Avendo
perso il 50% dei voti e dei seggi, il disegno di modificare la
Costituzione in senso ancora più pesantemente presidenzialista si è
allontanato e un nuovo Governo è diventato possibile solo grazie a una
coalizione. Purtroppo, o per fortuna, nessuno degli altri tre partiti
che hanno ottenuto deputati ne ha l'interesse, salvo che l'AKP non cambi
formalmente e totalmente la politica attuata fino ad oggi.
I nazionalisti potrebbero accettare un governo con il Partito della Giustizia solo se quest'ultimo facesse marcia indietro anche sulle piccole aperture finora attuate verso i curdi; il partito curdo, invece, ha svolto tutta la campagna elettorale giurando che mai si sarebbe alleato con Erdogan e il partito repubblicano, Kemalista e laico, imporrebbe una totale inversione di rotta rispetto all'evidente confessionalismo islamico messo in pratica nella società turca dal partito di maggioranza.
A dir la verità, Erdogan preferirebbe di gran lunga nuove elezioni piuttosto di un'alleanza, altresì debole, con chi significherebbe un condizionamento del suo potere e, anche con quest'obiettivo e nonostante il finto impegno di Davotoglu nel cercare le basi di un accordo, ha ripreso i bombardamenti sul PKK sperando così di attirare qualche voto utile dagli elettori nazionalisti.
I problemi di Ankara però non finiscono nella politica interna. Se pensiamo alla politica estera basata sull'assunto "nessun problema con i Paesi vicini", vediamo ogni giorno il suo totale fallimento: la rivalità con l'Iran, pur sempre non dichiarata, si è accentuata dopo la firma dell'accordo di Teheran con gli USA, in Siria c'è una guerra civile che fino a ieri li vedeva solo parzialmente coinvolti mentre oggi è divenuta manifesta. E anche a ovest i problemi finanziari greci e l'accenno di ri-avvicinamento tra Atene e Mosca non può essere sottovalutato. A nord, infine, il mar Nero e il Caucaso sono tornati a essere potenziali d'instabilità e l'incertezza turca verso il progetto Turkish Stream con le relative e contrarie pressioni americane ne è una dimostrazione.
In realtà, la diplomazia turca in tutti questi anni è sempre stata condotta in modo confusionario e contradditorio. E' oramai indubbio che gli aiuti dati alle forze anti-Assad in Siria siano stati dispensati (fino ad oggi) anche verso lo Stato Islamico. Quest'ultimo ha sempre potuto contare sul territorio confinante come canale di collegamento per petrolio e armi con il resto del mondo e i suoi militanti feriti sono stati continuamente, anche se discretamente, curati negli ospedali turchi.
Perfino oggi, quando l'accordo USA — Iran ha obbligato Ankara a riprendere un atteggiamento collaborativo con Washington consentendo agli americani l'uso della base aerea di Incirlik le nebbie non si sono del tutto dissolte. La necessità di dimostrare buona volontà ha obbligato le Forze Armate turche a bombardare i guerriglieri dello Stato Islamico e rompere quindi il tacito accordo lungamente mantenuto con loro. Contemporaneamente, ha arrestato sia islamisti sia curdi presenti sul proprio territorio e ha ripreso i bombardamenti contro i guerriglieri del PKK rifugiati sulle montagne nord irachene. Oltre a ciò, l'artiglieria turca ha anche cercato di approfittare della guerra contro il "terrorismo" per colpire le forze curdo- siriane del YPG, salvo poi, inutilmente, smentire di averlo fatto.
E qui la situazione si complica perché se è vero che il PKK è tuttora giudicato anche dagli americani come forza terrorista, l'YPG viene considerato un gruppo alleato nella lotta contro gli integralisti islamici (si ricordi il caso di Kobane). Anche se ufficialmente distinte, queste due entità curde sono strettamente legate tra loro e il gruppo siriano, dopo il bombardamento turco, è perfino arrivato a ventilare l'ipotesi di passare totalmente dalla parte di Damasco. E' difficile immaginare, anche se non impossibile, che gli USA abbiano acconsentito a bombardamenti in territorio siriano che non fossero diretti esclusivamente contro le forze dell'ISIS.
In questo quadro incerto, chi, silenziosamente, potrebbe invece godere della nuova svolta turca in Siria è il PDK di Barzani, nel Kurdistan iracheno.
Nonostante la necessaria retorica continui a sventolare la "solidarietà curda", i Barzani non hanno mai avuto buone relazioni con il PKK (a differenza degli alleati-rivali dell'UPK) e a loro è sempre stato chiaro che una regione curda siriana, tanto peggio se amministrativamente autonoma o indipendente, è una pericolosa concorrente per la leadership sul popolo curdo nel suo insieme. E' anche per questi motivi che Erbil, nonostante le incursioni dell'aviazione turca sul proprio territorio alla ricerca dei guerriglieri del PKK, finge di non vedere, né sapere, dell'evidente violazione dei confini.
