La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri
– non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta
concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano.
Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra
sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare,
proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente
si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo
arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani –
nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché
insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La
prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del
mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”,
inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo
inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni
‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di
rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto
democratico le legittime rivolte popolari.
La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il
bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio
della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste
sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio
wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a
caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno).
La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici
dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle
informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti.
Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e
intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche
per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente
fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per
necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan
sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta
coagulando all’ombra della Russia e della Cina.
In Ucraina è in corso una guerra
che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere
politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente
(anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti,
con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa,
Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra
l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza
continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della
potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare
russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il
dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è
ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno
Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea,
Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti,
le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di
orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.
Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse
nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a
sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi
nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea,
rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è
emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici
(S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento
di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine,
dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due
gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche
monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle
rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del
valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del
dominio occidentale: la prima è incline alla guerra
finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza
militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non
differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea
reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente
l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza
tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa
e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico
dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà
un’Eurasia sempre più asiatica.
A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto
del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma
sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di
infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario
progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di
quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per
semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo
accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di
scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese
all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere
destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da
questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte
(molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve
valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.
Anche in Europa
cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia
improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella
della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma
per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe
dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla
Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle
sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa
e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi
accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset
dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli
investimenti tra Ue e Usa,
si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno,
sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al
settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma
non dalla Francia e dalla Germania).
Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che
è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai
seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica,
Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein,
Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù,
Corea, Svizzera, Turchia e Usa.
Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa
risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di
servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa
il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu
trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc.
Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa.
Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un
ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.
Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo
finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e
sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così
come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica.
Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso,
si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra.
In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe
pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi.
Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo
le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la
maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo.
Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi,
l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo
scenario da incubo
– si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta
negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli
europei.
A iniziare dalla guerra
in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da
sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le
responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni
euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per
l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per
risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa
devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe
sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione
che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di
misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la
responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa,
la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti
diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le
organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i
suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece
di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero
innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare.
Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro
crudezza, già indicano il futuro che ci attende.
(Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014. Raffone
si è occupato di diritti umani e rifugiati in America Latina e
Jugoslavia anche in ambito Onu, ha cofondato il Centro italiano per la
prospettiva internazionale “Cipi” e la rivista on line “Strat-Eu”,
intelligence e geopolitica).
fonte: http://www.libreidee.org/2014/07/europei-svegliatevi-o-entro-il-2018-siamo-tutti-in-guerra/
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