La
chiusura dell’ambasciata statunitense in Libia avviene probabilmente in
ritardo, da quando tale Paese è disceso nell’anarchia. La ruota ha
girato completamente dall’invasione occidentale della Libia, tre anni
fa, sotto la bandiera della NATO a sostegno dell’agenda del ‘cambio di
regime’. Da ovunque si veda, il defunto dittatore libico Muammar
Gheddafi deve guardare con gioia gli europei e gli statunitensi che
l’hanno braccato ora fuggire in preda al panico, temendo la prospettiva
del massacro e della morte improvvisa, mentre la NATO non può più essere
di alcuna utilità. In ogni caso, la NATO ha le mani occupate, impegnata
nella mobilitazione nel Mar Nero e negli Stati baltici.
Ma nella
valanga mediatica sull’evacuazione degli statunitensi da Tripoli, ciò
che attrae e costringe a pensare è il chiaro servizio di ABC News che
spiega dall’interno come l’evacuazione ha avuto effettivamente luogo.
Certo, non dal tetto dell’ambasciata statunitense a Tripoli in
elicottero, ma comunque con assai alta drammaticità e dispiegamento di
aerei da combattimento F-16, droni, cacciatorpediniere e forza di
reazione rapida. Non si sa se ridere o piangere in questi momenti dai
sentimenti contrastanti. Certamente il servizio di ABC non trasmette
un’immagine elegante della superpotenza in ritirata.
Certo, tale
spettacolo ferirà politicamente il presidente Barack Obama divenendo
bersaglio della politica mondiale, in particolare nella sicurezza
internazionale. Non sorprende che Obama, o il suo vice Joe Biden, non si
siano visti o sentiti e che il segretario di Stato John Kerry sia
rimasto con la scatola dei vermi. Forse è una decisione prudente dalla
Casa Bianca, attentamente presa. E Kerry si spertica annunciando che non
ci sarà una ritirata “permanente” dalla Libia. Di certo, non sarà una
ritirata permanente. Ovunque ci sia petrolio nella sabbia del Medio
Oriente, ci saranno gli USA. Ma il vero sofisma è altrove, nella
rivendicazione di Kerry che gli statunitensi in quanto tali non sono
obiettivo della milizia libica scatenata. Ora, ciò è una mera bugia,
dimentica l’uccisione grottesca dell’ambasciatore Christopher Stevens
nel 2012, nell’attacco a Bengasi alla stazione CIA da parte degli
assassini che aveva addestrato ad uccidere?
In realtà, l’amministrazione Obama si assicura che l’attacco di Bengasi, che tormenta ancora il futuro politico di Hillary Clinton e a oscura l’attesa avanzata di Susan Rice nel gabinetto di Obama al momento, non si ripeta. In teoria, la Libia potrebbe riapparire sulla via alle elezioni presidenziali del 2016 negli Stati Uniti. Ma poi, sarà più roba da polemiche e protagonismi dei politici statunitensi. La grande domanda è perché le esperienze brucianti in Iraq, Libia e Afghanistan non convincono a un ripensamento all’ABC delle politiche regionali che sostengono l’ordine del giorno degli Stati Uniti del cambio di regime nei Paesi stranieri. Gli Stati Uniti dovrebbero avere una seria introspezione.
La Siria è stata distrutta e presto potrebbe essere la
volta dell’Ucraina, e in entrambi i casi è l’interferenza degli Stati
Uniti in tali Paesi, in bilico tra delicate dinamiche interne, per
freddi calcoli geopolitici e interessi personali, anche se camuffati da
altro, a suscitare rivolte sanguinose. La Libia diventa particolarmente
importante, perché gli islamisti pregustano la vittoria e sono
potenzialmente parte del piano del califfato globale. Non sarà il sangue
degli occidentali ad arrossare le sabbie libiche, ma sangue umano
comunque, e il grido della ‘jihad’ in Libia risuonerà in tutto il Medio
Oriente, e oltre. Basti dire che le politiche occidentali sono terreno
fertile per il ‘jihadismo’ di oggi.
Ovunque gli statunitensi vadano nel
mondo musulmano a stabilire la loro egemonia, sono seguiti dai
‘jihadisti’. Il punto è, i demoni che USA-NATO hanno scatenato in Libia
distruggendo il regime di Gheddafi, punteranno agli statunitensi, ora.
E’ il tipico replay di Afghanistan e Iraq. Una seconda questione
riguarda il ruolo della NATO come organizzazione della sicurezza
globale, che Washington promuove. L’alleanza occidentale era euforico
per la ‘vittoria’ in Libia nel 2011. Ed il modo in cui la NATO ha
gestito la guerra l’ha proiettata quale “nuovo modello” (qui).
Col senno del poi, la NATO ha così tanto sangue sulle mani che gli
utili propagandati restano assai discutibili, per non dire altro. Mentre
la NATO si prepara al vertice di settembre in Galles, la Libia si
presenta come un ‘stimolante’ ripensamento per gli statisti occidentali
sul futuro dell’alleanza. Ma possono far fronte a una sfida morale
quanto intellettuale?
Tuttavia, una domanda molto più grande si pone. La ritirata diplomatica statunitense dalla Libia è estremamente simbolica. Presenta l’immagine di una superpotenza allo sbando, ritirandosi tra paura e trepidazione. Certo, i taliban non dovranno guardare lontano per sapere cosa fare se sul serio scacceranno le basi militari statunitensi dal loro Paese, semplicemente lanciare uno o due razzi nel compound dell’ambasciata statunitense a Kabul. Inoltre, tale spettacolo indecoroso dai deserti libici dove uomini e donne di Obama battono in ritirata, non aiuterà il perno in Asia degli Stati Uniti ad essere una convincente strategia agli occhi scettici dei Paesi dell’Asia-Pacifico.
Pregate, perché dovrebbe
mai il primo ministro indiano Narendra Modi prendere sul serio l’invito
sontuoso, esteso al suo governo la scorsa settimana, dal vicesegretario
di Stato degli Stati Uniti Nisha Desai Biswal. di far svolgere all’India
un “ruolo vitale” nel riequilibrio in Asia dell’amministrazione di
Obama; o anche prendere sul serio ciò che ha lodato retoricamente come
“scommessa strategica sul ruolo conseguente dei 4,3 miliardi di asiatici
nel 21° secolo” di Washington? (qui).
La cosa ottima dal punto di vista indiano, è che la ritirata libica
dell’amministrazione Obama avviene pochi giorni prima del dialogo
strategico USA-India a Delhi.
Non può sfuggire ai politici di Delhi che
l’autonomia strategica dell’India e la sua capacità di seguire un corso
indipendente nel mondo contemporaneo, mantenendo le proprie priorità di
sviluppo nazionali in piena prospettiva, non sia più una discutibile
politica estera ideale, ma un’attuale necessità impellente.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
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