La FLC CGIL ha redatto in questi giorni un interessante
rapporto che denuncia come nel corso degli ultimi cinque anni le tasse
universitarie siano aumentate del 75%. La tassazione media delle
università italiane si aggira intorno ai 1.500 euro all'anno per
studente. Con picchi più alti negli Atenei del Nord Italia: dai 1.802
euro chiesti dal Politecnico di Milano ai 1.614 della Statale milanese.
Più economiche, invece, le rette nelle università del Sud. A Potenza
l'università della Basilicata chiede 490 euro all'anno per studente,
mentre a Catanzaro le tasse della Magna Grecia non superano i 532 euro. E
questo a causa dei minori trasferimenti statali decisi dai Governi che
si sono via via succeduti dal 2009 a oggi. Si pensi che il Fondo di
finanziamento ordinario degli Atenei (Ffo) solo tra il 2012 e il 2013 ha
subito, per ragioni di spending review,
un taglio secco del 4,6%; se si guarda al al 2011 la percentuale di
minori trasferimenti addirittura balza al -11%.
E proprio nei mesi
scorsi il governo Renzi aveva tentato il colpaccio, raschiando il fondo
del barile con l’ulteriore riduzione di 30 milioni nel 2014 e 45 milioni
nel 2015 per le risorse del suddetto fondo. Alla faccia del diritto
allo studio! Solamente la levata di scudi da parte della Conferenza dei
Rettori delle Università italiane ha evitato il peggio. Sono proprio
questi a bollare come “insostenibile” la situazione finanziaria
determinata dalle continue sforbiciate agli stanziamenti per gli Atenei.
Ed espongono una denuncia importante:
Il finanziamento del diritto allo studio per il 2014 è a percentuali ridicole e la copertura dei capaci e meritevoli per l’anno in corso è attorno a una media nazionale del 60%. A ciò si aggiunga che manca una qualunque politica seria della residenzialità universitaria, la sola che garantirebbe la sostenibilità per le famiglie di studenti che si iscrivono alle Università.
Morale della favola,
lo Stato taglia i fondi alle università e queste si rivalgono sulle
famiglie, portando a livelli intollerabili il costo dello studio
post-diploma. Non è quindi un caso che l’Italia si ritrovi all’ultimo
posto dell’Unione Europea per numero di laureati. Nella fascia fra i 30 e
i 34 anni solo il 22,4% ha conseguito il titolo di “dottore”, contro
una media Ue del 36,8%. Sopravanzano l’Italia anche la Romania (22,8%),
la Croazia (25,6%) e Malta (26%). Ai nostri Atenei spetta perciò la
maglia nera nella capacità di sfornare laureati, ma hanno quella rosa
nello scaricare i costi dell’istruzione terziaria sugli studenti e sulle
loro famiglie.
L’università italiana è tra le più care d’Europa: nella
classifica Ocse risultano più costose soltanto Inghilterra e Olanda, ma a
fronte di borse di studio per la gran parte degli iscritti, mentre da
noi i fondi per il diritto allo studio non arrivano nemmeno al 20% degli
studenti.
Insomma, siamo molto lontani dalla media
europea per quanto riguarda l’attenzione alla formazione del capitale
umano: ma siamo addirittura anni luce dietro alla Scandinavia, dove gli
studenti non pagano nulla. In Danimarca e in Svezia chiunque si voglia
laureare ha diritto, udite udite, a una borsa di studio di 900 euro al
mese: un vero stipendio! E alcuni dei 52 Atenei svedesi sono tra le 100
migliori università del mondo.
A questo si aggiunge la piaga della fuga dei cervelli: ogni anno 5mila neo laureati lasciano il Belpaese per l’estero.Esiste
anche la fuga degli over40, un fenomeno in via di espansione secondo il
Centro Studi Cna. Tra il 2007 e il 2013, dall'Italia sono emigrati
all'estero in 620mila, quasi il doppio rispetto ai 7 anni precedenti.
Solo nel 2013 hanno varcato i confini oltre 125mila adulti (79% in più
rispetto al 2012). Una lenta ma inesorabile emorragia di competenze, di
professionalità e di maestranze, a favore della concorrenza straniera.
Quello
che fa soffrire è vedere un Paese in forte crisi che rinuncia a
sostenere i propri giovani con l’istruzione e la formazione. C’è da
domandarsi cosia sia rimasto dell’afflato pronunciato da Piero
Calamandrei, le cui parole risuonano come macigni nel silenzio di
Parlamento intento solo ad autoconservarsi:
La scuola, come la vedo io, è un organo costituzionale. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione… La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine.
Leggendo
queste parole sorge il dubbio che i nostri Governi, tagliando i fondi
all’istruzione, cerchino scientemente di indebolire la popolazione,
rendendola docile al destino preconfezionato da pochi: cittadini con
bassa scolarità hanno infatti una coscienza civica facilmente
manipolabile. Questa, purtroppo, è un’altra questione alla quale potrà
rispondere soltanto la Storia.
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