Gli
antichi egiziani lo sapevano e, in fondo, ce lo avevano detto. Un papiro
racconta di un «ferro piovuto dal cielo». Ma il mistero dell’origine di
uno dei due pugnali trovati insieme alla mummia del faraone bambino,
Tutankhamon, ha diviso gli studiosi fin da quando, nel 1925, fu aperto
il sarcofago custodito nella Valle dei Re.
A mettere
la parola fine alla disputa è una ricerca italo-egiziana, nata anche
dopo il ritrovamento di un cratere. Tra i tanti misteri e le
superstizioni legati al faraone, a partire dalla maledizione che avrebbe
colpito chi avesse profanato la sua tomba, almeno un’incognita è stata
risolta. Con la fluorescenza a raggi X, gli scienziati hanno tolto ogni
dubbio: il ferro della lama di quel pugnale arriva dallo spazio.
«Gli
oggetti egizi di ferro sono pochissimi, non avevano sviluppato la
metallurgia del ferro e non c’erano cave. Così, era considerato più
prezioso dell’oro», spiega Francesco Porcelli, professore di Fisica al
Politecnico di Torino. «Per questo il ritrovamento del pugnale di
Tutankhamon aprì un dibattito».
A stupire era anche la grande qualità
della manifattura, segno della capacità nella lavorazione del ferro
raggiunta già allora. Il pugnale, di circa 35 centimetri e per nulla
arrugginito, era infilato tra le bende della mummia, per prepararsi
all’incontro con l’aldilà: basti a dire quanto era ritenuto prezioso.
C’erano
studiosi che già sostenevano si trattasse di un meteorite, mentre altri
pensavano che fosse stato importato: in Anatolia nel XIV secolo a. C.,
quando visse Tutankhamon, il ferro c’era già. «Incredibilmente, però,
finora nessuno aveva fatto analisi».
Porcelli è
stato, per otto anni fino al 2014, addetto scientifico all’ambasciata
italiana al Cairo e ha messo insieme il progetto di studio, portato
avanti dagli esperti sui meteoriti dell’Università di Pisa, il
Politecnico di Milano e un suo spin-off, la ditta XGLab, insieme con il
Politecnico di Torino, il Cnr e per parte egiziana il Museo del Cairo e
l’Università di Fayyum. L’iniziativa è stata finanziata dal ministero
degli Esteri italiano e da quello della Ricerca scientifica egiziano.
L’antefatto
di questa storia è la scoperta nel 2010, che finì sulla rivista
Science, del Kamil Crater nel mezzo del deserto egiziano. Si tratta di
un piccolo «cratere lunare», rarissimo sul nostro pianeta, perché di
norma l’erosione cancella i segni degli impatti dei meteoriti.
A quella
spedizione parteciparono tra gli altri gli studiosi di Pisa e
dell’osservatorio astronomico di Pino Torinese. «Quando fu scoperto il
cratere, parlammo del mai risolto interrogativo sul pugnale sulla mummia
del giovane faraone della diciottesima dinastia, e decidemmo di fare le
analisi, superando un po’ di riluttanza delle autorità egiziane, che
giustamente custodiscono gelosamente i reperti», spiega Porcelli.
Ma
come si è arrivati a stabilire che si tratta di un metallo alieno? Dalla
composizione: il ferro infatti contiene nichel al 10% e cobalto allo
0,6: «Sono le concentrazioni tipiche dei meteoriti. Pensare che possa
essere il frutto di una lega, in queste concentrazioni, è impossibile».
La strumentazione utilizzata sul reperto in Egitto non è stata invasiva,
la fluorescenza a raggi X, poi i dati e i risultati sono stati
analizzati in Italia. Il progetto bilaterale, iniziato nel 2014 e
terminato con la pubblicazione in questi giorni, forse non sarebbe più
possibile nell’Egitto di oggi. «Dopo il caso Regeni e il caos di questi
mesi», racconta Porcelli, che sulla sua pagina Facebook ha l’appello
perché si faccia chiarezza sul ricercatore ucciso, «molti studiosi non
vogliono più partire per l’Egitto. Si è rotto un rapporto di fiducia.
Spero che il seme delle primavere arabe torni a fiorire, intanto questo
pugnale può essere un piccolo segno di quella collaborazione che
dobbiamo tornare a intessere».
Redazione Segnidalcielo
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