I conflitti globali sono sempre più alimentati dal desiderio di
ottenere Petrolio e Gas naturale (e i profitti che questi ultimi
generano)
L’Iraq, la Siria, la Nigeria, il Sud del Sudan,
l’Ucraina, l’Est e il Sud del Mar della Cina: ovunque si guardi, il
mondo è in fiamme, con nuovi conflitti o vecchi conflitti in via di
intensificazione. A prima vista, questi sconvolgimenti sembrano essere
eventi indipendenti, guidati da proprie circostanze, uniche e peculiari.
Ma se guardiamo più da vicino notiamo come essi condividano alcune
caratteristiche fondamentali - in particolare, un infuso stregato di
antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di
ebollizione dall’ossessione dell’Energia.
In ciascuno di questi conflitti, la lotta è guidata in gran parte
dall’irrompere di antagonismi di lunga data tra clan vicini (spesso
liberamente mischiati tra di loro), sette e popoli veri e propri.
In
Iraq e in Siria, si tratta di uno scontro tra sunniti, sciiti, curdi,
turcomanni e altri; in Nigeria tra musulmani, cristiani e gruppi tribali
variamente assortiti; nel Sud del Sudan tra i Dinka e i Nuer; in
Ucraina, tra lealisti ucraini e russofoni allineati con Mosca; nel Mar
della Cina orientale e meridionale, tra cinesi, giapponesi, vietnamiti,
filippini e altri. Sarebbe facile attribuire tutto ciò a odi secolari,
come suggerito da molti analisti; ma mentre tali ostilità aiutano
senz’altro a indirizzare questi conflitti, essi sono altresì alimentati
da un impulso più moderno: il desiderio di controllare le risorse
petrolifere e di gas naturale di pregio. Non bisogna ingannarsi su di
ciò, queste sono guerre del XXI secolo per l'Energia.
Non dovrebbe sorprendere il fatto che l’Energia giochi un ruolo
significativo in questi conflitti. Petrolio e gas sono, dopo tutto, le
più importanti e preziose materie prime del mondo e costituiscono una
fonte importante di reddito per i governi e le società che ne
controllano produzione e distribuzione.
Infatti, i governi di Iraq,
Nigeria, Russia, Sudan del Sud e Siria derivano la gran parte dei loro
ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche
(molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso
in questi e in altri paesi coinvolti. Chiunque controlli questi stati, o
le zone di produzione di gas e petrolio all'interno degli stessi, è in
grado di controllare anche la raccolta e la ripartizione di ricavi
cruciali [per l'economia degli stati stessi]. A dispetto dell'apparente
patina di inimicizie storiche, molti di questi conflitti, quindi, sono
in realtà lotte per il controllo della principale fonte di reddito
nazionale.
Viviamo inoltre in un mondo al cui centro c’è l’Energia in cui il
controllo delle risorse fossili (e dei loro vettori) si traduce in peso
geopolitico per alcuni stati e vulnerabilità economica per altri. Dal
momento che così tanti paesi dipendono dalle importazioni di Energia, le
nazioni proviste di surplus da esportarne - tra cui l'Iraq, la Nigeria,
la Russia e il Sudan del Sud - spesso esercitano un'influenza
sproporzionata [al loro reale peso specifico politico] sulla scena
mondiale. Ciò che accade in questi paesi, a volte, conta per noi almeno
tanto quanto per chi effettivamente ci viva e, pertanto, il rischio di
coinvolgimento esterno nel loro conflitti - sotto forma di interventi
diretti, trasferimenti di armi, invio di consiglieri militari o
assistenza economica - è superiore rispetto a quanto si fa nei confronti
di quasi tutte le altre nazioni [povere di risorse fossili].
La lotta per le risorse energetiche è stato un fattore evidente in
diversi conflitti recenti, tra cui la guerra Iran-Iraq del 1980-1988, la
Guerra del Golfo del 1990-1991, e la guerra civile sudanese del
1983-2005. A prima vista, il fattore legato ai combustibili fossili nei
più recenti focolai di tensione e di guerra può sembrare meno evidente.
Ma se si guarda più da vicino si vede che ognuno di questi conflitti è,
in effetti, una guerra per l'Energia.
