lunedì 17 agosto 2015

La politica del petrolio saudita: brillante strategia o suicidio nazionale?

 
La rischiosa mossa sul prezzo del petrolio dell’Arabia Saudita ha ridotto il reddito nazionale della metà e teso seriamente politica interna ed estera del Regno  

Nell’ultimo trimestre del 2014, a fronte di un possibile eccesso di offerta, l’Arabia Saudita abbandonava il tradizionale ruolo di produttore bilanciato del mercato mondiale del petrolio e quindi il ruolo non ufficiale di garante dei prezzi esistenti (oltre 100 dollari al barile). A ottobre, fonti saudite preparavano il mercato con dichiarazioni sul Paese che accettava prezzi petroliferi da 80 dollari al barile in su per “un anno o due”. Nella riunione di novembre dell’OPEC, il ministro del petrolio saudita Ali al-Naymi annunciava che l’Arabia Saudita avrebbe permesso alle forze del mercato di fissare i prezzi, sostenendo che la rapida crescita della produzione al di fuori dell’OPEC rendeva lo status quo impraticabile, e che i prezzi più bassi nel breve termine sarebbero aumentati a lungo termine riducendo gli investimenti, infine, a beneficio di tutti i membri dell’OPEC. Parallelamente funzionari sauditi espressero fiducia nei mezzi finanziari del proprio Paese nel sopportare le ripercussioni dei prezzi del petrolio più bassi.

I sauditi si aspettavano un buco, non un pozzo senza fondo
I sauditi ovviamente calcolarono male l’impatto negativo dei prezzi del petrolio. Il prezzo medio del Brent, punto di riferimento globale, scese al di sotto degli 80 dollari del piano saudita, a novembre, a 62,34 dollari a dicembre per poi cadere sotto i 50 a febbraio. I prezzi rimbalzarono a 60 per un paio di mesi prima di cadere ancora una volta al di sotto dei 50 dollari. Il crollo dei prezzi del petrolio ha sostanzialmente ridotto i ricavi sauditi. Con i prezzi del Brent in media a circa 100 dollari al barile nel 2014, le esportazioni di petrolio saudita erano di 6310000 barili al giorno, generando circa 631 milioni di ricavi al giorno.

Nel primo trimestre, con i prezzi del Brent a 53,92 dollari la stessa produzione avrebbe generato circa 340 milioni di dollari al giorno, 291 milioni in meno. I sauditi hanno tentato di mitigare il crollo degli introiti attraverso l’aumento della produzione, passando da 9,6 milioni di barili al giorno nel quarto trimestre del 2014 agli incredibili 10,5 milioni di barili al giorno a giugno.

Le entrate derivanti dall’aumento della produzione, tuttavia, sono sopraffatte dal crollo dei prezzi creando un sostanzioso buco nel bilancio saudita. Nel dicembre 2014, il governo saudita approvò una spesa di 229 miliardi di dollari per il 2015, con un conseguente deficit stimato a 39 miliardi di dollari, il 5 per cento del PIL. Verso metà 2015, il FMI ha stimato un deficit pari a circa il 20 per cento del PIL saudita. Il Financial Times ha citato analisti stimare il deficit di bilancio saudita nel 2015 a 130 miliardi di dollari. Anche con un massiccio deficit spending, la crescita del PIL stimata dal FMI sarebbe rallentata dal 3,6 per cento nel 2014 al 3,3 per cento nel 2015, e quindi al 2,7 per cento nel 2016.

Verso il barile a zero dollari

arabia+oil+fields+image L’errore di calcolo saudita ha diverse ragioni. Uno è l’anello della retroazione negativa tra produzione di olio, PIL e bilanci nazionali che affligge molti produttori di petrolio non occidentali. I loro PIL e bilanci nazionali dipendono notevolmente dai ricavi dalle esportazioni di petrolio. Perciò, le minori entrate l’incentivano a produrre più petrolio possibile per mitigare il deficit. Secondo l’IEA, la produzione giornaliera nel giugno 2015 è aumentata di 3,1 milioni di barili dal 2014, con il 60 per cento (1,8 milioni di barili) dell’OPEC. Con 31,7 milioni di barili al giorno, la produzione dell’OPEC ha raggiunto il picco in tre anni. Tale incremento della produzione avviene nel contesto della riduzione della domanda globale. La crescita della domanda nel 2015, che l’AIE prevedeva in media di circa 1,4 milioni di barili al giorno, avviene principalmente in Asia e Nord America. Negli altri principali mercati d’esportazione, la domanda è stagnante.

Quindi i Paesi esportatori di petrolio, compresi OPEC, Russia ed altri, concentrano le vendite in Asia, in particolare Cina. La domanda in Nord America è in crescita, ora che i prezzi del petrolio sono bassi, ma a causa degli alti livelli della produzione nazionale, gli Stati Uniti non sono più un mercato in crescita per gli esportatori di petrolio.

Ciascun produttore, quindi, è incentivato a eliminare gli altri produttori direttamente (prezzo al barile) o indirettamente (assorbendo costo dei trasporti o rischio delle spedizioni) per strappare le vendite in Asia (o dislocare gli attuali operatori su altri importanti mercati). I produttori di petrolio nazionali scaricano il costo dei prezzi abbassati su altri settori dell’economia. Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, hanno tolto i sussidi sul carburante, in sostanza aumentando le entrate del bilancio, mentre l’Arabia Saudita ha recentemente emesso un’offerta obbligazionaria nazionale da 4 miliardi per contribuire a finanziare il bilancio. I clienti asiatici ne approfittano, riducendo la quota dei contratti a lungo termine a favore degli acquisti mirati.

