelligenza?) verte sul tipo di
conoscenze apprese a scuola ci troviamo di fronte ad un ragionamento
circolare nel quale il test per valutare le difficoltà
dell’apprendimento si basa sul livello di apprendimento e così finisce
per certificare che lo studente non ha appreso e non per quale motivo
non abbia appreso, conclusioni alle quali correttamente si giunge
nell’articolo:
“Potremmo quasi dire che lo spazio medico e quello scolastico agiscono all’interno di un meccanismo circolare di produzione della disabilità che si dispiega in modo tautologico: i/le bambini/e che risultano “deficitari/e” rispetto a un particolare modello scolastico (che defi-nisce determinati tempi e modi previsti per l’apprendimento) vengono poi clinicamente valutati/e attraverso scale e test che fanno esplicito riferimento a tale modello e che, quindi, spesso finiscono per riconfermare circolarmente il deficit del soggetto rispetto ai parametri definiti.”
La circolarità del meccanismo risultati scolastici-test conduce a delle inevitabili conclusioni:
“Entrambi i contesti collaborano, quindi, a una medicalizzazione del comportamento infantile che vede principalmente nell’individuo, e al massimo nella sua famiglia, la causa (organica o meno) dei suoi deficit e che ridefinisce nei termini medici della dis-abilità questa mancanza, senza che venga messo in discussione il modello educativo all’interno del quale le disabilità dell’apprendimento sono prodotte.Responsabilità e compiti che sono propri del contesto scolastico e pedagogico, legati alla sperimentazione di pratiche e metodologie educative per l’apprendimento e alla costruzione di strumenti e spazi didattici per tutti, vengono invece delegati al contesto medico, che sulla base del tipo di disabilità che viene diagnosticata, mette in atto forme di intervento specifiche, volte a rendere il soggetto il più funzionante possibile rispetto al sistema.”
Uno strumento nato dunque con l’intento di sollevare gli studenti in difficoltà dal peso di un giudizio scolastico negativo di cui non sono responsabili, diventa di fatto uno strumento che trasforma i risultati scolastici negativi in patologia puntando
l’attenzione su quel che non va in quella determinata persona anziché
cercare e valorizzare le sue potenzialità in altri campi. Questo porta
inoltre a deresponsabilizzare il sistema educativo in cui la difficoltà
emerge, ma ancor di più quello culturale e antropologico, che non
vengono così messi in discussione. Tutto ciò finisce solo col consegnare alla società dei malati in più e
diventa infine un’occasione perduta per mettere in discussione
meccanismi sociali e modello di vita. Se quindi il soggetto non è adatto
al sistema tanto peggio per il soggetto che dietro un’apparente aiuto,
anche farmacologico, viene invece classificato e certificato come
‘portatore di disturbo’ contrariamente a quanto poteva avvenire in
passato quando un risultato negativo a scuola non era attribuito ad un
problema fisico e l’idea di un recupero era sempre possibile essendo
legata alla capacità di scuola, famiglia e allievo di impegnarsi in tal
senso.
Dubbi sul proliferare di diagnosi sui DSA erano stati espressi tempo fa anche dal prof. Giorgio Israel ed erano stati riportati su CS più di due anni fa nell’articolo “ADHD: drogare i bambini?” dove si poteva leggere:
Quando, in occasione della discussione sulla legge concernente i DSA (Disturbi specifici di apprendimento), mi sono permesso di criticarla ritenendola un ulteriore passo verso la medicalizzazione della scuola, nel contesto di una tendenza generale verso la trasformazione della scuola e, più in generale, della società in una gigantesca clinica psichiatrica, non ho avuto repliche degne di questo nome. Sono stato trattato come un incrocio tra un provocatore e un pazzo.Ho ricevuto insulti, minacce e sono stato persino gratificato di un appello “contro il negazionista”. Avendo sostenuto – in buona compagnia – che l’ADHD (sindrome del bambino agitato) è un’invenzione fatta per vendere tonnellate di sedativi, un giornalista mi ha intimato di “ritrattare”.
La scuola medicalizzata nasce nel momento in cui perde la sua funzione originale di
essere luogo di educazione e di formazione culturale per diventare
“diplomificio”, luogo cioè in cui si producono diplomi e non si formano
le persone, e la necessità di avere dei diplomi deriva a sua volta dalla
riduzione della scuola a luogo funzionale alle logiche di mercato e a
quelle produttive.
Se dunque il diploma serve per lavorare lo studente deve essere da subito testato e certificato in
base alla sua capacità di “produrre” ciò che il sistema scuola e quello
produttivo si aspettano, in tutto questo educazione e cultura non hanno
molto spazio.
Per il momento chi insegna ha ancora la possibilità di sottrarsi a queste logiche e
fare della scuola un luogo di formazione umana e culturale in cui non
esistono ‘disturbi’ ma persone da educare, termine che etimologicamente
significa “condurre fuori”, “trarre” quello che di buono è presente in
embrione nella persona.
E’
dunque in base all’idea di essere umano che si adotta che derivano poi
le indicazioni nei vari settori che vanno dal lavoro alla sanità alla
scuola. Su questo campo al di là di normative, riforme, delibere e
scuole di pensiero pedagogiche, il confronto è sempre più di tipo
antropologico.
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