L'Iraq, la Siria e l'ISIS
Lo Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS), il gruppo
estremista sunnita che controlla vaste porzioni della Siria occidentale e
dell'Iraq settentrionale è un milizia ben armata votata alla creazione
di un Califfato Islamico nelle zone sotto il suo controllo. Per certi
versi, si tratta di un'organizzazione religiosa fanatica e settaria, che
cerca di riprodurre la pura, incorrotta religiosità dei primissimi
tempi dell'Islam. Allo stesso tempo, l'ISIS è impegnata in un progetto
convenzionale di costruzione di una nuova nazione, volto alla creazione
di uno stato pienamente funzionante e con tutti i suoi attributi.
Come gli Stati Uniti hanno imparato con sgomento in Iraq e in
Afghanistan, le iniziative di nation-building [progetti di costruzione
da zero di una nazione distrutta, nelle fondamenta, da una guerra N.d.T]
sono costose: le istituzioni vanno create e finanziate, gli eserciti
reclutati e pagati, le armi e il carburante procurati e le
infrastrutture mantenute. Senza petrolio (o qualche altra redditizia
fonte di guadagno), l'ISIS non potrebbe mai sperare di raggiungere i
suoi ambiziosi obiettivi. Tuttavia, dal momento che essa occupa adesso
le aree chiave per la produzione del petrolio in Siria e gli impianti di
raffinazione del petrolio in Iraq, si trova in una posizione unica per
ottenerli. Il petrolio, quindi, è assolutamente essenziale per la grande
strategia dell'organizzazione.
La Siria non è mai stata una grande nazione produttrice di petrolio,
ma la sua produzione anteguerra, di circa 400.000 barili al giorno, ha
fornito al regime di Bashar al-Assad un'importante fonte di reddito. Al
momento, la maggior parte dei giacimenti petroliferi del Paese sono
sotto il controllo di gruppi ribelli, tra cui l'ISIS, il Fronte di Nusra
legato ad al-Qaeda e le milizie curde locali. Sebbene la produzione dai
giacimenti sia calata notevolmente, ne viene estratto e venduto
(attraverso vari canali clandestini) a sufficienza da fornire ai ribelli
una fonte di reddito e un capitale di esercizio. "La Siria è un paese
petroliferodi e dispone di risorse, ma in passato sono stati tutte
rubate dal regime", ha detto Abu Nizar, un attivista anti-governativo.
"Ora sono rubate da coloro che traggono profitto dalla rivoluzione."
In un primo momento, molti gruppi di ribelli sono stati coinvolti in
queste attività estrattive, ma da gennaio, quando assunse il controllo
di Raqqa, capoluogo della provincia omonima, l'ISIS è stato il
giocatore dominante nei campi petroliferi. Si è inoltre impadronita dei
campi nella vicina Deir al-Zour, provincia lungo il confine con l'Iraq.
Infatti, molte delle armi (fornite dagli USA all'esercito regolare)
sottratte all'esercito iracheno in fuga a seguito dell'avanzata a Mosul e
in altre città del nord Iraq sono stati trasferite a Deir al-Zour per
aiutare la campagna dell'ISIS volta a prendere il pieno controllo della
regione. In Iraq, l'organizzazione sta lottando per ottenere il
controllo della più grande raffineria dell'Iraq sita a Baiji, nella parte
centrale del paese.
Pare che l'ISIS venda petrolio proveniente dai giacimenti sotto il
suo controllo a oscuri intermediari che a loro volta organizzano il
trasporto - per lo più tramite autobotti - alla volta di acquirenti che
si trovano in Iraq, Siria e Turchia. Si dice che queste vendite
forniscano all'organizzazione i fondi necessari per pagare le sue truppe
e acquisire le sue vaste scorte di armi e munizioni. Molti osservatori
sostengono anche che l'ISIS stia vendendo petrolio al regime di Assad in
cambio di immunità dagli attacchi aerei governativi lanciati contro
restanti gruppi ribelli. "Molti locali a Raqqa accusano l'ISIS di
collaborazionismo con il regime siriano", ha riferito un giornalista
curdo, Sirwan Kajjo, ai primi di giugno. "Gli abitanti del posto dicono
che mentre gli altri gruppi ribelli a Raqqa sono stati abitudinariamente
sottoposti agli attacchi aerei del regime, il quartier generale
del'ISIS non è stato attaccato neanche una volta."