Ecco, almeno per ora e in conclusione, possiamo affermare che gli unici vicini che continuano a vedere Erdogan come un utile e importante alleato sono proprio i curdi iracheni. Sono solo loro che ne hanno bisogno, sia per il transito delle proprie merci e del petrolio verso il mare aperto, sia per giocare di sponda nel crescente antagonismo con Baghdad.
I nazionalisti potrebbero accettare un governo con il Partito della Giustizia solo se quest'ultimo facesse marcia indietro anche sulle piccole aperture finora attuate verso i curdi; il partito curdo, invece, ha svolto tutta la campagna elettorale giurando che mai si sarebbe alleato con Erdogan e il partito repubblicano, Kemalista e laico, imporrebbe una totale inversione di rotta rispetto all'evidente confessionalismo islamico messo in pratica nella società turca dal partito di maggioranza.
A dir la verità, Erdogan preferirebbe di gran lunga nuove elezioni piuttosto di un'alleanza, altresì debole, con chi significherebbe un condizionamento del suo potere e, anche con quest'obiettivo e nonostante il finto impegno di Davotoglu nel cercare le basi di un accordo, ha ripreso i bombardamenti sul PKK sperando così di attirare qualche voto utile dagli elettori nazionalisti.
I problemi di Ankara però non finiscono nella politica interna. Se pensiamo alla politica estera basata sull'assunto "nessun problema con i Paesi vicini", vediamo ogni giorno il suo totale fallimento: la rivalità con l'Iran, pur sempre non dichiarata, si è accentuata dopo la firma dell'accordo di Teheran con gli USA, in Siria c'è una guerra civile che fino a ieri li vedeva solo parzialmente coinvolti mentre oggi è divenuta manifesta. E anche a ovest i problemi finanziari greci e l'accenno di ri-avvicinamento tra Atene e Mosca non può essere sottovalutato. A nord, infine, il mar Nero e il Caucaso sono tornati a essere potenziali d'instabilità e l'incertezza turca verso il progetto Turkish Stream con le relative e contrarie pressioni americane ne è una dimostrazione.
In realtà, la diplomazia turca in tutti questi anni è sempre stata condotta in modo confusionario e contradditorio. E' oramai indubbio che gli aiuti dati alle forze anti-Assad in Siria siano stati dispensati (fino ad oggi) anche verso lo Stato Islamico. Quest'ultimo ha sempre potuto contare sul territorio confinante come canale di collegamento per petrolio e armi con il resto del mondo e i suoi militanti feriti sono stati continuamente, anche se discretamente, curati negli ospedali turchi.
Perfino oggi, quando l'accordo USA — Iran ha obbligato Ankara a riprendere un atteggiamento collaborativo con Washington consentendo agli americani l'uso della base aerea di Incirlik le nebbie non si sono del tutto dissolte. La necessità di dimostrare buona volontà ha obbligato le Forze Armate turche a bombardare i guerriglieri dello Stato Islamico e rompere quindi il tacito accordo lungamente mantenuto con loro. Contemporaneamente, ha arrestato sia islamisti sia curdi presenti sul proprio territorio e ha ripreso i bombardamenti contro i guerriglieri del PKK rifugiati sulle montagne nord irachene. Oltre a ciò, l'artiglieria turca ha anche cercato di approfittare della guerra contro il "terrorismo" per colpire le forze curdo- siriane del YPG, salvo poi, inutilmente, smentire di averlo fatto.
E qui la situazione si complica perché se è vero che il PKK è tuttora giudicato anche dagli americani come forza terrorista, l'YPG viene considerato un gruppo alleato nella lotta contro gli integralisti islamici (si ricordi il caso di Kobane). Anche se ufficialmente distinte, queste due entità curde sono strettamente legate tra loro e il gruppo siriano, dopo il bombardamento turco, è perfino arrivato a ventilare l'ipotesi di passare totalmente dalla parte di Damasco. E' difficile immaginare, anche se non impossibile, che gli USA abbiano acconsentito a bombardamenti in territorio siriano che non fossero diretti esclusivamente contro le forze dell'ISIS.
In questo quadro incerto, chi, silenziosamente, potrebbe invece godere della nuova svolta turca in Siria è il PDK di Barzani, nel Kurdistan iracheno.
Nonostante la necessaria retorica continui a sventolare la "solidarietà curda", i Barzani non hanno mai avuto buone relazioni con il PKK (a differenza degli alleati-rivali dell'UPK) e a loro è sempre stato chiaro che una regione curda siriana, tanto peggio se amministrativamente autonoma o indipendente, è una pericolosa concorrente per la leadership sul popolo curdo nel suo insieme. E' anche per questi motivi che Erbil, nonostante le incursioni dell'aviazione turca sul proprio territorio alla ricerca dei guerriglieri del PKK, finge di non vedere, né sapere, dell'evidente violazione dei confini.
Ecco, almeno per ora e in conclusione, possiamo affermare che gli unici vicini che continuano a vedere Erdogan come un utile e importante alleato sono proprio i curdi iracheni. Sono solo loro che ne hanno bisogno, sia per il transito delle proprie merci e del petrolio verso il mare aperto, sia per giocare di sponda nel crescente antagonismo con Baghdad.
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