Ad esempio, come il Wall Street Journal ha riportato, alcuni raffinatori giapponesi riducono la percentuale di petrolio acquistato con contratti a lungo termine a circa il 70 per cento da più 90 per cento, mentre alcuni raffinatori sudcoreani la riducono dal 75 al 50 per cento. Inoltre, diverse compagnie petrolifere nazionali, anche del Venezuela, costruiscono raffinerie con i partner asiatici che useranno il loro greggio. Dato il contesto, non sorprende che l’elasticità delle entrate della produzione sia molto sensibile e negativa. L’Arabia Saudita ha aumentato la produzione del 6,8 per cento nel primo trimestre del 2015, ma ha visto i proventi delle esportazioni ridursi del 42 per cento.

Ogni vittoria saudita sarà di Pirro
La fiducia saudita nei propri mezzi finanziari si dimostra fuori luogo. Il fabbisogno delle entrate s’intensifica anziché moderare. Combattono guerre su più fronti con l’Iran direttamente (Yemen) e indirettamente (Siria, Libano e Iraq). SIIL, al-Qaida e gli sciiti scontenti rappresentano una significativa minaccia alla sicurezza interna. Contrastare le minacce estere e interne richiede l’aumento della spesa (tra cui, forse, un futuro e assai costoso programma di armi nucleari) placando la rapida crescita demografica, che richiede una spesa sostanziale per istruzione, formazione, occupazione e sostegno.

Da qui il deficit di bilancio pari al 20 per cento del PIL. L’aumento della produzione non offre una soluzione. L’Arabia Saudita non può aumentare la produzione in misura sufficiente per ridurre significativamente il deficit in qualsiasi momento. Attualmente non ha una riserva per compensare i 291 milioni di export quotidiano perso nel 1° trimestre; con 5,4 milioni in più di barili al giorno, sarebbero necessari 53,92 dollari al barile.

Prezzi che, naturalmente, un drastico aumento della produzione ridurrebbe ancora più. È dubbio che possano aumentare sensibilmente la capacità anche nel medio-lungo termine. Non potranno spendere molto più delle altre grandi compagnie petrolifere nazionali. In primo luogo, i prezzi bassi riducono il flusso di cassa dell’Aramco e quindi la capacità di finanziare gli investimenti. In secondo luogo, il governo saudita probabilmente aumenterà l’estrazione da tale flusso di cassa per finanziare ancor più priorità ed esigenze della sicurezza nazionale. In terzo luogo, il rifiuto saudita di agire da garante dei prezzi mina la fiducia estera sulla necessità d’investire o fare prestiti sui progetti petroliferi.

Ciò sarebbe attraente a 75 dollari al barile, ma non a 50 dollari, e ancora meno se il prezzo del petrolio resta imprevedibile. In quarto luogo, in termini di rischio politico, Arabia Saudita ed alleati del Golfo, Iran, Iraq e Medio Oriente in generale, sono l’epicentro della tensione, agitazione e tumulti globali. In quinto luogo, la sua influenza nell’OPEC, e quindi la capacità di gestire produzione e prezzi dell’OPEC, è diminuita. La sottostima dell’impatto del cambio della politica dei prezzi, l’indifferenza verso i danni finanziari agli altri membri dell’OPEC e la volontà di sottrarre quote di mercato a scapito degli altri membri dell’OPEC, ne riducono la credibilità (tanto più che deriva dalla volontà saudita di tutelare gli interessi di tutti i membri, e talvolta di sopportare in modo sproporzionato).

Se le riserve finanziarie saudite sono sostanziose (circa 672 miliardi a maggio), il piano è poco più di una misura tampone. Se i principali concorrenti (Russia, Iraq, Iran e Nord America) mantengono o addirittura aumentano la produzione (e hanno l’incentivo per farlo), i prezzi potrebbero rimanere bassi molto più a lungo di quanto previsto dai sauditi. La riserve saudite sono diminuite a 650 miliardi da quando i prezzi scendono (da novembre), con un tasso annuale di 100/130 miliardi. Più bassi rimangono i prezzi, più velocemente le riserve decadono e, mentre precipitano, maggiore sarà la pressione per dare priorità alla spesa a danno di certi sauditi.

L’Arabia Saudita causa il problema, ma può risolverlo?
Funzionari sauditi a quanto pare avevano detto che 90 o anche 80 dollari al barile per “uno o due anni” erano equanimi. Possono mantenere la compostezza che hanno mostrato finora, incorrendo in un solo anno nella perdita delle entrate che si aspettavano di avere in quattro anni (90 dollari) o due (80 dollari)? E non possono, e sicuramente non possono anche se sono restii ad ammetterlo, architettare l’aumento durevole dei prezzi, cioè, ridurre in modo durevole la produzione?

A prima vista sembra impossibile. La produzione giornaliera saudita (10,5 milioni) e degli alleati Emirati Arabi Uniti (2,87), Quwayt (2,8) e Qatar (0,67) è pari a circa alla produzione giornaliera dei Paesi con cui sono in conflitto, direttamente o indirettamente, Russia (11,2), Iran (2,88) e Iraq (3,75) che hanno l’incentivo a trarre vantaggio da qualsiasi concessione unilaterale saudita

Eppure, in effetti, questi Paesi sono impegnati nell’equivalente petrolifero della mutua distruzione assicurata. Il forte calo dei proventi del petrolio danneggia economicamente e finanziariamente ciascuno di essi, mentre le guerre dirette e indirette contro gli altri drena risorse dai programmi nazionali vitali. Tuttavia, data la sensibilità dei prezzi alle variazioni del volume è possibile, se non probabile, che mantenere la produzione saudita stabile o ridurla, potrebbe generare un aumento assoluto dei ricavi per tutti.

Dalan McEndree, Oil Price 13 agosto 2015 – Russia Insider
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Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

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