In qualsiasi modo gli attuali combattimenti nel nord dell'Iraq si
sviluppino, è ovvio che anche lì il petrolio sia fattore chiave. L'ISIS
mira sia a negare le forniture di petrolio e le entrate ad esso legate
al governo di Baghdad sia a sostenere le proprie casse, migliorando la
sua capacità di costruire una vera e propria nazione e facilitando
ulteriori progressi militari. Allo stesso tempo, i curdi e varie tribù
sunnite - alcuni di questi alleati con l'ISIS - vogliono il controllo
sui campi petroliferi situati nelle zone direttamente controllate e una
quota maggiore della ricchezza petrolifera della nazione.
L'Ucraina, la Crimea e la Russia
L'attuale crisi in Ucraina è iniziata nel novembre del 2013, quando
il presidente Viktor Yanukovich ha ripudiato un accordo teso a rendere
più stretti i legami economici e politici con l'Unione europea (UE),
optando invece per legami più stretti con la Russia. Tale atto ha
scatenato feroci proteste anti-governative a Kiev e, alla fine, ha
portato alla fuga di Yanukovych stesso dalla capitale. Con il principale
alleato di Mosca messo fuori gioco e le forze pro-UE che avevano asunto
il controllo della capitale, il presidente russo Vladimir Putin si
mosse per prendere il controllo della Crimea e per fomentare le spinte
separatiste nell'Ucraina orientale. Per entrambe le parti, la lotta che
ne è scaturita ha riguardato la legittimità politica e l'identità
nazionale - ma come in altri conflitti recenti, sullo sfondo c'era anche
la questione dell'Energia.
L'Ucraina non è di per sé un importante produttore di Energia.
Rimane, tuttavia, una via di transito importante per la fornitura di gas
naturale russo verso l'Europa. Secondo la statunitense Agenzia per le
Informazioni sull’Energia [Energy Information Administration o EIA, il
principale consigliere presidenziale per l’Energia NdT], nel 2013
l'Europa ha preso il 30% del suo gas dalla Russia - la maggior parte di
esso da Gazprom, gigante a controllo statale – con circa la metà di
questo gas che è stato trasportato in gasdotti stesi in Ucraina. Ne
consegue che il paese svolge un ruolo critico nelle relazioni
energetiche tra Europa e Russia, un ruolo che si è dimostrato sia
incredibilmente redditizio per le élite ombra e gli oligarchi che
controllano tale flusso sia, allo stesso tempo, fonte di intense
polemiche. Le controversie sul prezzo pagato dall’Ucraina per le proprie
importazioni di gas russo ha provocato per due volte tagli nelle
forniture di Gazprom, portando in quelle occasioni alla diminuzione
delle forniture verso l’Europa.
Dato per assodato questo contesto, non deve sorprendere il fatto che
un obiettivo fondamentale dell’"accordo di associazione" tra l'Unione
Europea e l'Ucraina, ripudiato da Yanukovich (e ora firmato dal nuovo
governo ucraino) preveda l'estensione delle norme energetiche dell'UE al
sistema energetico ucraino - eliminando di fatto i benevoli accordi
intercorsi tra le élite ucraine e Gazprom. Con la stipula del contratto,
sostengono i funzionari dell’UE, l'Ucraina inizierà "un processo di
ravvicinamento della propria legislazione sull'Energia alle norme e agli
standard dell'UE, facilitando così le riforme del mercato interno."
I leader russi hanno molte ragioni per disprezzare l'accordo di
associazione. Per prima cosa, esso consegnerà l'Ucraina, un paese posto
sui propri confini, a un’integrazione più stretta, sia politica sia
economica, con l'Occidente. Di particolare interesse, tuttavia, sono le
disposizioni riguardanti l'Energia, data la dipendenza economica della
Russia sulle vendite di gas in Europa - per non parlare della minaccia
che rappresentano per le fortune personali di élite russe
particolarmente ammanicate. Verso la fine del 2013 Yanukovich ha subito
un’immensa pressione da parte di Vladimir Putin affinché voltasse le
spalle all'UE e accettasse invece un'unione economica con la Russia e la
Bielorussia, un accordo che avrebbe protetto la status di privilegio
delle élite in entrambi i paesi. Tuttavia, muovendosi in questa
direzione, Yanukovich ha palesemente messo sotto i riflettori sulla
politica clientelare che aveva a lungo afflitto il sistema energetico
dell'Ucraina, innescando così le proteste in piazza dell'Indipendenza di
Kiev (il Maidan) che hanno portato alla sua caduta.
