Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta
solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi
vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti.
La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo
degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di
pochi oligarchi. Ne è convinto Guido Rossi, economista italiano e
storico “controllore” della Consob, l’agenzia di vigilanza borsistica.
La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica,
economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino
dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo
del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona
dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di
riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro,
quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato
di diritto.
C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, accusa Rossi in un editoriale sul “Sole 24 Ore” ripreso da “Micromega”: «Un erroneo concetto
di libertà ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le
prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è,
perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni
ufficio pubblico?». Questo sistema, continua Rossi, ha creato due
conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato
un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di
Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la
corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la
“London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa
non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che
«la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei
legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».
Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut
Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di
marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei
donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in
cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques
Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu
accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi.
Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard
Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per
creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso
cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un
compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per
governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si salva
nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith
Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.
«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani
della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente
legate», sottolinea Guido Rossi, e costituiscono «la conseguenza
principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia».
Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee,
diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche
ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto
delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure
gli Usa,
dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare
l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo
popolo», secondo le famose parole di James Madison. Nel suo
libro-denuncia del 2011 sulla “Repubblica perduta” (“Republic, Lost: How
Money Corrupts Congress – And a Plan to Stop It”), Lawrence Lessig
spiega che la “gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo
fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che
minaccia la democrazia
americana, secondo il grande filosofo Ronald Dworkin. Nel 2010 e poi il
2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto
costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza
limiti alle somme di denaro profuse».
Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia,
divenuta una sorta di sciarada». Così, osserva Rossi, emerge «un virus
distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a
confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la
corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza
sanzione», confermando l’intreccio tra politica
e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma
puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione
americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così
che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe
combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a
privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione
internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate
con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con
organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (Doj, Sec), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».
In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società
viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso
una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da
parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa
sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi
colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini
interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici
trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e
privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza
freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente
sanzionabili». Così, per Rossi, «la lotta contro le disuguaglianze e le
corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai
considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che
le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano
consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».
fonte:http://www.libreidee.org/2014/07/guido-rossi-conta-solo-il-denaro-la-democrazia-e-finita/
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