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Ankara e a Riyad deve essere sicuramente difficile avere sonni
tranquilli in questi giorni, mentre le speranze di stabilire uno Stato
sunnita su una vasta parte della Siria, come avevano previsto di fare,
si sgretolano sotto i colpi di un’offensiva lanciata dalle forze
governative siriane che sta spazzando via qualsiasi cosa nel nord di
Aleppo, minacciando di bloccare completamente le linee di rifornimento
che collegano alla Turchia le forze dell’opposizione all’interno e nei
dintorni della città, e di fatto mostrando per certo come la sua
liberazione sia ormai soltanto una questione di tempo.
Il successo delle forze governative e
dei loro alleati sul campo di battaglia è la prova del loro morale
eccezionale e tenacia, malgrado le perdite subite in più di cinque anni
di guerra incessante. Chiave di questa ripresa e del successo nel
mettere in rotta le forze dell’opposizione – che solo pochi mesi fa
stavano avendo il sopravvento – è stato di certo l’aiuto russo sotto
forma di copertura aerea, intelligence e supporto logistico. La
decisione di Mosca di intervenire, alla fine di Settembre dello scorso
anno, può essere stata azzardata, ma finora si è dimostrata una scelta
vincente, e forse addirittura oltre le aspettative iniziali.
Mosca, e non Washington, a dettar
legge nella regione ora, preannunciando la nascita di un mondo
multipolare e mostrando un’impressionante ripresa date le precarie
condizioni della Russia negli anni novanta, mentre cercava di
riprendersi dalla fine dell’Unione Sovietica.
Non appena la bandiera falce e martello
fu rimossa dal tetto del Cremlino, una schiera di esuberanti liberi
imprenditori giunse dagli Stati Uniti e dal resto dell’Occidente per
vendere i miracolosi rimedi del neo-liberismo, in cambio di un debito
con il Fondo Monetario Internazionale necessario ad evitare il completo
collasso economico.
I fatti mostrarono come questo collasso,
invece di essere evitato, fu accelerato dalle riforme di adeguamento
strutturale messe in atto da Yeltsin e dagli altri russi convertitisi
alla nuove religione.
Allora a Washington regnava il
trionfalismo della “fine della storia” mentre loro ridevano, oh quanto
ridevano. Bé, ora non ridono più.
Ciò nonostante, a questo punto nel
conflitto siriano né la Russia né chiunque altro sia interessato alla
sopravvivenza del Paese come uno Stato non settario, è in grado di
predire la vittoria. Non in mezzo agli schiamazzi provenienti da Ankara e
da Riyad sulla possibilità da parte di entrambi i paesi di mandare
truppe di terra.
Malgrado dichiarino che ogni
schieramento di questo genere sarebbe effettuato con l’obbiettivo di
combattere l’ISIS, solo degli ingenui cronici potrebbero crederci.
In verità qualsiasi intervento di questo
genere sarebbe effettuato con l’obbiettivo primario di un cambio di
governo a Damasco, evitando così il completo collasso delle forze
dell’opposizione all’interno e nei dintorni di Aleppo, mentre la Turchia
potrebbe continuare a coltivare segretamente l’addizionale obbiettivo
di distruggere le forze YPG, che hanno conseguito un incredibile numero
di vittorie sia contro l’ISIS nel nord-est che contro le forze ribelli
più ad ovest, queste ultime parte di un generale restringimento della
morsa attorno alla città.
Gli aerei sauditi schierati ad Incirlik
in Turchia, da cui negli ultimi mesi gli USA hanno fatto partire
missioni aeree sulla Siria, rappresentano un significativo sviluppo
della vicenda, indicante il livello di panico raggiunto a Riyad per il
modo in cui il conflitto si è ritorto contro di loro da quando è
iniziata l’offensiva del Esercito Arabo Siriano e dei suoi alleati.
I giorni in cui al presidente americano
bastava chiamare per telefono i suoi alleati nel Medio Oriente per far
eseguire i propri ordini sono passati. L’impotenza dell’amministrazione
Obama di fronte a questi sviluppi si presenta come il culmine di un
decennio e mezzo di fallimenti in Afghanistan e in Iraq, che hanno
estremamente indebolito il potere e la credibilità degli USA. Malgrado
il presidente desideri seguire una politica forte e decisa nei riguardi
della regione e del conflitto siriani, il costo che comporterebbe, non
solo in termini economici ma anche nel sostegno dei propri politici e
della propria opinione pubblica, negano al progetto qualsiasi
credibilità. A Washington quella che un tempo era conosciuta come
Sindrome del Vietnam è oggi la Sindrome dell’Iraq.