Una volta iniziate le proteste, una sequenza di eventi ha portato
all’attuale situazione di stallo, con la Crimea in mani russe, gran
parte dell'est sotto il controllo dei separatisti filo-russi e le aree
occidentali [definite come rump, groppa nel testo originale,
probabilmente a causa della forma geografica NdT] sempre più vicine
all'UE. In questa lotta tuttora in corso, l'identità politica ha giocato
un ruolo di primo piano, con i leader di tutte le fazioni a fare
appello alle lealtà nazionali ed etniche. L’Energia, nondimeno, rimane
un fattore importante nell'equazione. Gazprom ha ripetutamente alzato il
prezzo chiesto all'Ucraina per le importazioni di gas e il 16 giugno ha
interrotto del tutto l’approvvigionamento, sostenendo il mancato
pagamento delle passate consegne. Il giorno dopo, un'esplosione ha
danneggiato uno dei principali gasdotti che trasportano il gas russo
verso l'Ucraina - un evento ancora in fase di investigazione. Gli
accordi sul prezzo del gas rimangono una questione importante nei
negoziati in corso tra il neoeletto presidente ucraino, Petro
Poroshenko, e Vladimir Putin.
L’Energia ha persino giocato un ruolo chiave nella determinazione
della Russia di annettere la Crimea manu militari. Annettendo quella
regione, la Russia ha praticamente raddoppiato la regione off-shore [col
termine si indica la regione di proprietà esclusiva in cui poter
effettuare prospezioni e trivellazioni in mare NdT] sotto il suo
controllo nel Mar Nero, che si pensa possa ospitare miliardi di barili
di petrolio e vaste riserve di gas naturale. Prima della crisi, diverse
aziende petrolifere occidentali, tra cui ExxonMobil, negoziavano con
l'Ucraina per l'accesso a tali riserve. Ora, negozieranno con Mosca. "È
un grosso problema", ha detto Carol Saivetz, un esperto di problematiche
euroasiatiche presso il MIT. "in quanto priva l’Ucraina della
possibilità di sviluppare queste risorse e le consegna in mano russa."
La Nigeria e il Sudan del Sud
I conflitti in Sudan del Sud e Nigeria sono differenti per molti
aspetti, ma entrambi condividono un fattore chiave: la rabbia diffusa e
la sfiducia nei confronti dei funzionari governativi che sono diventati
ricchi, corrotti e dispotici grazie all'accesso alle abbondanti entrate
petrolifere.
In Nigeria, il gruppo di ribelli Boko Haram sta lottando per
rovesciare il sistema politico esistente e stabilire uno stato di stampo
puritano e governato da leggi Islamiche. Sebbene la maggior parte dei
Nigeriani denigrino i metodi violenti del gruppo (tra cui il sequestro
di centinaia di ragazze adolescenti avvenuto in una scuola statale),
Boko Haram ha tratto forza dal disgusto, proprio della parte
settentrionale e povera del paese, per il governo centrale sito nella
lontana Abuja, la capitale, considerato corrotto fino al midollo.
La Nigeria è il più grande produttore di petrolio in Africa, grazie a
un’estrazione giornaliera di circa 2,5 milioni di barili. Con il prezzo
del petrolio che veleggia intorno ai 100 dollari al barile, questo
rappresenta una fonte potenzialmente impressionante di ricchezza per la
nazione, persino al netto della parte presa dalle imprese private
coinvolte nelle routinarie operazioni estrattive. Se questi profitti -
stimati in decine di miliardi di dollari all'anno – venissero usati per
stimolare lo sviluppo e migliorare la sorte della popolazione, la
Nigeria potrebbe essere un grandioso faro di speranza per tutta
l'Africa. Invece, gran parte del denaro scompare nelle tasche (e
relativi conti bancari esteri) di élite nigeriane ben ammanicate.
