mercoledì 22 maggio 2013

Medicina: sì alla scienza, no allo scientismo

“Scientismo”, “scientisti”… parole che nel mio ultimo post, ad alcuni sono suonate sgradevoli. Forse è quel suffisso “ismo” che suona male. Ha un sapore un po dispregiativo che evoca cose come nazismo, economicismo, meccanicismo, marxismo, ma che nella nostra lingua è semplicemente la derivazione di una categoria da nomi comuni (alcolismo, turismo, metabolismo, strabismo, ottimismo, automobilismo ecc). 

Se andate su Google e digitate la parola “scientismo” troverete delle buone spiegazioni e persino un mio articolo “Da di Bella al caso Stamina. Tra umanità e scientismo”.

 
Lo scientista è uno che ha un certo atteggiamento dogmatico nei confronti della scienza considerata come unica forma valida di sapere e quindi superiore a qualsiasi altra forma di conoscenza. Per lo scientista il sapere scientifico è ad un solo tipo di razionalità, in generale quella positivista della fine dell’800, quindi per lui la scienza finisce per essere sostanzialmente una “definizione chiusa che in medicina purtroppo non funziona e crea un mucchio di problemi. 

Meglio quindi le definizioni aperte nelle quali le razionalità si confrontano con altre razionalità, le conoscenze sono molteplici e i modi di conoscere diversi. In medicina, a parte il caso Stamina, normalmente è d’obbligo tanto la razionalità che la ragionevolezza, cioè una visione non rigida della scienza che sappia oltre che applicare ovviamente conoscenze scientifiche anche dialogare con le situazioni, le contingenze, le complessità, le specificità di un malato. In medicina il valore della scienza non è in discussione del resto come si potrebbe? La scienza in medicina se usata in modo dogmatico ha nefasti effetti collaterali. Per cui non è in discussione il suo valore ma il modo di usarla. I malati sono più complessi degli elettroni.

Il medico non è mai solo scienziato, è anche un filosofo, un pragmatista, un tecnico, un eticista, un ermeneuta, cioè è uno che se la deve vedere con una complessità scientifica e non solo che nonostante tutto resta poco riducibile. Un medico non può essere né scientista e né relativista (colui che nega i valori assoluti delle verità oggettive), deve stare in equilibrio, quindi stemperare l’assolutismo delle oggettività senza cadere nelle trappole del relativismo velleitario che nega nelle sue forme estreme alle oggettività i valori delle evidenze. 

In un malato le oggettività e le soggettività della malattia non sono separabili. Ma fare questo non è facile. Gli errori, gli abbagli, gli equivoci sono costantemente in agguato. La medicina nella sua storia ha sempre cercato solide verità scientifiche, di essere il più possibile una scienza il più possibilmente esatta, e a volte ha rischiato di cadere in tentazioni scientistiche. Anzi la sua storia spesso è storia di scientismi.

Un esempio è la “evidence based medicine“ (ebm) oggi molto criticata ma fino a ieri considerata una verità indiscutibile. Essa ambisce a dedurre la decisione clinica dal valore apodittico dell’evidenza statistico-epidemiologica quale prova di scientificità. Purtroppo le malattie delle persone non sono facilmente riducibili a statistica, ogni malattia è un caso a sé. Questo non vuol dire che non esistono evidenze scientifiche e meno che mai che l’ebm sia inutile, tutt’altro, ma solo che bisogna fare molta attenzione nel loro uso quindi non essere scientisti. Oggi i clinici avanzano critiche interessanti ad un certo proceduralismo cioè ad un modo predefinito di conoscere la malattia “basato” proprio su evidenze statistiche e riabilitano i criteri osservazionali-empirico-fattuali, le intuizioni, le sensibilità, il buon senso, l’esperienza, l’opinione del malato.

I clinici oggi parlano di “malato complesso” per dire che nei suoi confronti non si può essere scientisti ma abili e saggi ragionatori. Nel ’99 con il caso Di Bella l’oncologia perse una grande occasione di dialogo sociale, proprio perché si arroccò nel suo scientismo, non riuscendo a sintonizzarsi né con la disperazione umana né con i nuovi significati culturali di cura. Certamente i principi attivi impiegati in quel trattamento risultarono inefficaci alla sperimentazione, ma come hanno dimostrato, tante innegabili testimonianze, il modo di curare di quel trattamento, la personalizzazione delle terapie, la conoscenza minuziosa del malato, il suo coinvolgimento, la filosofia terapeutica di fondo, avrebbero meritato più scienza e meno scientismo e quindi più attenzione da parte degli oncologi. Cosa impediva all’oncologia di trasferire quel patrimonio di esperienza alle cure oncologiche a comprovata efficacia terapeutica? Una terapia non è fatta solo da sostanze o da cellule ma anche da modi di curare.

Oggi la cura è molto di più della terapia, oggi il rimedio è molto di più di un farmaco. Oggi è importante al pari della terapia la relazione terapeutica. Quindi ribadisco il mio sì convinto alla scienza e un no altrettanto convinto allo scientismo.

Ivan Cavicchi
Docente all'Università Tor Vergata di Roma, esperto di politiche sanitarie

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/21/si-alla-scienza-no-allo-scientismo/600887/ 
 

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