mercoledì 13 novembre 2013

Segni della fine: fagioli borlotti made in Cina

Borlotti b
Ecco cos’abbiamo trovato in un supermercato “bio”. Costano di meno, conviene importarli: così rinunciamo a un altro pezzo della nostra sovranità alimentare

Guardate bene questa etichetta, stampata su una confezione di fagioli borlotti secchi acquistati in un supermercato rigorosamente “bio” di Padova : non ci notate niente di strano? Noi sì.

In basso, difatti, sta scritto chiaramente che l’origine di quei fagioli – borlotti, non azuki e neanche messicani – è la Cina.

Dunque sono stati seminati, coltivati, raccolti e trasportati in Italia da migliaia di chilometri più a Oriente. E non è neanche un caso isolato visto che dieci centimetri più in là, sullo stesso scaffale, un’altra etichetta di un’altra confezione di borlotti (la vedete nella foto più sotto), riporta la dicitura “agricoltura non UE”. Il che può significare America, da dove arriva buona parte del nostro import di legumi, o Asia e appunto la stessa Repubblica Popolare Cinese.


Borlotti a
Se questi fagioli sono finiti dunque sugli scaffali di un negozio italiano, significa una cosa sola: che qualcuno, qui da noi, ha preferito un import a chilometri ventimila piuttosto che un acquisto a chilometri zero o comunque sul territorio nazionale. E, se l’ha fatto, non è certo perché la produzione italiana di fagioli borlotti non gli consentiva di averne a disposizione sufficienti quintali o tonnellate durante tutto l’arco dell’anno, ma semplicemente perché così gli costava meno (al consumatore non sappiamo).

Ora, sorvolando sulle garanzie bio che si possono avere su un prodotto acquistato in Cina (ma vale anche per il “bio” italiano: che sicurezze vuoi che ci siano quando il controllore è pagato dal controllato?), e sorvolando anche sulla logica molto poco “bio” di un prodotto che per trasportarlo in Italia bisogna inquinare mezzo pianeta (stessa cosa vale per le mele e le pere fuori stagione che arrivano dal Sudamerica, e potremmo continuare così per altre venti righe), il discorso che vogliamo fare non è tanto quello di una trita e autarchica difesa del made in Italy, ma un altro: questa etichetta è il segno della fine. E’ un’etichetta escatologica. Perché annuncia l’abdicazione, totale e incondizionata, della nostra sovranità alimentare.

Per soldi, è chiaro, e per cos’altro sennò? Perché conviene. Conviene all’importatore italiano e conviene certo anche ai produttori cinesi, e pazienza se gli stipendi e le condizioni di lavoro dei loro salariati sono quelli che sono.

Ma un giorno, sai mai, anche a Pechino le cose potrebbero cambiare. I lavoratori cinesi, per esempio: potrebbero protestare e chiedere di più, così come hanno fatto i nostri nonni in cento e passa anni di conquiste sociali. Oppure potrebbero essere gli stessi produttori cinesi, una volta conquistato il monopolio del mercato, a decidere di punto in bianco di alzare i prezzi.

Be’, direte voi: a quel punto potremo finalmente mangiarci i nostri, di fagioli borlotti. Già, ma quali se nel frattempo saranno spariti dalla circolazione tutti i contadini che potevano (o che hanno provato a) coltivarli?


fonte:  http://www.effervescienza.com/
http://www.stampalibera.com/?p=68406

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