Nel mese di febbraio, il governatore della Banca centrale della
Nigeria, Lamido Sanusi, ha detto a una commissione parlamentare
d'inchiesta che la Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC), di
proprietà statale, non era riuscita a trasferire circa 20 miliardi di
dollari ricavati dalla vendita di petrolio alla tesoreria nazionale,
come richiesto dalla legge. I soldi erano evidentemente stati deviati
verso conti privati. "Una notevole quantità di denaro è andato perduto",
ha detto al New York Times . "Non stavo parlando solo di numeri. Ho
dimostrato che era una frode. "
Per molti nigeriani - la maggior parte dei quali vive con meno di 2
dollari al giorno - la corruzione in Abuja, combinata con la brutalità
indiscriminata delle forze di sicurezza del governo è una fonte costante
di rabbia e risentimento, genera reclute per gruppi di insorti come
Boko Haram e vince l’ammirazione riluttante della popolazione. "Sanno
bene la frustrazione che è in grado di portare qualcuno a prendere le
armi contro lo stato", ha detto al National Geographic il giornalista
James Verini riguardo le persone che ha intervistato nelle aree
settentrionali della Nigeria, sfregiate dalla guerra. In questa fase, il
governo ha mostrato una capacità pari a zero di sopraffare
l'insurrezione, mentre la sua inettitudine e le tattiche militari
dell’uso della mano pesante gli hanno solo ulteriormente alienato le
simpatie dei Nigeriani comuni.
Il conflitto nel Sudan del Sud ha radici diverse da quello nigeriano,
ma condivide con quest’ultimo un collegamento legato all’Energia. Nei
fatti, la stessa formazione del paese è un prodotto della politica del
petrolio. La guerra civile in Sudan che durò dal 1955 al 1972 si è
conclusa solo quando il governo di matrice Islamica del nord ha
accettato di concedere più autonomia ai popoli del Sud del paese, in
gran parte praticanti le religioni tradizionali africane e il
Cristianesimo. Tuttavia, quando fu scoperto il petrolio nel Sud, i
governanti del Sudan del Nord ripudiarono molte delle loro precedenti
promesse e cercarono di ottenere il controllo dei giacimenti
petroliferi, scatenando una seconda guerra civile, che durò dal 1983 al
2005. Si stima che circa due milioni di persone abbiano perso la loro
vita solo in questi combattimenti. Alla fine, al Sud fu concessa piena
autonomia e il diritto di esprimersi mediante voto sulla secessione dal
governo centrale. A seguito di un referendum del gennaio 2011, in cui il
98,8% degli abitanti della parte meridionale della nazione ha votato a
favore della secessione, il Paese divenne indipendente il 9 luglio.
Il nuovo stato era appena stato fondato, tuttavia, che il conflitto
con il Nord per lo sfruttamento del suo petrolio riprese. Mentre il
Sudan del Sud ha petrolio in abbondanza, l'unico oleodotto che consente
al paese di esportarlo si distende nel Sudan del Nord verso il Mar
Rosso. Ciò ha garantito che la parte Sud sarebbe dipesa da quella Nord
per la principale fonte di entrate del governo. Furiosi per la perdita
dei giacimenti, il Sudan del Nord aumentò eccessivamente i prezzi di
trasporto del petrolio, causando un taglio nelle consegne di petrolio
dal Sud e sporadici atti di violenza lungo il confine ancora conteso tra
i due paesi. Infine, nel mese di agosto 2012, le due parti hanno
concordato una formula per condividere la ricchezza e il flusso di
petrolio è ripreso. I disordini sono comunque continuati in alcune zone
di confine controllate dal Sudan del Nord, ma popolato da gruppi legati
allo stato del Sud.
