Gli Stati Uniti aumentano gli ostacoli tentando di mantenere l’egemonia del dollaro come valuta di riserva mondiale. Negli ultimi mesi, i Paesi emergenti hanno venduto un molti buoni del tesoro degli USA, principalmente Russia e Cina, ma anche Arabia Saudita. Inoltre, per proteggersi dalle violente fluttuazioni del dollaro, le banche centrali di diversi Paesi acquistano enormi quantità di oro per diversificare le riserve valutarie. In breve, l’offensiva globale nei confronti del dollaro è esplosa attraverso la vendita massiccia di debito degli Stati Uniti e, in parallelo, l’acquisto colossale di metalli preziosi.
La supremazia di Washington nel sistema finanziario globale ha subito
un colpo tremendo ad agosto: Russia, Cina e Arabia Saudita vendevamo
titoli del Tesoro degli Stati Uniti per 37,9 miliardi di dollari,
secondo l’ultimo aggiornamento dei dati ufficiali pubblicato da pochi
giorni. Dal punto di vista generale, gli investimenti globali nel debito
pubblico degli Stati Uniti sono al livello minimo dal luglio 2012.
Chiaramente, il ruolo del dollaro a valuta di riserva mondiale è ancora
messo in discussione. Nel 2010, l’ammiraglio Michael Mullen, presidente
del Joint Chiefs of Staff statunitense, avvertì che il debito era la
principale minaccia alla sicurezza nazionale.
A mio avviso, non è tanto
l’alto debito pubblico (oltre i 19000 miliardi) ad ostacolare l’economia
degli Stati Uniti, ma per Washington è di fondamentale importanza
garantirsi un enorme flusso di risorse estere ogni giorno, per coprire i
deficit gemelli (commercio e bilancio); cioè per il dipartimento del
Tesoro è questione di vita o di morte vendere titoli di debito nel mondo
e così finanziare le spese degli USA.
Si ricordi che dal fallimento di
Lehman Brothers nel settembre 2008, Bank of China ha subito forti
pressioni da Ben Bernanke, allora presidente della Federal Reserve
(FED), a non vendere i titoli del debito degli Stati Uniti. In un primo
momento, i cinesi decisero di mantenere il dollaro. Tuttavia, da allora,
per due volte, la PBoC evitava di acquistare altri titoli degli Stati
Uniti e, allo stesso tempo, avviava un piano per diversificare le
riserve valutarie. Pechino acquista oro in maniera massiccia negli
ultimi anni, e lo stesso fa la banca centrale della Russia. Nel secondo
trimestre del 2016, le riserve auree della Banca di Cina hanno raggiunto
le 1823 tonnellate contro le 1762 tonnellate registrate nell’ultimo
trimestre del 2015.
La Federazione Russa ha aumentato le riserve auree
di circa 290 tonnellate tra dicembre 2014 e giugno 2016, chiudendo il
secondo trimestre di quest’anno con un totale di 1500 tonnellate. Di
fronte ai brutali scossoni del dollaro è fondamentale acquistare asset
più sicuri come l’oro che, in tempi di grave instabilità finanziaria,
agisce da rifugio sicuro. Quindi la strategia di Mosca e Pechino nel
vendere titoli del Tesoro degli USA e comprare oro, viene seguita da
molti Paesi. Come stimato dal Fondo monetario internazionale (FMI), le
riserve auree delle banche centrali nel mondo hanno già raggiunto il
massimo degli ultimi 15 anni, registrando ai primi di ottobre un volume
di circa 33000 tonnellate.
La geopolitica fa la sua parte nel plasmare il nuovo ordine finanziario mondiale. Dopo l’imposizione delle sanzioni economiche al Cremlino, a partire dal 2014, il rapporto con la Cina ha avuto grande rilevanza per i russi. Da allora, le due potenze hanno approfondito i legami in tutti i settori, dall’economia e finanza alla cooperazione militare. Inoltre, assicurando la fornitura di gas alla Cina per i prossimi tre decenni, il Presidente Vladimir Putin ha costruito con l’omologo Xi Jinping una potente alleanza finanziaria che cerca di porre fine una volta per tutte al dominio della moneta statunitense. Attualmente, gli idrocarburi che Mosca vende a Pechino sono pagati in yuan, non dollari.
Così, la “moneta
del popolo” (‘renminbi’ in cinese) emerge gradualmente nel mercato
mondiale degli idrocarburi con il commercio tra Russia e Cina, Paesi
che, a mio parere, guidano la costruzione del sistema monetario
multipolare. La grande novità è che alla corsa per la dedollarizzazione
dell’economia globale si è unita l’Arabia Saudita, Paese per decenni
fedele alleato della politica estera di Washington. Sorprendentemente,
negli ultimi 12 mesi Riad s’è sbarazzata di più di 19 miliardi di
dollari investiti in titoli del Tesoro degli Stati Uniti, divenendo
insieme alla Cina uno dei principali venditori di debito degli Stati
Uniti.
A peggiorare le cose, il regno saudita si accanisce sempre più
con la Casa Bianca. A fine settembre, il Congresso degli Stati Uniti
approvava l’eliminazione del veto del presidente Barack Obama ad una
legge che impediva negli USA di denunciare l’Arabia Saudita in tribunale
per il presunto coinvolgimento negli attentati dell’11 settembre 2001.
In risposta, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori del Petrolio (OPEC)
ha raggiunto un accordo storico con la Russia per ridurre la produzione
di petrolio e quindi promuovere l’aumento dei prezzi.
E’ anche
sorprendente che giusto oggi Pechino abbia aperto allo scambio diretto
tra yuan e riyal saudita attraverso il Trading System Foreign Exchange
della Cina (CFETS, nell’acronimo inglese) per le transazioni tra le due
valute senza passare dal dollaro. Di conseguenza, è molto probabile
che, più prima che poi, la compagnia petrolifera Saudi Aramco accetti
pagamenti in yuan invece che dollari. Se si accadesse, la Casa dei Saud
punterebbe tutto sul petroyuan. Il mondo cambia davanti ai nostri occhi…
Ariel Noyola Rodriguez* Russia Today
*Economista laureato presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM).
*Economista laureato presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM).
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Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
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