lunedì 28 settembre 2015

Tutto è Tao

 
Che la nostra vita sia un istante di dissolvimento, in cui non c’è nulla e nessuno da afferrare, è il modo negativo di esprimere qualcosa che può essere anche espresso positivamente. Ma il modo positivo di esprimere questo concet­to non è affatto così efficace e potente, e può portare facil­mente a malintesi. La sensazione che ci sia qualcosa da af­ferrare riposa sull’apparente dualità di ‘Io’ ed esperienza.

Ma la ragione per cui non c’è nulla da afferrare sta nel fat­to che questa dualità è solo apparente, cosicché il tentativo di “mordere” la realtà è paragonabile a quello di mordersi un dente con un altro dente. Una volta compreso questo fatto, si può comprendere altresì che il soggetto e l’oggetto, il sé e il mondo, sono un’unità o, più precisamente, una “non-dualità”, dato che la parola “unità” potrebbe essere intesa come esclusione della diversità.

Scompare così il senso dell’abissale distanza tra l’Io e il mondo, e la propria vita, intima e soggettiva, non sembra più separata e lontana da tutto il resto, dall’esperienza complessiva del flusso della natura. Diventa semplice, evi­dente, che “tutto è Tao”, un processo integrato, armonioso e universale dal quale è assolutamente impossibile devia­re. La sensazione è a dir poco meravigliosa, sebbene non ci sia una ragione logica per questo, salvo che essa non si debba ricercare, forse, nel sollievo connesso al sentirsi li­beri dall’esigenza cronica di doversi “confrontare” con la realtà. Da quel momento in poi, infatti, non ci si confronta più con la realtà. Semplicemente la si è.

Quando gli uomini giungono a provare questa sensazione, in modo spesso del tutto inaspettato, sono ten­tati immediatamente di attendersi da essa ogni genere di risultati, un atteggiamento che spesso fa sì che la sensazio­ne svanisca con la stessa rapidità con cui è comparsa. Gli uomini si aspettano che questa sensazione cambi loro il carattere, li renda migliori, più forti, più saggi, più felici. Poiché credono di aver afferrato qualcosa di inestimabile, se ne vanno in giro soddisfatti quasi avessero ereditato una fortuna.

A un maestro zen fu chiesto, un giorno: “Qual è la cosa più preziosa al mondo?”. Ed egli rispose: “La testa di un gatto morto”. “Perché?” “Perché nessuno può attribuirle un prezzo.” La comprensione dell’unità del mondo è come la testa di quel gatto morto. È la cosa più inestimabile, più inconseguente di tutte. Non dà risultati, non ha implicazio­ni né senso logico. Non se ne può ricavare alcunché, poiché è impossibile assumere una posizione al di fuori di essa da cui sporgersi ed estrarre qualcosa.

L’intera nozione di “ac­quisizione”, “guadagno”, sia che si tratti di ricchezza, di saggezza o di verità, si rivela un circolo vizioso, come cer­care di placare i morsi della fame divorando se stessi a par­tire dalle dita dei piedi. E del resto, è proprio quello che facciamo comunque, dato che in realtà non c’è differenza alcuna tra le dita dei nostri piedi e un’anatra arrosto: la soddisfazione è in ogni caso momentanea.

Ecco perché il Buddha disse al suo discepolo Subhuti: “Non ho guadagnato assoluta­mente nulla dal perfetto e insuperato Risveglio”. D’altro canto, però, se non vi è nessuna attesa, nessuna ricerca di risultati, e non si ottiene nulla oltre a questa “testa di gatto morto”, ecco che, improvvisamente e gratuitamente, miracolosamente e senza ragione alcuna, scopriamo esserci molto più di quanto ciascuno abbia mai cercato.

Non è questione di rinunciare e di reprimere il desiderio – quelle sono le trappole con cui gli astuti cercano di catturare Dio. Non si può rinunciare alla vita, per la stessa ragione per cui non si acquisisce nulla da essa. Come vien detto nel Cheng-tao Ke:
Non puoi prenderne possesso,
ma non puoi perderlo.
Nel non poterlo prendere, lo prendi.
Quando tu taci, esso parla.
Quanto tu parli, esso tace.
Del resto, anche ciò che spesso si dice, ovvero che cer­care il Tao è perderlo, dato che il cercare pone una distan­za tra chi cerca e l’oggetto cercato, non è del tutto vero, co­me balza all’occhio quando cerchiamo spasmodicamente di non cercare, non desiderare, non afferrare. Nei confron­ti del Tao, molto semplicemente, non c’è atteggiamento sbagliato, poiché non c’è un punto al di fuori di esso da cui prendere un atteggiamento. L’apparente separazione del sé soggettivo è anche questa un’espressione del Tao, chiara e netta come il contorno di una foglia.

Alan Watts

Alan Watts 2



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