Per contro, il presidente Vladimir Putin
sta agendo in completa sicurezza, con la popolarità e il sostegno nel
proprio Paese che rimangono solidi come la roccia, con un ampio indice
di approvazione dell’80% che lo rende l’invidia delle proprie
controparti occidentali. Con ogni probabilità occorrerà aspettare che
una futura generazione di storici guardi a questo periodo di crisi,
beneficiando del senno di poi, perché la strategia militare, politica e
governativa di Putin sia degnamente apprezzata. Stesso discorso per il
ministro degli esteri Sergei Lavrov, che ha ridotto la propria
controparte statunitense, John Kerry, al ruolo di un principiante senza
arte né parte, che contempla in soggezione gli accordi già conclusi.
La dimostrazione di ciò si può vedere
dai risultati dei più recenti dialoghi sul conflitto tenuti a Monaco. La
Russia, nella persona di Lavrov, è arrivata ai dialoghi con la propria
campagna aerea già in corso a pieno regime, ed è uscita dai dialoghi
dopo aver raggiunto un accordo sul fatto che sarebbe continuata a
procedere a pieno regime. La rapidità con cui la propaganda prodotta
dagli USA e alleati si è rivelata come nient’altro che una reazione
all’intervento russo, ed è misurabile dal modo in cui si sono aggrappati
al mito dei “ribelli moderati”.
L’esempio più grottesco di ciò ha avuto
come protagonista il Primo Ministro David Cameron durante una
discussione dello scorso anno tenutasi alla Camera dei Comuni circa la
partecipazione britannica al conflitto. La sua dichiarazione riguardo
alla presenza in Siria di 70,000 di questi moderati, pronti ad
installare a Damasco una democrazia liberale carina e coccolona il
giorno dopo che Assad fosse stato costretto ad andarsene, ha provocato
cori di risate ovunque tranne che in Siria, dove i “moderati” di Cameron hanno trasformato una larga parte del Paese in un vero inferno.
E’ utile sottolineare che gli unici
moderati che combattono in Siria sono le truppe dell’Esercito Arabo
Siriano, composte da sunniti, sciiti, alawiti, drusi e cristiani. Loro
ed i loro alleati compongono le forze non-settarie del Paese e di tutta
la regione, impegnate in uno spietato conflitto contro la più
reazionaria e retrograda corrente estremista che il mondo abbia visto
dai tempi in cui Pol Pot e i Khmer Rossi imperversavano in Cambogia.
Per l’Arabia Saudita e per la Turchia è
facile parlar duro, ma sostenere le parole coi fatti è un altro paio di
maniche. Il mondo ha già visto il modo d’agire di Erdogan, quando pochi
mesi fa un aereo turco abbatté un bombardiere russo. Il presidente turco
si precipitò direttamente dai suoi alleati della NATO a chiedere che
fosse applicato l’articolo 5 della sua Carta, vincolante i Paesi membri
alla difesa collettiva in caso di minaccia militare. La sua richiesta
venne rifiutata da Obama, cosa piuttosto prevedibile, considerando che
Obama aveva seri motivi per dubitare della credibilità come alleato
dello stesso Erdogan.
Il tentativo della Turchia di presentare i curdi
dello YPG come una minaccia terroristica dello stesso livello di quella
posta dall’ISIS non è andato molto a genio a Washington, dove i curdi
sono giustamente visti come un insostituibile componente delle
operazioni contro l’ISIS, ed hanno per questo ricevuto supporto aereo
sia dalla Russia che dagli Stati Uniti.
Con la presenza militare russa dentro e
vicino alla Siria ormai assicurata, e con gli USA sempre più disillusi
circa la condotta bifronte tenuta da Erdogan nel conflitto, per non
parlare dell’aggressività del suo partner saudita verso l’Iran e verso i
diritti umani (cosa che rende ogni pronunciamento in sostegno del regno
una fanfara d’ipocrisia), possiamo dire senza dubbio di essere ad un
punto di svolta riguardo al futuro non solo della Siria ma di tutta la
regione. La posta in gioco è tale da non lasciare dubbi circa il
crescente pericolo che un’invasione di terra guidata dai sauditi stia
avvicinando il giorno in cui Iran e Russia impegneranno le loro stesse
truppe di terra in numero significativo.
Il secondo atto del conflitto in Siria si avvicina alla sua conclusione. Il terzo e ultimo atto sta per iniziare.
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Articolo di John Wight per Counter Punch, pubblicato da Russia Insider il 17 Febbraio 2016
Traduzione in Italiano a cura di Gregorio Ventura per Sakeritalia.it
Traduzione in Italiano a cura di Gregorio Ventura per Sakeritalia.it
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