E noi, chi pensiamo d’essere?
Ciò
che noi crediamo d’essere -chi, come e che cosa siamo- è frutto della
nostra diretta esperienza, oppure è una descrizione che ci è stata fatta
sin dalla nascita e alla quale abbiamo creduto?
Quando
nasce un bambino, ciò che appare in manifestazione è una piccola forma
fisica. Ma il bambino, è la forma che appare, il corpo-mente che andrà a
crescere, oppure questo è solamente uno strumento attraverso cui si
manifesta qualcosa d’imprescindibile e senza il quale il corpo stesso
sarebbe soltanto una forma vuota?
Chiunque
abbia visto una forma fisica morta, di un essere umano o di un animale,
si sarà reso conto che la forma è il ricettacolo di qualcosa di molto
prezioso, ciò che chiamiamo Vita o Coscienza.
L’elemento
primario è pertanto la Vita, la Coscienza. Il bambino che è nato, è in
realtà la Vita stessa, la Coscienza che si rende manifesta in questa
dimensione spazio-temporale attraverso la forma fisica, il corpo-mente,
per sperimentarsi, esprimersi, creare.
La nascita - afferma il grande saggio Nisargadatta Maharaj - è “l’io sono” che va a ficcarsi nella materia.
La
descrizione che ci è stata fatta di noi stessi, è che siamo un corpo
avente Coscienza o anima.
In sostanza, siamo stati addestrati a
scambiare il soggetto che siamo, per l’oggetto attraverso cui ci
manifestiamo, come dire, abbiamo realizzato l’incantesimo, “proiettando
magicamente il reale in una dimensione … inconsueta”.
La
Coscienza compare quindi insieme al corpo conferendo il senso
d’esistenza, di presenza. La Coscienza e il corpo, il soggetto e il suo
oggetto d’espressione, sono contemporanei, perciò sarebbe corretto
affermare che ciò che nasce è una Coscienza-corpo. Dopo la nascita, a
poco a poco c’immergiamo nell’incantesimo convincendoci d’essere
l’oggetto attraverso cui ci manifestiamo, cui attribuiamo però il ruolo
di vero soggetto.
Una
metafora utile a comprendere bene la situazione, può essere quella di
un elettrodomestico come un tostapane, che si consideri primario – un
soggetto – rispetto alla corrente che lo fa funzionare. La corrente
elettrica può far funzionare migliaia d’apparecchi d’ogni tipo, mentre
nessun elettrodomestico può farne funzionare un altro, né esisterebbe se
non ci fosse la corrente elettrica, grazie cui tutti gli apparecchi
possono svolgere il loro ruolo.
Ritornando
a noi, è facile intuire come ci siamo intrappolati nello stato
d’incantesimo. Una volta scambiato il soggetto con il suo oggetto,
assumendo come identità il corpo-mente, cominciamo a giocare al gioco
intitolato: La vita è sofferenza,
le cui regole prevedono autolimitazione, auto svalutazione, privazione
del potere personale -bisogna darlo a chi ha “l’autorità per dirigere la
nostra vita”- e della libertà.
La maggior parte delle persone - afferma il mistico Antony De Mello -
pur non sapendolo, sono addormentate. Sono nate dormendo, vivono
dormendo, si sposano dormendo, allevano figli dormendo, muoiono dormendo
senza mai svegliarsi. Non arrivano mai a comprendere la bellezza e lo
splendore di quella cosa che chiamiamo esistenza umana.
La
sostanza dell’incantesimo è dunque credere d’essere solamente un
corpo-mente, altrimenti chiamato personalità, io o ego. È questa
‘stretta’ identificazione con lo strumento attraverso cui ci
manifestiamo, che è naturalmente soggetto alle leggi della materia di
cui è fatto e della dimensione spazio-temporale in cui vive, nonché
l’oblio di ciò che fa vivere il corpo stesso – la Vita o Coscienza – che
ci ha privato della Gioia di vivere. È questo ciò che ci ha mantenuto
nello stato d’incantesimo, il cui terreno di gioco è il campo della
sofferenza.
Quando
parlo di sofferenza mi riferisco a quella psicologica che è diversa dal
dolore connesso col corpo fisico. Quando pelando le patate ci feriamo
un dito, c’è dolore che ha una sua intensità e durata variabile ma che
avviene nel momento presente. Il dolore lo possiamo sentire solo
nell’adesso. La sofferenza invece, è data dalle elucubrazioni che ci
facciamo in merito al fatto d’esserci tagliati: “oh Dio che spavento”,
“avrei potuto amputarmi il dito”, “è colpa mia” ecc., cioè continuare a
pensare a un evento già accaduto o a possibili sviluppi futuri.
Tutto
questo avviene al di fuori del presente anche quando non c’è più alcun
dolore.
Il campo della sofferenza e le sue caratteristiche ci sono ben note.
Esso
è caratterizzato dalla focalizzazione su uno stato individualistico:
io, io, io che è separativo dagli altri, oppositivo e competitivo. In
pratica, la filosofia alla base della nostra vita quotidiana, sostiene
che siamo individui isolati e separati gli uni dagli altri e che
pertanto, bisogna lottare per sopravvivere: mors tua vita mea, come dicevano gli antichi romani. La sopravvivenza è stata il principale obiettivo dell’umanità per molti secoli.
Ma
poteva essere differente, giacché nello stato d’incantesimo non
viviamo, ma sopravviviamo in attesa del nostro ‘salvatore’ personale o
collettivo?
Un altro elemento caratterizzante questo campo è come abbiamo visto, la sofferenza. Ci siamo detti:
«Siamo soli, perciò bisogna lottare per sopravvivere in questo mondo ostile», quindi la sofferenza è stata il nostro ‘pane quotidiano’ per millenni.
La
convinzione che ‘la vita è sofferenza’ è stata l’idea più diffusa sul
pianeta e ci ha influenzato così profondamente da arrivare a pensare che
sia ‘normale’ soffrire o, addirittura, fare della sofferenza un valore.
Siamo stati così bravi ad accettare e credere che ‘così è la vita’, che
siamo ‘solo uomini’, che ‘non siamo degni’, e altre idee simili, che ci
siamo comportati in conformità e ne abbiamo colti i frutti … amari.
Per
fortuna, come sappiamo, ogni incantesimo ha i suoi antidoti e si può
sciogliere. La cosa strana di questo incantesimo, è che ciascuno di noi
ne è co-creatore insieme con gli altri, quindi ciascuno di noi ne è
respons-abile.
Giulia Jordan
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