Essendosi assicurato il flusso di redditi da petrolio, il leader del
Sudan del Sud, il presidente Salva Kiir , ha cercato di consolidare il
suo controllo sul paese e tutti i proventi del petrolio. Sostenendo
l’imminenza di un tentativo di colpo di stato da parte dei suoi rivali,
guidato dal Vice Presidente Riek Machar, ha sciolto il suo governo
multietnico il 24 luglio del 2013 e ha iniziato ad arrestare gli alleati
di Machar. La lotta di potere che ne è risultata si è trasformata
rapidamente in una guerra civile su base etnica, con i parenti del
presidente Kiir, un Dinka, che combattono i membri del gruppo Nuer, di
cui Machar è membro. Nonostante i vari tentativi di negoziare un cessate
il fuoco, gli scontri sono in corso da dicembre, con migliaia di
persone uccise e centinaia di migliaia costrette ad abbandonare le
proprie case.
Come in Siria e in Iraq, gran parte dei combattimenti nel Sudan del
Sud si è concentrata intorno ai campi petroliferi, ritenuti vitali, con
entrambe le parti determinate a controllare e incamerare i profitti
generati. Intorno al marzo di quell’anno, mentre era ancora sotto il
controllo del governo, il campo Paloch nello stato del Nilo Superiore
produceva circa 150.000 barili al giorno, per un valore di circa 15
milioni di dollari per il governo e le compagnie petrolifere che vi
operavano. Le forze ribelli, guidati dall'ex Vice Presidente Machar,
stanno cercando di conquistare quei giacimenti al fine di negare tali
entrate al governo. "La presenza di forze fedeli a Salva Kiir in Paloch,
che è finalizzata all’acquisto di più armi per uccidere la nostra gente
... non è accettabile per noi", ha detto Machar in aprile. "Vogliamo
prendere il controllo del campo petrolifero. È il nostro petrolio".
Attualmente, il giacimento resta nelle mani del governo, con le forze
ribelli che, secondo alcune testimonianze, guadagnano terreno nelle
vicinanze.
Il Mar Cinese Meridionale
Sia
nel Mar Cinese Meridionale sia in quello Orientale, la Cina ei suoi
vicini rivendicano la proprietà di vari atolli e isole che si trovano a
cavallo di vaste riserve sottomarine di petrolio e di gas. Le acque di
entrambi hanno visto ricorrenti scontri navali nel corso degli ultimi
anni, con il Mar Cinese Meridionale recentemente sotto i riflettori.
Quel mare, una propaggine ricca di Energia del Pacifico occidentale,
da tempo oggetto di contesa, è circondato dalla Cina, dal Vietnam,
dall'isola del Borneo e dalle Filippine. Le tensioni hanno raggiunto il
picco in maggio, quando i cinesi schierarono il loro più grande impianto
di perforazione per acque profonde, l'HD-981, nelle acque rivendicate
dal Vietnam. Una volta nella zona di perforazione, circa 120 miglia
nautiche al largo della costa del Vietnam, i cinesi hanno circondato
l'HD-981 con una grande flotta di navi della marina e della guardia
costiera. Quando le navi della guardia costiera vietnamita hanno tentato
di penetrare all’interno di questo anello difensivo, nel tentativo di
scacciare l'impianto di perforazione, sono stati speronati dalle navi
cinesi e colpite con cannoni ad acqua. Non sono ancora state perse vite
in questi incontri, ma la rivolta anti-cinese vietnamita, in risposta
allo sconfinamento navale, ha lasciato parecchi morti e gli scontri in
mare sono destinato a continuare per diversi mesi fino a quando i cinesi
sposteranno l'impianto ad un’altra posizione (forse altrettanto
controversa).
I disordini e gli scontri innescati dal dispiegamento dell’HD-981
sono stati guidati in gran parte dal nazionalismo e dal risentimento per
le umiliazioni del passato. I cinesi, insistendo sul fatto che diverse
piccole isole nel Mar Cinese Meridionale una volta erano governate dal
loro paese, cercano ancora di superare le perdite e le umiliazioni
territoriali che hanno sofferto per mano delle potenze occidentali e del
Giappone imperiale. I vietnamiti, da tempo abituati alle invasioni
cinesi, cercano di proteggere ciò che considerano il loro territorio
sovrano. Per i cittadini comuni in entrambi i paesi, dimostrare
determinazione nella controversia è una questione di orgoglio nazionale.
