Il commentariato liberale,
sia esso negli USA o in Russia, risponde nello stesso modo intollerante e
non democratico alle sconfitte elettorali dei suoi candidati,
ridicolizzando e denigrando la massa di elettori che non la pensano come
loro e lasciando intendere che ci sia qualcosa di illegittimo nel modo
in cui votano.
Mi domando che nome dovremmo dare a
tutti i commentatori anti-Trump che hanno giurato di lasciare gli Stati
Uniti in caso di una sua vittoria alle elezioni, e che ora dipingono
immagini distopiche di come sarà la “vita con Trump”: Trumprofughi?
Hillarefusenik? [NdT:Refusenik]
Qualunque sia il nome, le cose che
queste persone stanno scrivendo e dicendo PER INERZIA (la battaglia è
stata persa) sono sorprendenti.
David Remnick, che per molti anni è stato il capo redattore del New Yorker scrive:
Per la repubblica americana l’elezione di Donald Trump alla presidenza non è altro che una tragedia, una tragedia per la Costituzione ed un trionfo per le forze, in casa e all’estero, della xenofobia, dell’autoritarismo, della misoginia e del razzismo. La scioccante vittoria di Trump e la sua ascesa alla presidenza sono degli eventi rivoltanti nella storia degli Stati Uniti e della democrazia liberale.
Paul Krugman, il prolifico giornalista
del New York Times, ha descritto Hillary Clinton come “gradevole”,
nonostante il suo appoggio ai molti sgradevoli bombardamenti in
Afghanistan e in Libia, e l’America come “Stato e società falliti”, solo
perché il SUO candidato non ha vinto.
La lista delle geremiadi anti-Trump può continuare ancora e ancora, con un gran numero di liberali russi che si uniscono al coro.
Un esperto anti-Putin quale Alexei Makarkin ha riferito alla Nezavisimaya Gazeta
la sua delusione per la largamente predetta “crisi del partito
repubblicano” che non ha mai avuto luogo. A dire il vero, è stata
rimpiazzata dalla crisi delle istituzioni Clintoniane e Obamiane, subito
rifiutate dagli “elettori meno istruiti e meno abbienti”.
Il commentariato globalista non solo è
disgustoso nelle sue vittorie (ricordate l’entusiasmo per la “Primavera
Araba”, per il “cambio di regime” sanguinoso in Ucraina e per l’omicidio
di Gheddafi), ma è deplorevole e impenitente anche nelle sue sconfitte.
Da parte degli opinionisti più accreditati nessun esame di coscienza,
nessuna critica sui propri errori.
C’è solo la buona vecchia demonizzazione.
Prima era la demonizzazione di Putin, poi della Russia e del suo popolo che vota per lui.
A seguire c’è stata quella di Trump e ora quella del popolo americano che ha votato per Trump.
Il “Trumpiano” è presentato nello stesso
modo in cui i nazionalisti ucraini hanno descritto la popolazione delle
regioni pro-Russia prima di arrivare al potere a Kiev, e cioè come
“meno istruiti e meno abbienti”.
Per il commentariato liberale, il nemico
demonizzato può facilmente diventare l’oggetto della “diffamazione”,
vedi la cronaca del Washington Post su Trump e i Trumpiani negli ultimi
mesi.
Le masse demonizzate possono diventare
anche un obiettivo nel mirino di una “guerra giusta” condotta dai
“liberali” e invocata dal commentariato, vedi il ginepraio delle regioni
della Ucraina pro-Russia.
Prendendosela con i votanti “meno
istruiti e meno abbienti”, il commentariato non mette mai in dubbio la
sua educazione, di solito molto ideologizzata e unilaterale, e le
origini della propria ricchezza.
Chissà come, sono i quotidiani liberali
russi, quelli che si suppone siano in difficoltà (Vedomosti, Kommersant,
eccetera), ad offrire ai loro giornalisti i migliori salari a Mosca.
Tuttavia, nessuno delle migliaia di
giornalisti negli USA che hanno scritto articoli sulle armi di
distruzione di massa nelle mani di Saddam Hussein, nessuno di loro, è
stato licenziato.
Ma tanti sono stati licenziati per
errori molto più piccoli, specialmente se potevano essere visti come “di
beneficio per Putin” o per qualche altra figura demonizzata dal
commentariato.
In ultima analisi, i membri del
commentariato non lasceranno gli USA, non credo vedremo molti
Trumprofughi perché, a differenza di Obama e di Clinton, Trump
difficilmente perseguirà chi lo ha criticato sui giornali, nonostante
questo criticismo sembrasse più che altro fatto di insulti e calunnie
(ricordate il Washington Post, che lo definì “maiale sessista”).
Per la stessa ragione, i critici
liberali di Putin lasciano la Russia solo per un momento, se vengono
offerti loro lavori più sostanziosi da qualche parte in Estonia,
Washington o Londra. Così, tanto per dire della “repressione politica”
in Russia.
Nel frattempo gli esponenti della “nuova
Ucraina”, dove le regole del gioco mediatico sono molto più dure e
sanguinarie che in Russia, stanno già cancellando i post anti-Trump nei
loro profili Twitter e Facebook.
Il ministro degli interni Arsen Avakov
ha improvvisamente cambiato la sua opinione su “Trump come pericoloso
emarginato”; sul suo profilo Facebook, una foto di Trump che baciava
Putin è scomparsa dalla sua pagina, e il leader del partito Radicale
dell’Ucraina Oleg Lyashko ha smesso di considerare il vantaggio di Trump
rispetto alla Clinton come una “catastrofe”, non appena la vittoria di
Trump è diventata evidente.
La storiella popolare in Ucraina e
Russia dice che un Maidan contro i “brogli elettorali illiberali” negli
Stati Uniti non sia possibile per una semplice ragione: non c’è
un’ambasciata statunitense a Washington ad appoggiarla!
Ma certamente ha senso vedere adesso i
lamenti disgustosi di questa gente: questo è il modo in cui una persona
NON DOVREBBE perdere le elezioni.
*****
Articolo di Dmitry Babich pubblicato su The Duran il 10 novembre 2016
Traduzione dall’inglese a cura di Chiara per SakerItalia.it
[Le note in questo formato sono del traduttore]
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