martedì 21 luglio 2015

Troppo cibo in poche mani


Nessuna illusione. Che decidiate di comprare una barbabietola da zucchero da un fruttivendolo di quartiere o nell’amato-odiato centro commerciale, avrete solo una probabilità su dieci di acquistare un tubero che non provenga da una di queste corporation: Monsanto, Dupont, Syngenta, BASF o Bayer. E ciò è sempre più vero, perché tra il 1996 e il 2008 i cinque colossi mondiali delle sementi (che in Europa possiedono la metà dei brevetti registrati sulle piante) hanno messo le mani su almeno altre 200 società, tramite acquisizioni e partecipazioni.

Ciò significa che il 90% della produzione mondiale della barbabietola da zucchero è controllato dalle tre maggiori multinazionali sementiere; che sono anche leader – guarda caso – di quella dei pesticidi e detengono il 57% di quella del mais e il 55% della soia. A scriverlo è un rapporto (Agropoly - A handful of corporations control world food production, cioè Agropoly - Una manciata di corporations controlla la produzione mondiale del cibo) incentrato sulla filiera alimentare globale. Un documento importante perché, commenta Cinzia Scaffidi, direttrice del Centro studio Slow Food, «mette l’accento sul fatto che i quattro elementi fondamentali per fare agricoltura, cioè i semi, gli animali giovani, i mangimi e i fertilizzanti, corrispondono ormai a quattro settori industriali potentissimi. E non è un caso che le multinazionali si occupino esattamente di tali elementi, senza i quali gli agricoltori non possono lavorare e noi non possiamo mangiare».

False libertà
Pubblicato a settembre da EcoNexus, organizzazione britannica che raccoglie ricercatrici di varie discipline (biologhe, genetiste, ecologiste) e attivisti per la “giustizia ambientale”, Agropoly ci dice ad esempio che mentre in un Paese come la Tanzania il 90% dei semi viene ancora prodotto direttamente dai contadini, in Svizzera questa percentuale è scesa già a un misero 10% per quanto riguarda un bene primario come il grano. Non solo. Il rapporto ci impone diversi interrogativi: quale vera libertà di scelta abbiamo facendo la spesa se l’elvetica Nestlé, leader mondiale dei prodotti alimentari trasformati (cioè quasi tutti i cibi confezionati), vende sotto l’etichetta di ben 31 marchi diversi nel solo Regno Unito e controlla il 7% di un mercato da 1.378 miliardi di dollari l’anno? La risposta di Agropoly è preoccupante: quando compriamo prodotti trasformati abbiamo circa il 28% di possibilità di arricchire il marchio svizzero o le altre nove multinazionali (PepsiCo, Kraft, Coca-Cola, Unilever, ecc.) che insieme ad esso coprono questo ampio spicchio di mercato mondiale.

E abbiamo ben il 75% di probabilità di acquistare cereali o soia che siano commercializzati da altre 4 compagnie: Cargill, Archer Daniels Midland (ADM), Bunge o Dreyfus. Visto poi che il 10,5% dei 7.180 miliardi di euro della vendita al dettaglio – soprattutto grande distribuzione – vanno nelle casse di un gotha di 10 società (l’americana Walmart su tutte), le alternative per i consumatori e le ditte di trasformazione sono ulteriormente condizionate. E va anche peggio a chi è più in alto nella filiera, come agricoltori e allevatori. Nell’alimentazione delle bestie d’allevamento le 10 maggiori multinazionali si “limitano” a occupare il 15,5% di un mercato da 350 miliardi di dollari, ma ben il 99% di questi animali discende da un esemplare nato nelle stalle controllate da 4 multinazionali secondo la specie; per le sementi la top ten delle corporation si divide invece i ¾ di un giro d’affari da 34,5 miliardi di dollari; per i fertilizzanti il 55% di 90,2 miliardi di dollari; mentre 11 compagnie partecipano al 97,8% della torta da 44 miliardi di dollari che ogni anno si fa coi pesticidi. «I danni per i produttori – sottolinea Scaffidi – sono nel fatto che questo sistema imposto dalle multinazionali indebolisce la biodiversità da cui si approvvigionano gli agricoltori tradizionali, per cui sarà sempre più difficile trovare spazio per le varietà che non sono “pensate per il mercato”».

Grande potere e responsabilità
Un sistema oligopolistico, quindi, la cui prima ricaduta negativa è una scomparsa irreversibile di grandi quote di biodiversità. Secondo i ricercatori di EcoNexus, nei vent’anni seguiti alla cosiddetta “rivoluzione verde” iniziata negli anni ’60, che portò, grazie alla chimica, un aumento su vasta scala della produzione alimentare e della produttività, nelle Filippine si sono perse per sempre circa tremila varietà di riso, sostituite da soli due tipi coltivati sul 98% della superficie seminata.

Ciò mentre si stima che a livello planetario sia andato perduto il 75% di tutte le varietà di piante coltivate nel corso del XX secolo, rendendo così più fragile e delimitata la ricerca di risorse alimentari, e determinando maggiori difficoltà di sopravvivenza ai sistemi agricoli tradizionali, soffocati da pressioni di ogni tipo: lo scarso profitto, i colossi agrochimici che cercano d’imporre l’utilizzo di prodotti di sintesi e Ogm, le speculazioni sui prezzi delle materie prime alimentari, il consumo di suolo fertile a causa della cementificazione selvaggia (sprawling, ndr).

Non è forse un caso, sottolinea Agropoly, che nella seconda metà del 2010, anno di estremo rialzo dei prezzi del cibo, certificato dal Food Price In dex della FAO, il valore delle azioni del colosso Bunge fece un balzo in alto del 30%. Né che l’industrializzazione e la globalizzazione della produzione animale abbia drasticamente aumentato le malattie degli animali e i costi per affrontarle; o che in un Paese come gli Stati Uniti, dove è consentito l’uso di antibiotici in allevamento per accelerare la crescita degli animali, si sviluppino negli esseri umani batteri sempre più resistenti a questi farmaci.


Corrado Fontana



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