Ma vedere la spinta cinese nel Mar Cinese Meridionale come una
semplice questione di impulsi nazionalistici sarebbe un errore. Il
proprietario dell’HD-981, la China National Offshore Oil Company
(CNOOC), ha condotto numerosi test sismici nella zona contesa e ritiene
evidentemente che ci sia un grande serbatoio di Energia lì. "Si stima
che nel Mar Cinese Meridionale ci siano dai 23 ai 30 miliardi di
tonnellate di petrolio e 16 trilioni di metri cubi di gas naturale, pari
a un terzo del totale delle risorse petrolifere e di gas della Cina ",
ha notato l'agenzia di stampa cinese Xinhua. Inoltre, la Cina ha
annunciato in giugno che è via di dislocazione un secondo impianto di
perforazione nelle controverse [in quanto reclamate da diverse nazioni]
acque del Mar Cinese Meridionale, questa volta alla foce del Golfo del
Tonchino.
Essendo il più grande consumatore mondiale di Energia, la Cina sta
cercando disperatamente di acquisire nuove forniture di combustibili
fossili ovunque sia possibile. Sebbene i suoi leader siano pronti ad
acquistare sempre maggiori quantità di petrolio e gas Africano, Russo e
mediorientale al fine di soddisfare le crescenti esigenze energetiche
della nazione, non deve sorprendere che essi preferiscano sviluppare e
sfruttare le forniture interne. Per loro, il Mar Cinese Meridionale non è
una fonte "straniera" di Energia, ma una cinese, e sembrano determinati
a usare qualsiasi mezzo necessario per assicurarselo. Dal momento che
anche altri paesi, tra cui il Vietnam e le Filippine, cercano di
sfruttare queste riserve di petrolio e gas, ulteriori scontri, in un
escalation dei livelli di violenza, sembrano quasi inevitabili.
Nessuna fine in vista per i combattimenti [per l’Energia]
Come questi conflitti e altri simili suggeriscono, la lotta per il
controllo degli asset strategici di tipo energetico o per la
distribuzione dei proventi del petrolio è un fattore critico nella
maggior parte del panorama bellico contemporaneo. Mentre le divisioni
etniche e religiose possono fornire il carburante politico e ideologico
di queste battaglie, è la potenziale di fare profitti mastodontici a
mantenere in vita le lotte. Senza la promessa di tali risorse, molti di
questi conflitti sarebbero alla fine morti per mancanza dei fondi
necessari a comprare le armi e pagare le truppe. Finché il petrolio
continua a scorrere, però, i belligeranti hanno sia i mezzi e sia
l’incentivo per continuare a combattere.
In un mondo legato a doppio
filo ai combustibili fossili, il controllo delle riserve di petrolio e
gas è una componente essenziale del potere nazionale. "Il petrolio
potenzia più di automobili e aeroplani," ha detto Robert Ebel del Centro
per gli Studi Strategici e Internazionali durante un audizione del
Dipartimento di Stato nel 2002. "Il petrolio potenzia la forza militare,
il Tesoro nazionale [inteso come economia e livello di spesa di uno
stato] e la politica internazionale." È molto più del normale commercio
di una materia prima, "è un fattore determinante del benessere, della
sicurezza nazionale e della potenza in campo internazionale per coloro
che possiedono questa risorsa vitale e il contrario per coloro che non
ne hanno."
Semmai ciò è ancora più vero oggi, e mentre le guerre per l'Energia
si estendono, la verità di questa asserzione diventerà ancora più
evidente. Un giorno, forse, lo sviluppo delle fonti rinnovabili di
Energia può far decadere questo detto. Ma nel nostro mondo attuale, se
si vede un conflitto in via di sviluppo, si cerchi una ragione legata
all’Energia. Sarà lì da qualche parte in questo nostro pianeta che va a
combustibili fossili
MICHAEL T. KLARE
TomDispatch.com
Michael T. Klare, un contributore
abitudinario di TomDispatch.com, è professore di studi sulla sicurezza e
la pace mondiali presso l’Hampshire College ed è autore, più
recentemente, di The Race for What’s Left [La corsa per ciò che è
rimasto NdT]. Una versione in videodocumentario del suo libro Blood and
Oil [Sangue e Petrolio] è disponibile presso la Media Education
Foundation.
Fonte: www.countercurrents.org/
Link: http://www.countercurrents.org/klare090714.htm
Traduzione per www.comedonchisciotte.or a cura di PG
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13648
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