Ma la ragione per cui non c’è nulla da afferrare sta nel fatto che questa dualità è solo apparente, cosicché il tentativo di “mordere” la realtà è paragonabile a quello di mordersi un dente con un altro dente. Una volta compreso questo fatto, si può comprendere altresì che il soggetto e l’oggetto, il sé e il mondo, sono un’unità o, più precisamente, una “non-dualità”, dato che la parola “unità” potrebbe essere intesa come esclusione della diversità.
Scompare così il senso dell’abissale distanza tra l’Io e il mondo, e la propria vita, intima e soggettiva, non sembra più separata e lontana da tutto il resto, dall’esperienza complessiva del flusso della natura. Diventa semplice, evidente, che “tutto è Tao”, un processo integrato, armonioso e universale dal quale è assolutamente impossibile deviare. La sensazione è a dir poco meravigliosa, sebbene non ci sia una ragione logica per questo, salvo che essa non si debba ricercare, forse, nel sollievo connesso al sentirsi liberi dall’esigenza cronica di doversi “confrontare” con la realtà. Da quel momento in poi, infatti, non ci si confronta più con la realtà. Semplicemente la si è.
Quando gli uomini giungono a provare questa sensazione, in modo spesso del tutto inaspettato, sono tentati immediatamente di attendersi da essa ogni genere di risultati, un atteggiamento che spesso fa sì che la sensazione svanisca con la stessa rapidità con cui è comparsa. Gli uomini si aspettano che questa sensazione cambi loro il carattere, li renda migliori, più forti, più saggi, più felici. Poiché credono di aver afferrato qualcosa di inestimabile, se ne vanno in giro soddisfatti quasi avessero ereditato una fortuna.
A un maestro zen fu chiesto, un giorno: “Qual è la cosa più preziosa al mondo?”. Ed egli rispose: “La testa di un gatto morto”. “Perché?” “Perché nessuno può attribuirle un prezzo.” La comprensione dell’unità del mondo è come la testa di quel gatto morto. È la cosa più inestimabile, più inconseguente di tutte. Non dà risultati, non ha implicazioni né senso logico. Non se ne può ricavare alcunché, poiché è impossibile assumere una posizione al di fuori di essa da cui sporgersi ed estrarre qualcosa.
L’intera nozione di “acquisizione”, “guadagno”, sia che si tratti di ricchezza, di saggezza o di verità, si rivela un circolo vizioso, come cercare di placare i morsi della fame divorando se stessi a partire dalle dita dei piedi. E del resto, è proprio quello che facciamo comunque, dato che in realtà non c’è differenza alcuna tra le dita dei nostri piedi e un’anatra arrosto: la soddisfazione è in ogni caso momentanea.
Ecco perché il Buddha disse al suo discepolo Subhuti: “Non ho guadagnato assolutamente nulla dal perfetto e insuperato Risveglio”. D’altro canto, però, se non vi è nessuna attesa, nessuna ricerca di risultati, e non si ottiene nulla oltre a questa “testa di gatto morto”, ecco che, improvvisamente e gratuitamente, miracolosamente e senza ragione alcuna, scopriamo esserci molto più di quanto ciascuno abbia mai cercato.
Non è questione di rinunciare e di reprimere il desiderio – quelle sono le trappole con cui gli astuti cercano di catturare Dio. Non si può rinunciare alla vita, per la stessa ragione per cui non si acquisisce nulla da essa. Come vien detto nel Cheng-tao Ke:
Non puoi prenderne possesso,Del resto, anche ciò che spesso si dice, ovvero che cercare il Tao è perderlo, dato che il cercare pone una distanza tra chi cerca e l’oggetto cercato, non è del tutto vero, come balza all’occhio quando cerchiamo spasmodicamente di non cercare, non desiderare, non afferrare. Nei confronti del Tao, molto semplicemente, non c’è atteggiamento sbagliato, poiché non c’è un punto al di fuori di esso da cui prendere un atteggiamento. L’apparente separazione del sé soggettivo è anche questa un’espressione del Tao, chiara e netta come il contorno di una foglia.
ma non puoi perderlo.
Nel non poterlo prendere, lo prendi.
Quando tu taci, esso parla.
Quanto tu parli, esso tace.
Alan Watts
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