La
corruzione più grave non è forse quella che affligge il consorzio umano
e l’individuo, ma quella che snatura la lingua. Nel nostro tempo quasi
sempre le parole sono usate a vanvera: imperversa il termine “teoria”
impiegato a sproposito, ma le cose non vanno meglio con l’aggettivo
“politico”, considerato addirittura un insulto, laddove la politica
vera, ossia l’amministrazione della pòlis nell’interesse della
collettività è dottrina nobilissima. Che pensare poi del vocabolo
“comunista” oggidì sinonimo di “appestato” o di “cannibale” con
particolare predilezione per i bambini o di “carnefice”?
Lungi da me impegnarmi in una difesa dell’ideologia socialista (tra l’altro socialismo e comunismo non sono voci intercambiabili), ma credo che, se mai sorgerà una società migliore di questa (non perfetta), essa sarà la negazione del vigente sistema fondato sullo sfruttamento sistematico ed indiscriminato degli uomini, degli animali, delle piante. Essa sarà il superamento di un modello incrostato sul profitto, l’usura, la speculazione, l’accumulo, il mercimonio…
Il lavoro stesso non sarà più lavoro (dal latino labor), ossia fatica, sforzo, ma qualcosa di profondamente diverso. Karl Marx – qui sia chiaro che non intendiamo propugnare in toto la sua Ideenkleid, ma anche in un campo di “erbacce” troveremo delle piante medicinali – descrive il lavoro nel mondo da lui vagheggiato come un’attività creativa, appagante con cui l’individuo plasma la materia o elabora idee, sviluppando la manualità e l’inventiva. E’ un’occupazione gratificante, artigianale o intellettuale, emancipata dalla ripetizione meccanica, dall’obbligo di produrre per il capitalista ed il mercato, dalla necessità di racimolare un po’ di soldi utili solo per sopravvivere all’interno della spirale perversa “produci, consuma, crepa”. Dimenticavo: “Paga le tasse ad uno stato esoso, insaziabile, iniquo e guerrafondaio”. Il lavoratore inoltre non è più defraudato dell’oggetto che ha costruito. Il prodotto, recuperando così il valore d’uso, diventa valore.
Non solo, nella società comunitaria ciascuno può decidere di cambiare mestiere o professione ogni qual volta gli aggrada. Oggi è agricoltore, domani vasaio, dopodomani scultore, posdomani regista. E’ naturale che siamo al cospetto di un’utopia, ma non sarebbe auspicabile provare a compiere almeno in parte tale progetto? Preferiamo forse l’attuale struttura socio-economica? Teniamocela, ma non lamentiamoci più.
Si dovrebbe tentare di promuovere una pòlis ispirata ai valori del sostegno reciproco, della condivisione, dello scambio di idee, di beni e risorse (NON merci!) dove il denaro o non è più adoperato oppure è un mero strumento per le transazioni e NON una merce. Erano questi gli ideali di talune comunità antiche e medievali: si pensi ai Nazirei, alle chiese paoline ed ai cenobi medievali. Che siano principi difficili da realizzare e da mantenere è vero: si corre sempre il rischio che si manifestino discordie tra gli appartenenti alla collettività. Incombe poi il pericolo che serpeggi la tentazione di ripristinare un organismo di tipo statale, ossia oppressivo. Lo Stato, espulso dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. Questo è una minaccia immane, spaventosa: Nietzsche ci insegna che lo Stato è un mostro e Gramsci ci ammonisce che “ogni Stato è dittatura”.[1]
L’essere umano è sempre essere umano, con i tutti i suoi pregi ed i suoi limiti. Alcuni autori – penso, ad esempio, a Wilhelm Reich - hanno additato dei modelli decorosi. Reich, che fu fiero detrattore dello statalismo sia nelle sembianze del “social-comunismo” sia in quelle del “liberalismo”, auspica una rigenerazione del singolo come presupposto per il miglioramento del corpus sociale.
Possiamo ostinarci ad aggredire la classe di burattini ventriloqui, possiamo continuare con le giaculatorie o cercare, nel nostro piccolo, qualche possibile rimedio, se non è troppo tardi…
Gli schiavi agognano una schiavitù sempre più coercitiva: così, invece di concepire e provare a delineare un prototipo sociale nuovo, impetrano spiccioli da uno Stato-Leviatano che elemosina ai disperati qualche baiocco, purché si stringano viepiù i ceppi agli Iloti.
