mercoledì 15 gennaio 2014

USA, un altro flop: l’Iraq ritorna terra di nessuno

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Foto: EPA

A partire dal 2008 il numero di attentati e di vittime, in Iraq, erano andati diminuendo e tutto faceva pensare si fosse innescato un circolo virtuoso che avrebbe portato il Paese, finalmente, fuori dai postumi cruenti che la guerra aveva lasciato. Purtroppo, da fine 2012 la tendenza si è di nuovo invertita e, lo scorso anno, i morti per atti violenti e terroristici sono stati più di ottomila.


 
La guerra civile in Siria ha svolto sicuramente un ruolo importante in questa escalation, ma la responsabilità maggiore risiede, senza alcun dubbio, nell’atteggiamento accentratore e settario praticato del Primo Ministro sciita Al Maliki.

Uno tra i gravi errori commessi dagli americani subito dopo la caduta di Saddam Hussein fu di voler fare piazza pulita di tutti quelli che, in un modo o nell’altro, erano stati vicini al regime. Poiché erano moltissimi e la maggior parte di loro era di confessione sunnita, il risultato che ne conseguì fu una forte contrapposizione tra le tribù prevalentemente sunnite e gli sciiti, aiutati dagli USA e divenuti dominanti. Ne nacque un lungo periodo di forte instabilità, con scontri armati, atti di terrorismo e di delinquenza comune. Di questa situazione cercarono di approfittare le milizie di Al Qaida, con alterno successo.

Quando il generale americano Petreus assunse il comando delle operazioni e favorì l’incremento delle forze militari sul terreno (il famoso “surge”), intraprese anche un’operazione di pacificazione con le tribù sunnite che portò ottimi risultati. Riuscì, infatti, a ottenerne la collaborazione contro gli estremisti religiosi e un aiuto per fermare la delinquenza comune. In cambio garantì il graduale re-inserimento di personalità sunnita, proposte dalle tribù, nelle istituzioni irachene. Ne risultò la sparizione, o quasi, degli attentati e la marginalizzazione dei militanti estremisti. In modo particolare a Ramadi e Fallujia, città teatro di sanguinosi combattimenti contro le truppe americane nell’immediato dopoguerra, si ottenne una totale pacificazione con le tribù locali che portò anni di pace e la scomparsa, in quelle zone, di ogni atto terroristico.

In Iraq, le tribù e i loro relativi capi hanno ancora un ruolo sociale importante e l’appartenenza a una o all’altra implica protezione per suoi membri, ma anche obbedienza.

Purtroppo, Al Maliki, dopo la partenza delle truppe americane, una volta convinto di aver in pugno il Paese e desideroso di confermare il proprio potere, ricominciò l’ostilità contro uomini politici e personaggi di fede sunnita. Il primo atto fu l’accusa, con tentativo di arresto di un Vice Presidente della Repubblica che, tuttavia, riuscì a fuggire in Turchia via Kurdistan iracheno. Poi, fu la volta di un ministro, sempre sunnita che, pure lui, riuscì a sottrarsi all’arresto ma ebbe uccisi alcuni suoi collaboratori. 

Questo secondo caso, in particolare, fu particolarmente grave perché, a differenza del primo, toccava una figura di grande rilievo e prestigio nelle tribù sunnite delle province di Al Anbar. Guarda caso, fu proprio da quel momento che ricominciarono gli attentati contro moschee e luoghi frequentati dagli sciiti.

Lo scoppio della guerra civile in Siria favorì la congiunzione dei gruppi armati dei due Paesi confinanti, con un continuo scambio di armi ed andirivieni delle varie bande nel permeabilissimo confine.

Naturalmente, i gruppi integralisti andarono a nozze con questa situazione, e fecero causa comune con i sunniti della stessa fede, pur mantenendo un’organizzazione del tutto separata. Le tribù di Ramadi e Falluja, le città più importanti della provincia di Al Anbar, non hanno mai fatto parte né fraternizzato con i gruppi jihadisti, ma il nemico era comune trovarono utile coprirsi a vicenda. La goccia che ha drasticamente impresso una svolta fu, lo scorso 30 dicembre, l’intervento dell’esercito di Baghdad contro una manifestazione di protesta sunnita che lasciò sul terreno un certo numero di morti. 

A seguito di quegli scontri, fu perfino arrestato un importante politico sunnita locale e questo accentuò lo stato di conflitto locale con nuovi disordini. Fu a quel punto, seppur in ritardo, che Al Maliki comprese di aver esagerato e ordinò il ritiro di tutte le proprie truppe dell’intera provincia. Era ciò che i quaedisti dello “Stato Islamico in Iraq e Levante” (ISIS) stavano aspettando. Creatosi il vuoto, ne approfittarono immediatamente, riuscendo a occupare sia Ramadi che Falluja.

Oggi, di fatto, tutta la zona non è più sotto il controllo del governo centrale, ma nelle mani di questi gruppi estremisti armati.

Molto probabilmente l’occupazione non durerà a lungo perché, se è vero che le tribù sunnite locali odiano Al Maliki e il potere da lui instaurato, è altrettanto vero che non gradiscono l’instaurazione di uno stato islamico nella loro terra, sunnita ma sostanzialmente laica. Non è un caso se molti abitanti della zona sono fuggiti nell’ospitale e tranquillo Kurdistan iracheno non solo per fuggire il conflitto, ma anche per non sottostare alla legge islamica. 

Nel frattempo, i capi tribù locali, che non vogliono mettere a rischio la vita di coloro che sono restati, per ora, non si schierano apertamente contro i miliziani di Al Qaida. Sanno bene che lo scopo vero di questi ultimi è la destabilizzazione del potere centrale attraverso l’accentuazione dello stato di conflitto inter-religioso e che sperano in una guerra civile simile a quella in atto in Siria. E’ per questo che, ben difficilmente, si faranno trascinare su questa strada e non è perfino da escludere che arrivino ad un accordo sotterraneo con Al Maliki contro i Jihadisti stessi.

Se vi riusciranno salvaguardando i propri interessi e senza sacrifici umani della propria popolazione, potrebbe aprirsi una nuova prospettiva di dialogo in tutto il Paese. Se, invece, la tattica Jihadista vincerà, la possibilità di una frammentazione del Paese in più unità indipendenti si farebbe più vicina.
 
 
Mario Sommossa


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