La palingenesi, sempre che essa sia possibile, comincia dalla depurazione del linguaggio, quindi dalla cultura e non può prescindere da un totale azzeramento della classe “politica” pullulante di buffoni e di parassiti. Rifiutiamoci di votarli e pure di definire “comunisti” Matteo Renzi e la sua claque: ammesso e non concesso che si possa attribuire un aggettivo qualsiasi al “nulla costellato di nei” e agli altri inutili idioti di “centro”, di “destra” e di “sinistra”, potremo affibbiare loro l’epiteto di plutocrati, imbroglioni, maggiordomi dei banchieri, ciarlatani, impostori, sfruttatori, predoni, tagliagole… ma essi non sono “comunisti”, anche perché semplicemente non capiscono un’acca di politica e di economia, non sono, non esistono.
Ancora un paio di considerazioni.
Negli Stati Uniti d’America alcuni intellettuali e movimenti politici accusano Barack Obama - Barry Soetoro di essere “comunista” e di voler instaurare una compagine “comunista”. Siamo precisi: quel pu-pazzo lì è appunto un pu-pazzo incapace di intendere e di volere. E’ vero, però, che le élites che controllano gli Stati Uniti mirano a trasformarli in una tirannide di tipo socialisteggiante, dove del socialismo si estremizza il ruolo opprimente dello Stato teso a controllare tutto e tutti. Allora si potrebbe concludere che Obama è un fantoccio cui gli apparati hanno assegnato il compito di portare la Federazione verso una tirannia ammantata di simboli e di slogan socialisteggianti.
Di recente un amico si è trasferito in Venezuela: dal suo resoconto credo di arguire che il governo di Caracas, con Chavez ed il suo successore, abbia favorito grosso modo una commistione tra social-comunismo (ad esempio, calmiere del potere centrale sui prezzi dei beni primari, gratuità dei servizi) e sistema rappresentativo. Non esprimo un giudizio sul merito: mi limito ad osservare che qualcosa del quadro venezuelano è apprezzabile, mentre altri aspetti non lo sono. L’osceno connubio tra autocrazia ed ultracapitalismo, connubio che connota l’Occidente, non ha ancora devastato alcuni paesi sud-americani. Non sono il paradiso in terra, ma neppure l’inferno statunitense, italiano, greco, portoghese etc., un inferno tanto più demoniaco, quanto più è dipinto come il “migliore dei mondi possibili”.
[1] Dunque si potrebbe desumere qualche suggerimento dalla teoria politica di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, in primis l’antimilitarismo, non certo dai fautori della dittatura del proletariato né dai propugnatori dello statalismo invadente tipico dei paesi scandinavi. I leader della Spartakusbund non a caso furono fortemente critici nei confronti di Lenin, della cui ideologia e prassi sùbito compresero la deriva liberticida, prodromo del totalitarismo stalinista.
Articolo correlato: C. Penna, I soldi non crescono sugli alberi, 2014
Lungi da me impegnarmi in una difesa dell’ideologia socialista (tra l’altro socialismo e comunismo non sono voci intercambiabili), ma credo che, se mai sorgerà una società migliore di questa (non perfetta), essa sarà la negazione del vigente sistema fondato sullo sfruttamento sistematico ed indiscriminato degli uomini, degli animali, delle piante. Essa sarà il superamento di un modello incrostato sul profitto, l’usura, la speculazione, l’accumulo, il mercimonio…
Il lavoro stesso non sarà più lavoro (dal latino labor), ossia fatica, sforzo, ma qualcosa di profondamente diverso. Karl Marx – qui sia chiaro che non intendiamo propugnare in toto la sua Ideenkleid, ma anche in un campo di “erbacce” troveremo delle piante medicinali – descrive il lavoro nel mondo da lui vagheggiato come un’attività creativa, appagante con cui l’individuo plasma la materia o elabora idee, sviluppando la manualità e l’inventiva. E’ un’occupazione gratificante, artigianale o intellettuale, emancipata dalla ripetizione meccanica, dall’obbligo di produrre per il capitalista ed il mercato, dalla necessità di racimolare un po’ di soldi utili solo per sopravvivere all’interno della spirale perversa “produci, consuma, crepa”. Dimenticavo: “Paga le tasse ad uno stato esoso, insaziabile, iniquo e guerrafondaio”. Il lavoratore inoltre non è più defraudato dell’oggetto che ha costruito. Il prodotto, recuperando così il valore d’uso, diventa valore.
Non solo, nella società comunitaria ciascuno può decidere di cambiare mestiere o professione ogni qual volta gli aggrada. Oggi è agricoltore, domani vasaio, dopodomani scultore, posdomani regista. E’ naturale che siamo al cospetto di un’utopia, ma non sarebbe auspicabile provare a compiere almeno in parte tale progetto? Preferiamo forse l’attuale struttura socio-economica? Teniamocela, ma non lamentiamoci più.
Si dovrebbe tentare di promuovere una pòlis ispirata ai valori del sostegno reciproco, della condivisione, dello scambio di idee, di beni e risorse (NON merci!) dove il denaro o non è più adoperato oppure è un mero strumento per le transazioni e NON una merce. Erano questi gli ideali di talune comunità antiche e medievali: si pensi ai Nazirei, alle chiese paoline ed ai cenobi medievali. Che siano principi difficili da realizzare e da mantenere è vero: si corre sempre il rischio che si manifestino discordie tra gli appartenenti alla collettività. Incombe poi il pericolo che serpeggi la tentazione di ripristinare un organismo di tipo statale, ossia oppressivo. Lo Stato, espulso dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. Questo è una minaccia immane, spaventosa: Nietzsche ci insegna che lo Stato è un mostro e Gramsci ci ammonisce che “ogni Stato è dittatura”.[1]
L’essere umano è sempre essere umano, con i tutti i suoi pregi ed i suoi limiti. Alcuni autori – penso, ad esempio, a Wilhelm Reich - hanno additato dei modelli decorosi. Reich, che fu fiero detrattore dello statalismo sia nelle sembianze del “social-comunismo” sia in quelle del “liberalismo”, auspica una rigenerazione del singolo come presupposto per il miglioramento del corpus sociale.
Possiamo ostinarci ad aggredire la classe di burattini ventriloqui, possiamo continuare con le giaculatorie o cercare, nel nostro piccolo, qualche possibile rimedio, se non è troppo tardi…
Gli schiavi agognano una schiavitù sempre più coercitiva: così, invece di concepire e provare a delineare un prototipo sociale nuovo, impetrano spiccioli da uno Stato-Leviatano che elemosina ai disperati qualche baiocco, purché si stringano viepiù i ceppi agli Iloti.
La palingenesi, sempre che essa sia possibile, comincia dalla depurazione del linguaggio, quindi dalla cultura e non può prescindere da un totale azzeramento della classe “politica” pullulante di buffoni e di parassiti. Rifiutiamoci di votarli e pure di definire “comunisti” Matteo Renzi e la sua claque: ammesso e non concesso che si possa attribuire un aggettivo qualsiasi al “nulla costellato di nei” e agli altri inutili idioti di “centro”, di “destra” e di “sinistra”, potremo affibbiare loro l’epiteto di plutocrati, imbroglioni, maggiordomi dei banchieri, ciarlatani, impostori, sfruttatori, predoni, tagliagole… ma essi non sono “comunisti”, anche perché semplicemente non capiscono un’acca di politica e di economia, non sono, non esistono.
Ancora un paio di considerazioni.
Negli Stati Uniti d’America alcuni intellettuali e movimenti politici accusano Barack Obama - Barry Soetoro di essere “comunista” e di voler instaurare una compagine “comunista”. Siamo precisi: quel pu-pazzo lì è appunto un pu-pazzo incapace di intendere e di volere. E’ vero, però, che le élites che controllano gli Stati Uniti mirano a trasformarli in una tirannide di tipo socialisteggiante, dove del socialismo si estremizza il ruolo opprimente dello Stato teso a controllare tutto e tutti. Allora si potrebbe concludere che Obama è un fantoccio cui gli apparati hanno assegnato il compito di portare la Federazione verso una tirannia ammantata di simboli e di slogan socialisteggianti.
Di recente un amico si è trasferito in Venezuela: dal suo resoconto credo di arguire che il governo di Caracas, con Chavez ed il suo successore, abbia favorito grosso modo una commistione tra social-comunismo (ad esempio, calmiere del potere centrale sui prezzi dei beni primari, gratuità dei servizi) e sistema rappresentativo. Non esprimo un giudizio sul merito: mi limito ad osservare che qualcosa del quadro venezuelano è apprezzabile, mentre altri aspetti non lo sono. L’osceno connubio tra autocrazia ed ultracapitalismo, connubio che connota l’Occidente, non ha ancora devastato alcuni paesi sud-americani. Non sono il paradiso in terra, ma neppure l’inferno statunitense, italiano, greco, portoghese etc., un inferno tanto più demoniaco, quanto più è dipinto come il “migliore dei mondi possibili”.
[1] Dunque si potrebbe desumere qualche suggerimento dalla teoria politica di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, in primis l’antimilitarismo, non certo dai fautori della dittatura del proletariato né dai propugnatori dello statalismo invadente tipico dei paesi scandinavi. I leader della Spartakusbund non a caso furono fortemente critici nei confronti di Lenin, della cui ideologia e prassi sùbito compresero la deriva liberticida, prodromo del totalitarismo stalinista.
Articolo correlato: C. Penna, I soldi non crescono sugli alberi, 2014
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